Melati Wijsen, 23 anni, in parte indonesiana e in parte tedesca. Un viso angelico che incornicia un sorriso infinito e occhi che risplendono, un portamento raffinato, modi gentili, una voce cristallina con tanta voglia di raccontare e condividere esperienze di vita, specie per “motivare le persone” a cambiare il mondo. Potrebbe concorrere per Miss Universo e vincere facile, intraprendere la carriera di cantante o di attrice o pubblicizzare un profumo, invece Melati è una delle principali attiviste climatiche dei giorni nostri e non è per questo meno famosa di una rockstar. Ha iniziato a 11 anni insieme alla sorella a sensibilizzare sul problema del riciclaggio della plastica e da allora non si è più fermata. Se Greta, oggi ancora più coinvolta nelle “vie diplomatiche” con i grandi della Terra, esprime il sempre più pragmatico sconcerto per l’immobilismo dei governi e degli “adulti in genere” nell’intraprendere una qualsiasi, pur piccola, ““rivoluzione”” sociale o ambientale (ma Greta è ancora giovane e la sua battaglia è solo all’inizio), Melati bypassa del tutto il mondo degli adulti e spinge fortemente sulla costruzione di una migliore rete di supporto al pianeta, creata attraverso l’entusiasmo dei soli giovani, oggi aiutati oltre che dalla solidarietà anche dalla pubblicità e risonanza che i canali social sono in grado di generare. Melati con questo film vuole trasmetterci non solo quanto sia importante e appagante, ma anche quanto possa essere “non di nicchia”, carico di entusiasmo e positività il lavoro di un social worker. Incontra così la scrittrice, produttrice e imprenditrice francese Flore Vasseur, ex campionessa di snowboard, classe 1973, regista attiva e riconosciuta nel mondo del documentario grazie al film Meeting Snowden del 2017. Flore nel 2009 esordiva alla regia proprio con un lavoro sulle corde di Melati, un Ted dal titolo 18 minutes pour changer le monde. Flore e Melati scrivono insieme questo Bigger than us, co-prodotto dalla attrice Marion Cotillard, che viene presentato alla 74esima edizione del festival di Cannes, nella sezione Cinema for the climate. È un film che racconta l’incontro di Melati con altri giovani attivisti, che insieme stanno cercando “nel loro piccolo” di cambiare la realtà del loro territorio, impegnandosi tanto sul lato climatico che in quello sociale. Tutti hanno iniziato a “protestare e costruire” fin da giovanissimi qualcosa di nuovo e più funzionale per “aggiustare il mondo”, partendo dall’osservazione dai bisogni più vicini delle persone con cui erano in contatto.
Mohamed vive in Libano, è fuggito dalla Siria a soli 12 anni e oggi ha costruito una scuola per bambini siriani. Il 58% dei rifugiati siriani in Libano sono bambini e come Mohamed si sono spesso trovati da soli a vivere isolati nei campi in ripari di fortuna, dopo essere stati “sradicati” dalla loro patria, perdendo ogni cognizione del tempo e di un proprio scopo. Molti bambini prima di arrivare in Libano sono inoltre stati soldati o vittime di violenza, hanno bisogno di “dimenticare e tornare bambini” o finiranno nelle maglie della malavita. Mohammed, un po’ come un fratello maggiore, ha cercato di ridargli una voce, un luogo dove tornare da chiamare "famiglia" e la dignità di cui dovrebbe godere ogni persona, partendo del diritto all’istruzione. Sono partiti da 2 volontari e 4 studenti, sono arrivati a 150 bambini, trovando anche il supporto del volontariato locale e dei media. Mohamed con l’aiuto di Melati vorrebbe che quei bambini ora si sentissero parte di qualcosa di più grande del popolo libanese che li ha “adottati”: dei veri cittadini del mondo. Il viaggio di Melati prosegue insieme a Melody in Malawi, dove il 42% delle ragazze si sposano a meno di 18 anni. Quando sono incinte abbandonano la scuola e non è una circostanza infrequente, perché per tradizione si sposano a 11 anni in matrimoni combinati che costituiscono una importante e spesso indispensabile fonte di guadagno per le famiglie. È successo anche alla sorella di Melody, che per tradizione prima del matrimonio è stata portata nei “campi di iniziazione” a cui bambine e bambini accedono intorno ai 10 anni per “diventare adulti”. Qui viene insegnato ai ragazzini il modo corretto di sottomettere le donne e alle donne il non ribellarsi mai a ogni tipo di abuso, di fatto rinunciando ad una vita che non sia di madri e casalinghe. Melody ha fondato un “club delle ragazze” per combattere la dispersione scolastica. Le ragazze si incontrano per condividere i costosi libri scolastici, parlare dei loro problemi personali e viaggiare insieme nel tragitto dal villaggio a scuola, dove purtroppo non è infrequente subire abusi sessuali. Melody, supportata per il suo sforzo dalle famiglie della comunità, è riuscita nel suo piccolo a far chiudere i campi di iniziazione della sua zona e da qui sembra che stia cambiando qualcosa anche a livello politico, con l’avvento dei primi capi tribù donna. Melati accompagna Wendy al suo primo incontro con il presidente del Malawi. C’è aria di cambiamento anche in Brasile, dove nella successiva tappa Melati incontra René, cresciuto nel costante pericolo di finire in mezzo a una sparatoria tra polizia e criminali nel suo tragitto da casa a scuola nelle Favelas di Rio. Nel 2011 da quelle parti all’insaputa del resto del mondo è avvenuta una vera e propria guerra civile. Le Favelas erano isolate e separate quasi in trincee, con autobus e mezzi pubblici dati alle fiamme per impedire l’accesso alle strade e alle comunicazioni: nessuno poteva uscire di casa anche solo per il cibo e la tv non forniva alcun resoconto reale dei fatti. Da un gruppo di Twitter gestito da ragazzini locali, René con i suoi amici crea così il “giornale della comunità”, una fonte diretta sul campo che racconta la realtà di quel conflitto direttamente dalla voce dei testimoni oculari, zona per zona, fornendo anche informazioni utili per aiutare e coordinare la cittadinanza. Il social di René diventa strumento di difesa, informazione e cambiamento: non solo con la cronaca puntuale dei fatti ma anche raccontando una vita possibile per i ragazzi diversa dal sogno comune di “diventare spacciatori”. Si dà voce così allo sport, alle scuole di ballo e alle iniziative culturali. Il giornale cresce e si protrae come esperienza libera e indipendente fino a oggi, accogliendo tra le sue fila sempre più ragazzi e diventando anche megafono di manifestazioni pubbliche in supporto a politiche attive. La “rete sociale” di René, con il suo nuovo modo di fare giornalismo si aggancia così alla rete ambientalista di Melati, coordinandosi per la creazione di eventi a tutela del clima da portare all’attenzione della politica.
Negli Stati Uniti “del vecchio West” il discendente dei nativi americani Xiuhtezcatl usa il rap per denunciare l’estrazione di gas naturale attraverso la pratica del “fracking”, che rende irrespirabile l’aria di chi vive sul territorio. Per “dimostrare sensibilità” le imprese del fracking hanno costruito scuole per le persone più povere proprio sui margini dei fumi mefitici delle loro aziende, luoghi destinati a rimanere deserti in quanti invivibili. La sua è una lotta contro le multinazionali che appare persa in partenza, ma non per questo rinuncia a fare concerti il cui ricavato va a sostegno della causa ambientalista. Sente che è nello spirito di un pellerossa preoccuparsi della salvaguardia del suo mondo.
Nell’isola greca di Lesbo Melati incontra Rune e i ragazzi che si occupano del salvataggio in mare dei migranti. Oltre ai gommoni e ai barchini con cui sempre più spesso vengono organizzati dalla malavita questi “viaggi della speranza”, viene denunciato l’uso di giubbetti di salvataggio finti, che all’interno invece di materiale galleggiante contengono una specie di pluriball per imballaggio-pacchi. Quando i trafficanti di uomini scappano e i migranti vengono lasciati in mare con il gommone sotto la tempesta in attesa di soccorsi, questi si affidano per sopravvivere a questi giubbetti che alla fine affondano. I soccorritori hanno creato una autentica montagna usando solo i giubbetti di salvataggio rotti recuperati in mare. Si può fare ben poco senza un impegno internazionale coordinato in questi casi, ma i giovani di Lesbo che ogni giorno accorrono a salvare i naufraghi sentono che è la cosa giusta da fare, qualcosa di “naturale” per la loro cultura di marinai.
Winnie, in Uganda, cerca invece di integrare con le esigenze agricole del suo territorio le persone che sempre più stanno arrivando dalla costa come migranti. Nel suo paese sono in genere le donne a occuparsi del lavoro della terra, ma con l’arrivo di queste nuove forze si sta creando una nuova sinergia, che se supportata da politiche ambientaliste potrebbe sottrarre alle multinazionali lo sfruttamento sempre più automatizzato della loro terra, in ragione di una gestione più sostenibile e meno invasiva delle risorse legate all’agricoltura. La chiave per Winnie è supportare, proprio attraverso il coordinamento delle donne ugandesi, la creazione di “comunità di rifugiati” raccolti per singola etnia, a cui oltre che un lavoro viene così offerta una scuola e un luogo pacifico in cui vivere integrati sul territorio. Con tanta mano d’opera sempre più qualificata e integrata, la terra potrebbe offrire prodotti di massima qualità da esportare nel mondo.
C’è chi salva la vita al prossimo o ha cura per l’ambiente come se fosse qualcosa di scritto nel dna, come i figli dei marinai greci o dei nativi americani. C’è chi “per vocazione” sente di dover sovvertire le regole più inique della tradizione o si sostituisce a uno stato che ignora di affrontare i problemi della gente o “non può farlo”. Ma Melati è come se ci dicesse che dietro a ogni problema sociale c’è quasi sempre un problema ambientale. Tutto è connesso.
In alternativa c’è la costruzione di nuove industrie e nuovi schiavi, il perpetrarsi tanto delle ingiustizie sociali che della plastica. Cumuli e cumuli di plastica che diventano il grottesco paesaggio dantesco della discarica di Giacarta, una delle più grandi e spaventose al mondo. Un mostro ecologico che sta contribuendo giorno dopo giorno a inghiottire tutta la città di Melati, che si avvia per gradi a essere sommersa dall’innalzamento delle acque come una nuova Atlantide. Difesa solo da muretti di contenimento in cemento non più alti di un metro: la battaglia già persa in partenza.
L’eco-mostro è un autentico monumento alla (auto)distruzione della natura e dell’uomo e diventa più di mille parole un monito, un’immagine da imprimersi nella testa prima di andare a dormire giusto per ricordarsi che esiste e può ancora espandersi fino a inghiottire tutto. Per Melati viviamo completamente nudi davanti a quello che accadrà: stiamo camminando sospesi sul baratro in attesa di un cambiamento di prospettiva nel rapporto tra l’uomo e l’ambiente che se non accade ci porterà sempre di più alla fine. Ma la sua rete di supporto può funzionare, i giovani possono fare qualcosa, mettersi in contatto tra loro, realizzare progetti ascoltando i bisogni del territorio e le forze del volontariato, cercare magari di scuotere i governi anche solo con il loro contagioso entusiasmo.
Il documentario di Melati e Flore è un’occasione per raccontare ai giovani di oggi di realtà che magari nemmeno immaginano, portandoli in luoghi incredibili che non esistono neanche nei videogame come la discarica di Giacarta e la montagna dei giubbetti di salvataggio rotti di Lesbo, ma anche portandoli a conoscere persone della loro età che si stanno opponendo a questo tipo di futuro. Si è sempre parlato di ambiente nella storia e forse lo si è fatto sempre con il linguaggio sbagliato: spesso accusando la controparte politica di fare troppo poco senza però rispondere con qualcosa di concreto, spesso guardando dall’altra parte quando i problemi vanno oltre il nostro pianerottolo, spesso sbandierando bandiere solo quando può essere una scusa per saltare la scuola, spesso piangendo e poi tre minuti dopo dimenticandosi di tutto. Bigger than Us parla delle opportunità concrete che si possono trovare in giro per il mondo per cambiarlo in meglio, se qualcuno se la sente davvero di aiutare il prossimo e il pianeta. Fornisce esempi concreti in cui alla sacrosanta protesta sono seguiti progetti, interventi, piccole rivoluzioni. È un film che invita il pubblico più ricettivo a partecipare a una rete di aiuto, mettendo anche qualche indirizzo utile dove informarsi, nel caso si voglia fare qualcosa ma “non si sa che cosa”. È un buon modo con cui il cinema ci permette ancora di guardare a un futuro possibile.
Per questo la visione di Bigger than Us è assolutamente consigliata a tutte le scuole, specie se di indirizzo umanistico, ma non solo. Girato con telecamere digitali in alta risoluzione la pellicola ci porta in giro per il mondo, tra scorci paesaggistici anche molto suggestivi, con una particolare predilezione per una fotografia calda e avvolgente. Il linguaggio semplice e diretto con cui vengono affrontate le varie tematiche aiuta nella comprensione dei temi anche un pubblico di ragazzi delle scuole medie. La passione e “solarità” degli interpreti nel parlare dei loro progetti e traguardi è contagiosa. Bigger than us è un ottimo strumento didattico, quasi un “film motivazionale”, forse con il problema per qualcuno di dipingere dei giovani “troppo belli per essere veri”, troppo distanti da come si “immaginano i giovani d’oggi”. Però chi crede che il cinema possa fare ancora oggi qualcosa di concreto per smuovere le coscienze verso le cause sociali e ambientali non dovrebbe proprio mancare questa pellicola.
Talk0
Nessun commento:
Posta un commento