mercoledì 26 aprile 2023

Cane che abbaia non morde (Barking dogs never bite): la nostra recensione del film di esordio del regista di Parasite, Bong Joon-Ho, oggi nelle sale per la prima volta in italiano


Corea del Sud di inizio 2000, tra le mura di un enorme complesso abitativo su più piani al cui interno vive ogni tipo di variegata umanità, dai ricchi degli attici ai senza dimora del locale caldaia. Il giovane assistente universitario Yoon-Ju (Lee Sung-Jae), attualmente privi di occupazione, è certo di vivere in un sistema “truccato”. Il sadico preside della sua facoltà gode nell’umiliare pubblicamente i suoi sottoposti, deridendoli e facendoli ubriacare. Se oggi si parla per Yoon-Ju di un nuovo possibile posto di lavoro nell’ateneo è solo perché l’ultimo collaboratore era così ubriaco dopo l’ultima umiliazione che è finito sotto le rotaie della metropolitana. Il mondo è cattivo, sua moglie “ci tiene a dire” che porta a casa più soldi di lui e ha in pancia il loro primo figlio e l’uomo è frustrato, cerca disperatamente qualcuno con cui prendersela per non prendersela con se stesso. Poi arriva la salvezza: l’irritante odiosissimo suono di un maledetto cagnolino rompicoglioni. Yoon-Ju detesta i cani e i loro padroni, perché secondo lui un uomo medio come lui non potrebbe mai permettersi i soldi per tenere un cane: è “roba da ricchi” che stanno bene anche da anziani. Non solo, è roba da “ricchi e bastardi”, perché in quel condominio è espressamente vietato tenere degli animali: specie quelli che tutto il giorno abbaiano disturbando il flusso dei pensieri di un uomo già distrutto. Yoon-Ju in una mattinata già abbastanza agitata si scaglia così fuori di casa, in cerca dell’intruso piccolo e peloso. A pochi metri trova un cagnolino probabilmente scappato, con ancora il guinzaglio rosa che si trascina dietro. Lo raccoglie e decide di eliminarlo, prima cercando di gettarlo nel vuoto dall’ultimo piano, dall’attico dei ricchi al marciapiede dei poveracci. Poi cerca di impiccarlo alla corda del suo stesso ricco padrone, infine davvero non ce la fa e decide di chiuderlo in un armadio rotto e abbandonato nel sottoscala. 

Nel frattempo una bambina con la mantellina da pioggia gialla che ha perso il suo cagnolino si trova negli uffici della amministrazione locale, dove l’impiegata Hyun-Nam (Bae Don-Na) la aiuta a fotocopiare e vidimare con un timbro i volantini da affiggere per la ricerca, per poi continuare per tutto il giorno a parlarne al megafono. I volantini finiscono ovunque, anche davanti agli occhi di un incredulo Yoon-Ju che si sente subito terribilmente in colpa non appena legge di un particolare dettaglio: quel cane che ha cercato di spiaccicare e poi impiccare e poi soffocare in un armadio era “afono”. Problemi alle corde vocali, impossibilità ad abbaiare neanche volendo: non era lui il suo ancestrale “disturbatore maledetto”. L’uomo corre a cercare di salvare il salvabile ma è forse troppo tardi. Il cane nell’armadio abbandonato non c’è e il torvo custode del palazzo si sta recando proprio in quella stanza per la passione segreta che condivide con un suo amico: mangiare cani. Yoon-Ju non sapendo cosa fare si nasconde nell’armadio ora vuoto e ascolta così il custode raccontare la storia di “Boiler-Kim” un idraulico vittima di alcuni speculatori edilizi che sarebbe sepolto ancora nel palazzo. Un’altra vittima del sistema.  Quando i due uomini se ne vanno, Yoon-Ju sembra avere un incontro ravvicinato proprio con Boiler-Kim e riesce a scappare solo per un soffio dal l’aggressione del fantasma. Deciso a cambiare vita, l’uomo sente però di nuovo la voce dello stesso cane che gli aveva rovinato l’esistenza e subito lo trova. È il cane di una vecchia signora del palazzo. Si veste di rosso con un cappello rosso in testa ed esce di casa. L’impiegata Hyun-Nam sta ancora indagando sulla scomparsa del cane della bambina con la mantellina gialla, quando vede con il binocolo all’ultimo piano di un palazzo vicino un uomo vestito di rosso con un cappello in testa che sta per lanciare nel vuoto un cane di piccola taglia. È per lei il momento di intervenire attivamente e si lancia nell’inseguimento. 


C’era una volta Bong Joon-Ho, oggi diventato uno dei più grandi e ricercati registi coreani grazie a film come Parasite, Snowpiercer, The Host, Memorie di un assassino. Esordiva alla regia nel 2000 con questa piccola Black-Commedy surreale e grottesca in cui sono disseminate molte delle suggestioni dei suoi futuri lavori, ma che è anche quasi un “body horror estremo” per gli amanti dei cani (ci viene precisato fin dai titoli di testa che nessun cane è stato in alcuna misura maltrattato durate le riprese, è solo finzione cinematografica). I cani diventano oggetto della “ossessione sociale” del complessato e un po’ torvo assistente universitario Yoon-Ju, all’interno di un possibile “percorso di alienazione” simile a quello di molti serial killer, che proprio dagli animali di piccola taglia sono passati poi agli esseri umani. C’è l’odio paranoico per la corruzione del sistema in cui vive, il senso di inadeguatezza nei confronti della moglie, l’impotenza economica, in vivere all’interno di una gabbia sociale rumorosa e degradante e tutto il resto del “pacchetto completo per il profiling” ad uso dei tanti criminologi di una serie Tv americana. Solo che Yoon-Ju, impersonato dal buffo e bravo Lee Sung-Jae, è una creatura del “mondo di Bong Joon-Ho”, se non il suo “primo abitante in senso stretto”. Vive in un mondo condominiale tentacolare osservato a vista “tipo Grande Fratello”, costruito verticalmente  per gerarchie sociali crescenti come le “classi” del treno Snowpiercer. Entra in contatto con “uomini invisibili” di una realtà sociale-satellite, se vogliamo quasi “primitiva”, come quelli di Parasite. Si trova sempre sul punto di poter “cambiare percorso di vita con successo” grazie all’incontro con personaggi “positivi ma perdenti” come la “detective per caso” Hyun-Nam (della simpatica e combattiva  Bae Don-Na), non dissimile dagli scombinati poliziotti di provincia di Memorie di un assassino. I cani diventano per il protagonista una ineluttabile manifestazione del “potere della natura sul suo destino”, metaforicamente non troppo lontani dall’enorme mostro marino “modificato” di The Host, che continua a incedere e ingrandirsi lungo l’ordinato paesaggio urbano che affianca il fiume Han. C’è in Cane che abbaia non morde, in piccolo, già tutto il cinema che verrà di Bong Joon-ho, con tutto il suo potenziale satirico e malinconico. Personaggi che con “leggerezza titanica” affrontano un mondo inesorabilmente cinico, quanto costrutti sociali che per essere davvero vivibili vanno smontati o stravolti nell’essenza (si pensi in particolare al percorso narrativo del personaggio del senzatetto). È un cinema che racconta di come con entusiasmo si può tenere insieme una società di cui si possono contano una per una le crepe, a patto di scegliere di rimanere per sempre ai suoi margini. L’alternativa alla miseria è “la morte dell’eroe”, come il fantomatico idraulico Boiler Kim che vuole denunciare i corrotti e finisce cadavere tra le fondamenta del palazzo, oppure “diventare corrotti” che forse non è una scelta tanto desiderabile. Già nel 2000 Bong-Joon-Ho parlava di una realtà attualissima e non solo limitata ai confini coreani, attraverso “il cinema di genere”, con questa commedia nera. Avrebbe continuato a parlare di attualità attraverso Crime story “irrisolte”, la fantascienza ecologista tratta dai fumetti europei, i mostri giganti e il suo ultimo cinema più surreale e “sociale” di Parasite. Lo attendiamo già per il 2024 per la sua prossima impresa già annunciata, che sarà ancora nel nome della fantascienza.


Cane che abbaia non morde forse non possiede la compostezza nella costruzione visiva e narrativa dei lavori successivi, sposandosi quasi più felicemente con l’animo “punk sovversivo” di alcuni lavori di Takashi Miike come Gozu se non con la commedia “brutta e cattiva” dei fratelli Farrelly. Ma c’è davvero “in asprezza e poetica” già tutto il “regista che verrà” ed è oltremodo interessante che questa sua opera prima arrivi oggi nelle sale, specie dopo il successo di Parasite, per apprezzare al meglio anche le “vitali note stonate” di quando era poco più che un esuberante trentenne. La costruzione dei personaggi è già sfiziosa e carica di Black/humor, c’è già la chiarezza nella costruzione delle scene d’azione, il gusto per un ritmo narrativo concitato ma non caotico, c’è la malinconia e il “titanismo del perdente”, ci sono i paesaggi claustrofobici e l’urgenza della critica sociale. Cane che abbaia non morde è una pellicola amabilmente surreale e “cattiva”, carica di sarcasmo e malinconia, che ci fa conoscere com’era il regista di Parasite all’inizio del nuovo secolo. È un viaggio intrigante, non solo per i suoi cultori, anche se pervaso di un humor nero che oggi (per quanto solo figurato) per qualcuno può forse risultare “troppo forte”. Un’ottima occasione di recupero. 

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