martedì 13 febbraio 2024

La zona di interesse: la nostra recensione del glaciale ma straordinario film drammatico diretto da Jonathan Glazer

Vivere a pochi passi dal campo di concentramento di Auschwitz, come se oltre quel muro non ci fosse davvero nulla se non un impianto industriale: un luogo di ciminiere cupe e rumori invadenti di cui qualcuno deve occuparsi, pur lautamente pagato. 

Il “dirigente dell’impianto” è Rudolf Hoss (Christian Friedel), padre e marito esemplare, amante degli animali e delle gite in barca con tutta la famiglia. Un uomo affidabile e intelligente, stimato anche ai piani più alti, integerrimo e fedele alla causa.

La mattina esce per andare al lavoro in alta uniforme e a cavallo, come i principi delle favole, salutato dai suoi soldati festanti. 

La moglie, Hedwig Hoss (Sandra Huller), la autoproclamata “regina di Auschwitz”, è una sovrana impeccabile nel trucco e nei modi, esigente ma gentile con tutti i suoi servitori. Ama far rivestire ai sudditi/soldati il prato del loro “castello” con tutti i fiori più rari e profumati, seguiti e accuditi con il rigore e trasporto di una nuova Eden. 

Hedwig non può girare per il mondo dato il lavoro di grande responsabilità di Rudolf, i fiori e i figli, ma grazie ai molti beni che vengono incamerati nei suoi forzieri, dopo essere stati prelevati direttamente dalle case e valigie dei residenti del campo attiguo (che lei si immagina simili a maialini), Hedwig si sente coccolata e realizzata, pronta a dimostrare a sua madre che ha fatto molta più strada di lei nella vita. 

La residenza Hoss è un piccolo paradiso in Terra, tra prati rigogliosi fioriti, una piscina, un bosco attiguo con tanti animali, frutta e un corso d’acqua che pare uscito dalle favole. 

Certo ogni tanto qualcosa di “strano” emerge dallo sfondo, ma basta non badarci.

In fondo basta dimenticarsi delle urla angosciose che ogni giorno e a ogni ora salgono a un passo dal loro uscio. 

In fondo se il corso d’acqua si riempie ogni tanto di polveri bianche simili a ossa, per qualche sporadico e accidentale rilascio industriale, basta lavarsi bene. 

Ma l’idillio forse è destinato a finire: nuovi incarichi impellenti porterebbero a breve il sovrano altrove. La regina non è disposta a lasciare il castello ed è pronta a chiedere conto dello sgarbo al Furer. 

Rudolf un po’ cincischia nel farsi valere. 

Sarà la fine anche della coppia felice? 


La zona di interesse è un film tremendo, nel senso “bellissimo ma tremendo”. 

Va in scena la rappresentazione più diretta della “banalità del male” descritta dalla Arendt, una banalità che diventa “normalità” crudele anche per i famigliari del direttore SS di Auschwitz Hoss: bambini che collezionano denti d’oro estratti dai deportati come biglie, suocere che di notte al posto della luna osservano ammirate la luce rossa degli alti forni, mogli devote che non vogliono che il marito comandante, ottima “ape operaia”, venga trasferito e rinunci alla loro Villa con piscina, orto botanico e servitù; un benefit da lui “costruito” con il sudore e l’impegno da buon “dirigente aziendale”, dello stesso distretto industriale dove ancora oggi si trova la Siemmens, nonché le principali fabbriche di prestigio della “locomotiva economica” tedesca.  

In questa piccola villa si susseguono storie di quotidiana anormalità, di precisione meccanica, perfettamente ingegnerizzate nei ritmi e passioni dei piccoli e fintamente inconsapevole personaggio che le abitano. 

Un mondo perfetto pieno di cavalli, corsi d’acqua purissima nei quali fare gite in barca e feste assolate per tanti ospiti, all’ombra di un campo di sterminio che appare a questi “privilegiati” del tutto invisibile, omesso dallo scenario, benché allo spettatore visibilissimo ai margini della scena, come le quinte dietro al palcoscenico di un teatro. 

Una perfetta casetta americana prefabbricata e contornata da nuvolette finte disegnate stile Edward Mani di forbice, che nasconde male ben altro.

In sottofondo ci sono degli spari, urla. 

Di notte la scena cambia, siamo calati in uno scenario che ci viene presentato in bianco e nero, come ripreso da un visore ottico. La peculiare sfocatura di calore di questo filtro polarizzato ci fa immaginare di vedere non corpi, ma delle “animazioni” da libro illustrato: ci immergiamo di una favola diversa, dentro cui si muove tra piccoli cinghiali e scoiattoli, una ragazzina che ruba mele dal bosco, per nasconderle sotto terra e darle ai faticanti dei campi. 


Poesia nel buio di una favola gotica autentica, all’ombra del finto “mondo da favola” in cui credono per auto-induzione solo i carnefici, che scena dopo scena si disumanizzano sempre di più in un autistico e meccanico “coprire gli spazi”.  

Una musica angosciosa ci accompagna un po’ straniti in questo viaggio visivo ed emotivo bipolare, che si spinge più volte (cercando una via di fuga morale?) dentro i neri assoluti di una scena che si spegne di ogni colore e passione, catatonica, mantenendo per qualche secondo in sottofondo solo cori sinistri, rumori di docce e gas che vengono irrorati. 

Molto bravi tutti gli attori nel loro nascondere emozioni umane anche basilari, muovendosi come piccoli orchi biondi vestiti a festa a pochi passi dalla morte altrui. Anche ridendo di se stessi e della loro cattiveria. A volte chiudendo le tende per non affrontare direttamente la realtà, come istruiti rigorosamente e “regalmente” a farlo: dimenticare e andare avanti per continuare a baloccarsi nel loro mondo di cavalli, principi e ricchezze.

La fotografia è molto geometrica, gioca con spazi netti e fabbricati ad arte per rendere la scena simile a una scacchiera dove tutto è predeterminato in ogni mossa e reazione. 

Molto belle le scenografie che richiamano anch’esse le forme rigide e quasi neo/gotiche care all’espressionismo tedesco ma anche al cinema di Dario Argento.

Le vittime di Auschwitz, gli ebrei, sono sulla scena quasi invisibili, se non agli infrarossi o per le urla. O come “memoria” di oggetti depredati e riutilizzati senza rimpianti e troppi piagnistei, perché pur sempre “alta moda per ricchi”. Sono fantasmi in quanto neutralizzati per una sorta di sfocatura o “miopia” sviluppata a livello emotivo dall’animo dei loro carcerieri: un (non)uso simbolico “dell’altro”, del “diverso”, che richiama il lavoro di Nolan sul “nemico” di Dunkirk

Jonathan Glazer crea l’horror perfetto, che amaramente è anche un fatto reale della nostra Storia passata. 

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1 commento:

  1. Un film che da una parte ho un certo timore ad avvicinarmi, ma che dall'altra attendo con enorme interesse. Intanto ho letto la tua ottima recensione. E ho scoperto un altro blog di cinema "funzionante"... ormai siamo rimasti così in pochi! :)

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