Il
regista Elia Suleiman, eroso dalla routine e dai soliti luoghi e persone della
sua terra, decide di lasciare la Palestina e girare il mondo, provare a
proporsi in Francia, negli USA. Almeno si risparmierà la visione del vicino di
casa che ogni giorno ruba la sua frutta e la gente che più che parlare urla.
La fuga di Suleiman risulta presto vana, perché scopre, fin dalle
piccole cose, che tutto il mondo sembra "funzionare allo stesso
modo", lo stesso caffè accompagnato da un dolcificante solo apparentemente
diverso. Tutto è uguale o speculare, ovunque ci si sente soli ed
"etichettati", la bellezza si nasconde nel silenzio e la paranoia
irrompe in una invasione sonora e visiva costante. L'ossessione di pulizia e
controllo si palesa nei luoghi e modi più impensati, materializzando poliziotti
su monoruota a caccia di chi cerca di portare a qualcuno un regalo floreale,
nel rumore del camioncino della spazzatura che segue a tre metri una parata a
cavallo ossessionato a raccoglierne in pochi secondi gli escrementi
ordinatamente e consequenzialmente da loro espletati. Se tutto è uguale nel
mondo, non si trovano ovunque creature come la bella portatrice di acqua
che con modo elegante e sinuoso, a piedi nudi e in abito tradizionale, cammina
muovendosi come in una danza, in pochi e misurati passi, avvolta nella natura
di un verde lussureggiante. Forse il paradiso è a casa?
Con
grazia ed eleganza, parlando di piccole cose e piccole paranoie, Elia Suleiman,
qui regista, interprete e autore a 360 gradi del film, confeziona una pellicola
quasi muta, un ambiente che si trasforma in una lunga sequenza umoristica che
scaturisce dal suo montaggio, dal modo di ritrarre il quotidiano e immaginare
al suo interno il surreale. Al centro della scena come Buster Keaton, un (muto)
Woody Allen o il più lunare Kitano, Elia si presenta come parte del paesaggio,
cercando di integrarsi o mimetizzarsi in esso, facendo il meno baccano
possibile, assecondando il modo in cui tira il vento. Ma non ci riesce alla
fine mai, rimane "esposto" insieme all'umorismo dei molti quadri
visivi, spesso davvero pittorici, di cui la pellicola è intrisa.
Il
paradiso probabilmente è un film che nelle sue "stanze visive"
simili a vignette umoristiche, culla e diverte per tutti i suoi 97 minuti,
senza che si avverta mai l'esigenza di un intreccio narrativo o di uno scenario
più costruito che vada "oltre il quadro". L'autore con rapide
pennellate arriva allo zenit comico, riesce a trascinarci nel suo senso
dell'assurdo/del quotidiano, riesce a commuoverci e a farci riflettere. La
fotografia sa intrecciare i colori caldi della natura e degli ambienti
più vissuti, "invasi dall'uomo", facendoli fraseggiare con i
non-luoghi freddi e asettici delle zone "di passaggio" come gli
alberghi o le "zone da tenere pulite" delle città. È tutta una lunga
e continua, contraddittoria, fuga e ricerca del chiassoso calore umano e
della silenziosa pace, con il sonoro che cerca di invadere il meno possibile
lasciando spazio ai mille rumori piccoli e assordanti del mondo. Tre scenari,
Nazareth, Parigi e New York, che partono alieni e si incontrano piano piano con
colori e suoni. Una identità culturale, quella di Elia, timidissimo
protagonista e uomo "in fuga nel mondo e da se stesso", che va con il
tempo a trovare pace e quiete con un trasporto e un'empatia che anche il
pubblico a fine pellicola si sentirà a casa, nella sua Nazareth, ammirando una
donna velata che porta l'acqua come una delle creature più belle del
mondo.
Abbiamo
bisogno come l'aria, oggi, del cinema garbato e umoristico di Suleiman. Un film
che non conosce barriere e bandiere e ci fa sentire tutti parte dello stesso
posto.
Godetevelo
nei suoi paesaggi e invenzioni visive e passate di qui a dirmi se è piaciuto
anche a voi.
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