domenica 20 novembre 2022

The menu: la nostra recensione di uno stranissimo “film ad alta tensione culinaria”, con alcune suggestioni vicine al cinema di Ferreri, con Ralph Fiennes nel ruolo di un luciferino chef stellato


America, tempi odierni. Su una piccola isola misteriosa a cui si accede solo su invito con un’imbarcazione privata, esiste il ristorante più esclusivo al mondo, il regno dello chef Slowik  (Ralph Fiennes). Qui lo chef vive con i suoi aiutanti in casette immerse nel verde, coltivando personalmente frutta e ortaggi, allevando animali e pesci e realizzando prodotti caseari, vino e olio, facendo uso della tradizione quanto delle tecnologie più all’avanguardia. Con questi materiali di eccellenza si creano e servono piatti che lo chef e la sua ciurma di prestigiosissimi cuochi garantiscono solo a una strettissima e ultra selezionata clientela, dando vita a menù unici, arditi, altamente personalizzati e indimenticabili.

Sulla nave che porta verso il ristorante oggi sono a bordo critici di fama internazionale, attori, imprenditori e miliardari. C’è in lista solo un nome diverso rispetto a quanto in precedenza scrupolosamente concordato e predisposto: la giovane Margot (Anya Taylor-Joy). Una ragazza che all’ultimo minuto ha sostituito l’accompagnatrice di Tyler (Nicholas Hoult), un eccentrico super estimatore della cucina di Slowik. Arrivati sull’isola, dopo un tour pomeridiano intorno all’isola e un incontro diretto con i membri della cucina, inizia la cena, con Slowik grande anfitrione in una sala che collega i tavoli con le postazione di cottura. Tra la possibilità di poter “assaporare e non semplicemente magiare” piatti che sono a tutti gli effetti dei “piccoli ecosistemi” e pietanze “de-costruite”, il gruppo di commensali, portata dopo portata, viene trascinato all’interno di un viaggio degustativo e “artistico” dai contorni sempre più estremi, filosofici e inquietanti. Un viaggio in cui davvero tutti su quell’isola potrebbero prima o poi diventare una “pietanza” di quella stessa cena. Il menù della serata sarà una esclusiva “sorpresa” creata dallo chef, dalla prima all’ultima portata. Nessuno potrà lasciare l’isola prima del dolce. 


Mark Mylod, regista di Entourage, Shameless e Game of Thrones, insieme agli sceneggiatori Seth Reiss e Will Tracy, tra i pazzi autori del fenomeno satirico The Onion (una specie di “giornale satirico e surreale” nato nel 1988 in ambito studentesco e poi diventato negli anni, tra acquisizioni di Dreamworks, Comedy Center, Michael Bay e Indipendent film channel, anche un vero e proprio “telegiornale” simile alla primissima versione di Striscia la notizia), decidono di dare vita a una sulfurea rappresentazione a tinte horror della nuova “cultura del cibo” che da alcuni anni, andando ben oltre la Guida del Gambero Rosso, imperversa in tv e sul web a colpi di concorsi di cucina stile Master Chef e Bakeoff, i documentari di Discovery Channel  e i programmi della sempre bellissima Benedetta Parodi (che ancora oggi, con le repliche di I menù di Benedetta e i suoi completi da cuoca/casalinga sexy con tacco 12, fa da sola l’80% della programmazione di La7d). È tutta una gara tra cuochi, cuochi che aiutano altri cuochi a risollevare o pubblicizzare la loro attività, cuochi esordienti e cuochi ballerini, cuochi contro critici culinari, amanti della buona tavola che diventano critici che diventano cuochi. Non mancano nel “circo mediatico” naturalmente gli chef stellati in quanto esperti massimi di un’arte dall’aria quasi mistica, emanazione del loro stesso carisma a partire dall’uso delle parole per poi esprimersi con una sicura manualità e la raffinatezza della creazione di ogni piatto . Sono loro le “star”, quelli che spingono sempre più persone a comprare i mille prodotti che reclamizzano e fantasticare un giorno di varcare le soglie magiche del loro super esclusivo ristorante ultra-stellato. Il luogo massimo dove provare qualcosa di unico al mondo, magari avendo l’ardire di cimentarsi con la cucina molecolare, la gelificazione, i piatti concettuali e tutto quello che, nella più spinta astrazione, può alimentare maggiormente in quanto “ forma artistica” che effettivo nutrimento proteico. Un cibo/arte per l’anima più che per la pancia, affascinante all’occhio ma severo al palato, in quanto “critico e non consolatorio” sulla natura di quello che siamo e mangiamo “del mondo che ci circonda”. Un “sogno più che un bisogno”, magari a detrimento di quella nostalgia affettuosa con la quale il cibo/alimento sa portarci “a casa”, verso i sapori più codificati della nostra infanzia, per darci l’energia per ripartire. Ma è tutto per “il nostro bene”, per l’arte. Il grande e mai troppo celebrato Marco Ferreri, che alle gioie e simbologia del cibo ha dedicato la sua Grande Abbuffata e lo stranissimo La Carne, approverebbe (come approverebbero i Monty Python de Il senso della vita) che si tornasse un po' a parlare in sala del cibo come nutrimento: proteico, emotivo e spirituale. Ce lo chiederebbe anche la sempre nostrana ma un po’ sopita passione anni ‘70 per i film sui cannibali, che simbolicamente sono sempre “film sul cibo”, servitici da maestri come Deodato e Fulci. Ma per ora torniamo ad una “culinaria più tradizionale” e al presente . Una volta negli anni '70 e '80 in tv si parlava per lo più di poliziotti e avvocati, poi dai '90 si è iniziato a parlare solo di medici, ora da qualche anno si parla per lo più sono di cuochi e allora, oggi più che mai, in ragione di quello che è diventato quasi un fenomeno di “ipnosi di massa”, dove la cucina diventa l’unico luogo sacro al mondo, il cinema deve incontrarsi e scontrarsi “per forza” con il mondo della ristorazione attraverso la sua forma più “astratta e problematica”: l’horror movie. Il genere che più sarcasticamente  fa scattare “ i campanelli d’allarme”. 


Disney sembra ancora ieri che ci coccolava con la sua tenera e nostalgica Ratatouille servita dal “piccoli chef” dello Pixar Studio, in grado di sciogliere l’animo anche del critico più duro e annoiato. Oggi Disney ci mette a contatto con uno chef molto diverso, terribile, quasi un mad doctor di Hammeriana memoria. Un tipo glaciale e teatrale come Slowik, che quando va bene appare come il più tenero e “burtoniano” Vincent Price e quando “va male” sembra Dieter Laser, “diabolico demiurgo artistico” in The Human Centipede. È un maestro assoluto, un padre autorevole, un novello Prometeo, filosofo e rivoluzionario: il massimo sacerdote dell’arte della ristorazione. Attorno a lui, il capo brigata, una schiera di accoliti adoranti, robotici nella precisione dei movimenti e fanatici nella immediata risposta marziale “si chef!” a seguito di ogni richiesta, pure la più folle. Sono la degna progenie dei “minions” degli ultimi incubi cinematografici di Ari Aster e del Red State di Kevin Smith.  Ralph Fiennes, uno degli attori più bravi e versatili dei giorni nostri, non poteva che essere la scelta giusta, con in curriculum una ricca e onorata rappresentativa di mostri “da film horror”, dal terribile Amon Goth di Schindler’s List al signore oscuro del mondo di Harry Potter, Voldemort. Fiennes fa suo Slowik e lo rende un personaggio ricco di sfaccettature, grandioso nelle movenze ma anche umano nei piccoli dettagli, come gli occhi e il modo gentile di porgere le mani. Una creatura terribile ma anche fragile, rinchiusa in un “ruolo di antagonista” per il quale lui stesso si è auto-esiliato dal mondo, “raschiandosi di dosso” la propria umanità in virtù di diventare un simbolo, essere uno strumento artistico di se stesso. Un perfetto villain per la sempre incantevole e mai banale Anya Taylor Joy, alla quale il rispettivo/speculare ruolo di final girl sta ovviamente stretto, dando vita ad una anti/eroina complessa e contraddittoria, che vive di dinamiche interne oscure che una volta “riconosciute”, nell’incontro/scontro con il personaggio di Fiennes, divengono vertiginose, sorprendenti, gustosamente sopra le righe. L’incognita autentica e forse non del tutto (volutamene) a fuoco di questo horror/thriller culinario cucinato ad arte dal regista e dai suoi satirici sceneggiatori rimane il pubblico dei commensali. Visivamente trionfa lo spettacolo del cibo più eccentrico servito nel modo più eccentrico, viene bene resa la paura narrativa e lo stupore splatter del teatro del grand guignol, si vive un clima gustoso di misteri e sospetti, ma i commensali sono il tocco più spiazzante. 


Rappresentano  un piccolo mondo antico di “abitudinari degli spettacoli culinari”, tra distratti e annoiati frequentatori del lusso e intellettuali in cerca di stimoli eccentrici e contraddittori da bacchettare facilmente o elogiare con proprie invettive, compiendo ampi e compiaciuti voli pindarici. Un piccolo mondo eterogeneamente triste, percorso da una mai troppo celata vena masochista che li vede sempre, subito pronti a mettere a rischio la propria stessa esistenza, pur di essere sorpresi da qualcosa che sia una scintilla, un lampo creativo che li distragga dalla quotidianità e li faccia sentire davvero “vivi”. È con questo spirito di vittime inermi che si affidano in tutto e per tutto al padrone/carnefice, alla ricerca dello spettacolo che offrirà un senso alla loro vita, al punto che può diventare difficile e strano per il pubblico provare empatia per i clienti di Slowik e in questo The Menu si avvicina di nuovo a Ari Aster, andando dalle parti di Midsommar. Davanti a ogni stranezza o crudeltà i commensali ripetono il mantra “fa tutto parte dello spettacolo, sarà tutto finto” e rimangono seduti, in attesa, a leggere filosoficamente la circostanza di aver pagato centinaia di dollari per leccare poco più che un sasso quanto la circostanza di assistere a un suicidio che “deve essere per forza finto”. Mark Mylod ci provoca e la provocazione riesce fino agli esiti finali, un po’ “liturgici” come l’horror impone ma non banali, di un film che rimane stranissimo, ben costruito ma anche altre volte spiazzante. Spiazzante a partire da una produzione e cornice all-star di super lusso, molto bella e raffinata, quando simili “idee narrative” in genere vengono contenute nei costi e nello sfarzo da piccole produzioni indipendenti. Spiazzante per la volontà di essere un film disturbante e poco consolatorio, più che fiero di andare oltre le righe e apparire eccentrico. Spiazzante del suo messaggio finale, che però non posso farvi il torto di rivelarvi. Di sicuro non è un film che fa rimanere indifferenti a fine visione, è un film di cui è bello parlare, confrontarsi, scoprendo magari con gli amici che è un film così controverso che lo si può amare o odiare senza problemi a giorni alterni. Per questo The Menu, nelle sue ricercate imperfezioni e assurdità, è un’ottima occasione per andare in sala e farsi trascinare nella sua follia. Dalla prima all’ultima portata. 

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1 commento:

  1. Ari Arister ha infuso nella nuova cerchia di appassionati una stranissima cosa, io la chiamerei stupidità ma lasciamo stare, il fatto che ora si pensa che esista (sia nato ora) un horror elevato (elevated horror infatti) che psupera tutto il resto. Ti lasacio cercare un'intervista a Carpenter, capirai cosa intendo. Per il resto parlando di questo film, di sicuro andrò al cinema per vederlo, visto che il regista mi era piaciuto con The Big White nel 2005

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