venerdì 28 aprile 2023

Creature di Dio (God’s creatures): la nostra recensione del film drammatico di Saela Davis e Anna Rose Holmer, distribuito per l’etichetta A24, che assomiglia incredibilmente a una novella di Verga

Ci troviamo in un paesino di pescatori sulla costa irlandese in un tempo quasi sospeso, forse ai giorni nostri o forse 50 anni fa. La vita e la morte viaggiano a filo doppio ai ritmi di una natura “matrigna” che lega quegli uomini al volume di pesce pescato. Tutti si conoscono, tutti vanno in chiesa, tutti lavorano alla stessa catena di sfilettatura e stoccaggio di un'unica impresa. Tutti coltivano il sogno che il personale allevamento di vongole di ogni singola famiglia abbia successo sugli altri, con il benestare di quelle acque limacciose e pericolose. Coltivare vongole significa entrare in acqua con la bassa marea e depositare a mano delle cassette metalliche da fissare in una lunga procedura fino a che le onde salgono, si rimane quasi inghiottiti in un terreno simile a sabbie mobili e per tornare a riva si deve poter salire su una barca con un grande sforzo, rischiando la vita. Gli incidenti sono una circostanza accettata e tutto è giustificato per poter avere qualche soldo in più da spendere onestamente al pub, l’unico pub di quel “piccolo mondo”, alla faccia dei maledetti pescatori di frodo che agendo di nascosto rubano il pesce a tutta la filiera e alla comunità, suggellandone la miseria. È un “paese per vecchi” e forse maledetto, con i pochi giovani che appena possono fuggono lontano senza voltarsi indietro, mentre quelli che rimangono sembrano incattivirsi e “marcire”. Gli abusi sessuali ai danni di ragazze poco più che bambine si ripetono nell’indifferenza generale, come una specie di “sfogo” tollerato. L’alcol scorre a fiumi e la tentazione di fare i “banditi” per avere qualche soldo in più diventa fortissima. Chi arriva a diventare anziano vive di ricordi gioiosi, dimenticandosi delle troppe cose brutte che gli accadono intorno, fissandosi nella mente solo un’immagine di una famiglia felice che forse non è mai esistita. In fondo è la natura a comandare e i pescatori sono solo suoi “ospiti”, non possono fare altro che adeguarsi a lei e ai suoi ritmi, venerarla con cura e amore, difenderla da chi ne viola l’equilibrio. 


Un urlo nella notte e le acque limacciose inghiottono un altro giovane pescatore. Il giudizio morale è unanime: era un bravo ragazzo ma anche un pescatore di frodo, uno che non rispettava le regole. 

La comunità piange, si celebra un funerale e poi vanno tutti al pub. Dove però  scoprono che un altro figlio di quella comunità ha fatto improvvisamente e provvidenzialmente ritorno. È Brian (Paul Mescal) il figlio della addetta alla supervisione della sfilettatura Aileen O’Hara (Emily Watson). Un ragazzo forse sulla trentina, che dopo sette anni in Australia ha deciso di tornare alla sua famiglia proprio nel momento del bisogno, quando il padre Nigel (Sean T.O’Meallaigh) è troppo vecchio per curare da solo la difficile coltura delle vongole e la madre deve badare oltre che all’azienda al vecchio Puddy (Lalor Roddy). Brian è perfettamente in forma e sorride sempre, sembra che la comunità abbia trovato braccia forti per il duro lavoro quotidiano e un nuovo insperato “equilibrio”. Tutti in paese sono contenti e il ragazzo sembra intenzionato a restare anche per via di Sarah Murphy (Aisling Franciosi), il suo grande amore fin da quando era bambino, quando erano inseparabili e lei passava anche la notte nella casetta degli O’Hara, nella camera di sua sorella. Aileen è felice, almeno fino a quando non iniziano a correre voci e sospetti sul fatto che Brian sia un pescatore di frodo che pure abbia rubato materiali dall’azienda comune. Fino a quando Sarah, da alcuni giorni scomparsa dalla catena del pesce, sembra aver denunciato il ragazzo per violenza sessuale. La famiglia O’Hara allora sarà chiamata a prendere una posizione: schierarsi al fianco dei propri cari o al fianco della comunità e di una “natura” che regola ogni cosa. Intanto Aileen viene retrocessa, dalla supervisione alla pulizia del pesce. 


Ci sono persone “arroccate pervicacemente” allo scoglio su cui sono nate e c’è una “provvidenza” che tarda ad arrivare, proprio come nei racconti di Giovanni Verga e nel recente Gli spiriti dell’isola di Martin McDonagh. C’è un piccolo luogo isolato chiuso al resto del mondo tanto legato a riti millenari che coinvolgono la natura da portare quasi alla paranoia, come in Dagon e La Maschera di Innsmouth di H.P.Lovecraft, ma anche come in The Lighthouse di Robert Eggers. C’è tutta la disperazione esistenziale di una donna che si trova rinchiusa in una vita che offre poche certezze e tanto dolore: un personaggio femminile interpretato da Emily Watson che per molti versi “aggiorna e ricorda” il suo ruolo di esordio del 1995, ne Le onde del destino di Lars Von Trier. Proprio tirando in causa Von Trier, Creature di Dio sembra rispondere a molte delle famose regole del decalogo del movimento cinematografico “dogma95” sulla costruzione realistica e non “spettacolarizzata” o artefatta di un racconto umano: riprese in ambienti reali, luci e suoni naturali, uso del tempo presente, assenza della rappresentazione diretta o “compiaciuta” della violenza. Il rigetto dell’idea che un film si affianchi alla esposizione di un “genere cinematografico definito”, di fatto “etichettando” la complessità umana. Il film diretto da Saela Davis e Anna Rose Holmer ci fa così “sbirciare” nell’animo dei suoi personaggi senza offrirci chiavi facili per leggere il loro carattere. Ci nasconde la descrizione di alcuni dei momenti-chiave del racconto in quanto “privati”. Svela con un occhio reale e presente, quasi documentaristico, i piccoli e grandi gesti con cui i pescatori con umiltà meccanicamente ripetono con fatica e impegno una routine di lavoro sfiancante. Ci fa affogare nei dubbi morali quanto nelle limacciose acque della costa irlandese, magari nell’attesa “salvifica” (e ovviamente vana) che qualcosa di visivamente eclatante o “liberatorio” sovverta le regole. In Creature di Dio le rivoluzioni avvengono, ma tutte intimamente sono custodite dentro l’interiorità di personaggi non messi nelle condizioni di esprimerle, anche perché spesso non riescono a comunicare tra loro. Brian e Aileen parlano del loro passato ma non del presente. Brian e Rose si osservano fugacemente dalla distanza. Aileen e Ross non possono parlare tra di loro perché difendono dei rispettivi muri invisibili imposti dall’esterno che “le definiscono”. La natura è l’unica forza che come un’onda (sempre citando Von Trier) davvero sposta il destino di personaggi tanto aggrapparti ad essa, scompigliando schemi e dinamiche. È una natura che distrugge le aspettative materiali e che (forse…un “forse” sempre enigmatico nelle opere del dogma95) al contempo guida moralmente le scelte umane. In alternativa c’è per i giovani solo una “fuga”, dai luoghi o dalle regole. Una fuga che gli abitanti più anziani del villaggio dei pescatori non possono metabolizzare perché fanno troppo intimamente parte del ciclo naturale, in quanto membri dello stesso ingranaggio economico/sociale del territorio. Il film esplora la profondità del solco tra le generazioni che viene sempre più a delinearsi anche attraverso il personaggio del vecchio Puddy. Come in una sorta di cortocircuito, il nipote Brian sembra essere la sola persona in grado di capire ancora il linguaggio sempre più frammentario dell’anziano e questo sconcerta, fa temere qualcosa di malevolo, confonde le acque più della marea. 

Non è un film “facile” Creature di Dio, ma è un film carico di spunti di riflessione. Una lettera d’amore nei confronti di una tradizione marinara e stile di vita che stanno sempre più scomparendo, insieme a un equilibrio tra uomo e natura che si è fatto con gli anni sempre più difficile. Straordinaria come sempre Emily Watson. Davvero da tenere sotto osservazione le due registe che qui esordiscono con un opera di grande fascino e suggestione, proponendo un modo di fare cinema ben ancorato nel passato (qualcuno potrebbe citare il Dogma95 ma qualcuno potrebbe rintracciare anche suggestioni del cinema Olmi o il Neorealismo) ma che sta tornando felicemente  di moda. 

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