Prima della visione ci viene da pensare
al film dell’anno scorso, alla super esposizione mediatica che ancora oggi per
il sessantesimo gode giustamente il personaggio delle sorelle Giussani e a
tutto il potenziale filmico che per anni poteva regalare al nostro cinema “di
genere” un anti-eroe come Diabolik. C’era stato un primo “vagito” con il
super-camp film di Bava, seguito dalla parodia di Johnny Dorelli Dorellik, ma
poi tutto è finito, rimasto inespresso, nei meandri produttivi e in un’idea di
“cinema italiano” che negli anni si è fatto sempre più “minimal”, da commedia
intimista familiare tipica a tre: Fabio Volo, Ambra Angiolini e una pianta
grassa, con ambientazione borghesuccia in un appartamento della Garbatella. Un
cinema che si è come sempre più vergognato di “essere di genere”. Ci mancano
sempre più i ruggenti e scorretti anni sessanta di Milano a Mano Armata,
Sartana non perdona e di Non si sevizia un paperino. Ci basta vedere in una
scena di Orlando, del 2022, di Vicari, un Michele Placido che indossa un
berretto colorato alla Thomas Millian/Giraldi per sognare pure oggi, al di là
di ogni senso del reale, un nuovo Squadra antifurto. La trasgressiva
cattiveria di un eroe anticonformista come Diabolik riesce però ancora oggi a esprimere su carta quei ruggenti anni '70. In mano alle “persone giuste” del cinema
quel mito, ancora oggi, può riecheggiare, come ci ha confermato la
pellicola su Diabolik di poco tempo fa, a firma dei fratelli Manetti, prodotta
da Rai e Mompracem. Ci era piaciuto molto quel Luca Marinelli che dopo lo
Zingaro di Lo chiamavano Jeeg Ribot si cimentava nei panni del silenzioso
Diabolik. L’attore romano si era distinto per l’interessante lavoro che aveva
fatto per conferirgli una voce “neutra ma duttile”, per le sue movenze rigide e
scattose. Per la freddezza, ma pure lo sguardo quasi fanciullesco che rivelava
quando svelava la sua identità a Eva Kant, togliendosi la
maschera/protezione/“coperta di Linus” ed elaborando l’etica di considerare
tutto il mondo, ma non la propria amata, come “il nemico”. Un
mondo/nemico da uccidere se necessario e tramortire se possibile ma comunque un
nemico, da osservare con gli occhi del leone che guarda una gazzella. Gli
stessi occhi di ghiaccio “dai quali scrutare la profondità degli abissi” che
Diabolik non a caso condivideva con Eva Kant. Ci eravamo innamorati di
conseguenza degli occhi dell’Eva Kant di Miriam Leone subito, come un colpo di
fulmine, stregati dallo sguardo ma pure dal suo sorriso, dalle forme e movenze
aggraziatamente giunoniche, rimanendone psicologicamente affascianti della
“doppiezza”: dal suo essere consapevolmente, contemporaneamente (anche più di
Diabolik) “angelo e diavolo”, regale e di umili origini, timida all’apparenza
quanto “di ghiaccio” nei fatti. Ci erano piaciute la malinconia e la calma
estrema, quasi da bomba inesplosa, del commissario Ginko, un eroe
perdente in quanto ingranaggio di una società tentennante ma pieno di valori, a
cui Valerio Mastrandrea donava incredibile umanità e tormento. Se poteva
esserci un brano perfetto per descrivere in musica il personaggio di Diabolik,
quello è stato di sicuro il duro ma sognante La profondità degli abissi di
Manuel Agnelli, il pezzo rock dei titoli di testa della pellicola, manifesto
del cuore di tenebra che pervade il personaggio, senza forse che lo stesso ne
comprenda limiti e implicazioni. La regia dei Manetti, faceva largo uso delle
tecniche di ripresa dei loro (e nostri) animati polizieschi, tra inseguimenti a
sirene spianate e cambi di scena “a schiaffo” dopo le sparatorie, con un
particolare amore per i paesaggi urbani desolati di provincia. Si creava poi un
tempo sospeso attraverso un montaggio dilatato e “rallentato”, dove magicamente
con pochi ritocchi grafici le città italiane odierne si trasformavano in una
Clerville anni ‘60/‘70 e dove servendosi di trucco e recitazione consciamente
sopra le righe, “ampollosamente provinciale”, i Manetti sapevano
descrivere e dava voce a un piccolo universo lombrosianamente anni ‘70, che
coinvolgeva tanto la caratterizzazione dei personaggi del ceti più alti quanto i “buffi ma umani” poliziotti e gente comune. Dettagli gustosi e
coerentemente rivolti a ricreare un mondo narrativo preciso e fedele alle
atmosfere delle nuvole parlanti originarie, senza cercare quasi mai di
adattare “oltre l’opera” per “trasformarla in cinema”, seguendo lo spirito
integralista (da molti non amato) di Sin City di Rodriguez/Miller, fino
a cavalcare all’estremo il peculiare linguaggio a vignette delle Giussani,
tavola per tavola, nella propria “ingenuità e freschezza”, dalla
staticità delle vignette/inquadrature “ferme” laddove era racchiuso in origine
un lungo testo di dialogo, al suono onomatopeico inconfondibile dei coltelli
che squarciava la tavola a metà, passando agli effetti speciali impossibili
delle strade che dal nulla nascondevano trampolini e molle, più simili
alle illustrazioni umoristiche della settimana enigmistica che a dei congegni
realistici di un Batman: con quei pietroni che alzavano le carrucole che
facevano accedere ai nascondigli segreti del ladro. Il lavoro dei
Manetti faceva anche di necessità virtù un budget non paragonabile
a un film di Nolan, scegliendo al posto del realismo prospettive
gustose come il “weird” e il “camp”, che hanno reso così sincero quanto non
realistico, ultra-fedele quanto originale, quel numero 3 della serie originale
a fumetti di Diabolik che era base della pellicola. Anche nei suoi momenti più
“horror”, come la stanza delle teste/maschere scoperta dalla “finta moglie”,
anche dove possiamo sognare che il nostro eroe possa parlare con la sua amata
solo con gli occhi, seguendo il codice morse, per ore e ore, durante la scena
del tribunale. Poi il numero 3 cosi interessante riprodotto finiva “come trama
singola”, strutturalmente, con ultimata la sua trasposizione esatta in scala 1
a 1, ma il film no. Non poteva finire perché eravamo ancora sui 70 minuti
scarsi. I Manetti rintuzzavano la trama fondendola così con un secondo
episodio, proveniente drammaticamente da un’epoca e autori diversi, un’epoca
meno “sovversiva” e scoppiettante anche per “ragioni anagrafiche di censura
sopravvenuta” in tempi più moderni/mosci. Questo racconto risultava legato
malino, un po’ appiccicaticcio, molto lontano dal grande fascino misto a follie
della prima parte del film. Ma era pure un episodio drammaticamente bruttino,
troppo parlato e statico, noiosissimo salvo un veloce guizzo finale che
risvegliava la sala del cinema da un legittimo sonnellino, quel tanto che
bastava per esprimere anche solo “ginnicamente” le abilità del personaggio per
un’ultima volta e ascoltare la bella canzone di coda sempre a firma Manuel
Agnelli. Quindi alla fine della visone l’idea era che Diabolik si poteva fare e
bene “così come era a fumetti”, anche oggi, se si seguivano soprattuto le fonti
giuste. Ed è stato confortevole constatare fin dalle prime indiscrezioni che il
secondo film sarebbe stato tratto da un altro bellissimo albo a fumetti, il
numero 16, scritto ancora negli anni “caldi”, dal titolo “Ginko all’attacco”.
Un numero che al cinema avrebbero “allungato”, con elementi che sarebbero poi
tornati nella terza pellicola, ma senza lo “stacco netto” narrativo di cui
pativa il primo film (con tanto di lunga dissolvenza di nero che aveva spinto
qualcuno ad abbandonare la sala). Ma partita la produzione della pellicola
numero 2 ecco che è arrivato pure uno sfigatissimo smacco: niente Luca
Marinelli per motivi ancora nebulosi (la Storia ce li racconterà...), ma pure
per pregressi impegni all’estero, tra il progetto The Old Guard e il film,
attesissimo, le Otto Montagne, che lo vedrà a breve a fianco di Alessandro
Borghi. Quindi è arrivata la necessità di cambiare il volto a Diabolik,
scegliendo quasi all’ultimo minuto un attore di Grey’s Anatomy,
l’italoamericano Giacomo Giannoni. Un attore dal fisico parecchio più imponente
di Marinelli, troppo, quasi un wrestler, “massiccio”nquanto davvero
inquietante nei momenti in cui vuole apparire minaccioso, riuscendo a non
sfigurare davanti ad un orco dell’horror slasher come Michael Mayers. Ma
torniamo alla sala prima della visione del film, dove già dai trailer
siamo certi che al calare delle luci vedremo la Eva Kant della Leone
confrontarsi sulla scena con una Altea, la baronessa straniera amata da Ginko,
interpretata da un’altra grande donna del cinema italiano: Monica
Bellucci, per l’occasione con lenti a contatto azzurre. Confidiamo (e saremo
smentiti) che la trama si faccia più sexy (memori delle scene della Leone in
sottoveste trasparente del film precedente, che qui non rivedremo), evocando
magari uno scontro “sognante”, da cat fight alla Pam Grier in piena
blackspoitation ‘70 (ma saremo nuovamente delusi). Poi partono i titoli
di testa e arrivano i titoli di coda. Ci riprendiamo.
La storia risulta molto fedele al
fumetto, anche sul lato “weird/camp” e funziona effettivamente molto meglio che
nella prima pellicola, è più omogenea. Da sogno le super poliziotte, ballerine
ed esperte di judo, dello spettacolo Smeraldo (che sembra un tenero e
nostalgico teatrino di avanspettacolo di spettacoli sexy-oratoriali stile La
Bustarella, con tanto di un presentatore che fa battute oggi
“politicamente con corrette” con lo stile di Ettore Andenna), che aprono le
danze in pura expoitation. Sgambettano coperte di gioielli nel balletto che
accompagna la bella e “bondiana” nuova canzone di Deodato per poi con la loro
avvenenza dare voce al gustosissimo e “pierinesco” cameo di Andrea
Roncato. Poi scompaiono e ci accorgiamo con dolore di quanto Giannoni sia
terrificante. Terrificante in “modo buono”, quando si dimostra fisicamente
imponente e sinistro come anticipato. Subito il “weird factor” schizza quando ci
rendiamo conto che un “armadio” come lui, possente anche solo per le chiappe
marmoree enormi, per le leggi della fisica quanto per le taglie della sartoria,
non potrebbe mai camuffarsi realisticamente da altre persone (perché Diabolik
questo fa spesso… si camuffa con maschere e vestiti altrui per nascondersi e
compiere i furti), a meno che non siano wrestler come Brock Lesner. Ovviamente
i Manetti lo fanno camuffare proprio da personaggi così mingherlini che rendono
il tutto più surreale ancora, ma in questa follia fanno benissimo!! Purché
tutti gli altri attori chiamati a impersonare Diabolik quando lui “si finge
qualcuno di diverso” recitano meglio!!! Il problema vero è che Giannoni è
davvero molto, molto più terrificante quando provano a renderlo
espressivo, facendolo interagire con gli altri attori. Il viso e un
blocco di granito perfettamente circolare con dipinti due occhi blu e
l’attaccatura dei capelli a V che pare uscire da South Park. Miriam Leone compie
degli sforzi pazzeschi per provare a renderlo “quasi umano”, come quelle
ballerine di Ballando con le stelle che piroettano intorno a vecchie star
ottuagenarie fino a dare l’impressione, per moto ondulatorio, che pure
l’ottuagenario, in realtà fermo come un tronco, sappia ballare. È un’impresa
disperata quanto amabilmente surreale, che solo una attrice bellissima come la
Leone riesce portare in porto calamitando tutti gli occhi su di sé e non sul
“mascherone alla South Park”, giocando su seduzione (e l’aiuto dalla regia di
abili controcampi volti a inquadrare il volto di Giannoni davvero il meno
sindacalmente possibile). Invece risulta un artificio “weird e camp” geniale
implementare il modo di parlare tutto particolare e sensuale di Monica Bellucci
con un accento asburgico a caso, conferendole un fascino simile
all’italo/francese che Corinne Clery sfoggiava in Yuppies a fianco di Ezio
Greggio. Con Mastrandrea che in quelle scene è pure lui un po’ Ezio Greggio,
cosa che non è per forza un male, al netto però del fatto che l’attore romano
nel resto delle scene tiene da solo con tenacia tutta la baracca. Ginko è
protagonista fin dal titolo del film e non a caso. La trama è creata per
metterlo sempre più a risalto per doti di comando e professionalità, e
per contrasto confermare quanto il resto della polizia di Clereville sia
formata poco più che da “buffi minions”, quanto i carabinieri della serie tv di
Don Matteo. Ginko si arrabbia e dispera ed è veramente solo contro il mondo, ma
sa essere geniale, titanico nel modo in cui prova a gestire la partita contro
Eva e Diabolik giocando al meglio le sue carte pur conscio che siano
“truccate”, come le carte che può giocare il parimenti stoico Zenigata contro
Lupin III. Ci si affeziona a Ginko che promette di chiedere la mano alla
baronessa solo quando avrà sconfitto Diabolik, e per questo motivo sta sempre
lontano dalla Bellucci a cadere pensosamente e disperatamente in un vicolo
cieco dopo l’altro, spesso per incapacità manifesta dei sui “minions”, qualche
volta per l’ego di superiori che dall’alto pretendono senza mettersi mai in
gioco. Ginko: uno di noi. Restiamo invece in “tema cartone animato Lupin III”
per le fenomenali musiche della soundtrack, dall’animo prog rock più spinto
del primo capitolo, composte da Aldo e Pivio De Scalzi, che citano pure i “flauti
da spy movie” della colonna sonora originale di un altro classico cartone
animato giapponese: Daitarn III. A livello acustico il film è una bomba
dall’inizio alla fine, pure con richiami ai Goblin. Non da meno risultano buone
le scene d’azione, realizzate con lo stesso stile “fantasioso” della prima
pellicola, con meccanismi weird alla Austin Powers (o da Bond dell’era Moore/
giocattoli Mattel del Big Jim) ma con classe, in uno stile preciso che ricalca
al meglio le scelte visive del fumetto. Buone, molto buone le scene più
“horror”, tanto per la fisicità di Giannoni quanto per il favoloso sguardo
gelido che sa sfoggiare la Leone (chissà se la noteranno per questo talento e
presto non la vedremo pure in Blumhouse..).
Tirando le somme, Diabolik: Ginko all’attacco! offre una buona evoluzione narrativa della pellicola del 2019. Buona la colonna sonora di Aldo e Pivio De Scalzi, buona la canzone “bondiana” di Deodato, più fluida e unitaria la trama, molto brava la Leone come Mastrandrea. Terrificante, sia in senso buono che cattivo, Giannoni, che sapientemente i Manetti gestiscono sfoggiandolo come Diabolik/fisico per le scene più ginniche e muscolari per poi far interpretare il Diabolik/parlante “con la faccia di qualche altro attore”, appena il classico gioco narrativo delle maschere lo permette. Weird e Camp a manetta per l’accento asburgico della Bellucci, il cameo pierinesco di Roncato, le star del balletto Smeraldo come per tutte le scene “fantasy” fatte di carrucole, pupazzi, trappole misteriose e rocce che nascondono nascondigli come un playset di Big Jim del 1979. L’ambientazione pesantemente calata negli anni ‘60 e ‘70, tra telefoni a gettoni e tecnologia ultra-vintage, parrucconi e auto d’epoca, alimenta a dismisura l’effetto amarcord per chi aveva tra le mani i fumetti delle Giussani da cui la pellicola è tratta al momento della loro pubblicazione in edicola. La via dell’assurdo è per noi la via giusta e il Diabolik dei Manetti la percorre deciso sulla sua Jaguar E a fianco di una bellissima Miriam Leone. Lasciate ogni speranza voi che vi aspettate il Batman di Nolan, qui, di nuovo, non lo troverete. Chi come noi ama la follia degli anni 60/70 tra Bava e la Bat-Dance, passando tra il Monnezza e la commedia sexy, in questo mar ci sguazza felice e tra il dolce naufragare è subito sera. In attesa del numero tre.
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