È compatto, resistente agli urti,
componibile, completamente personalizzabile, ricaricabile, wireless, con
internet veloce, parla, canta, suona, ce lo porti a scuola, ci fai le foto, ci
giri i video da mandare sui social, studia con te, balla con te, ti porta
le cose, può trasformarsi in veicolo: è “un amico”. L’amico 2.0. Lo produce la
“Bubble”, quella grossa multinazionale che vende il Bubble-phone e del
Bubble-Watch, e forse per il “Bubble-brand” costa un po’ caro. Per prenotarne
uno c’è almeno una fila di attesa di tre mesi, è disponibile solo presso i
Bubble-Point, è stra-esaurito. Ma quale bambino o bambina non può volere, per
il suo compleanno, un amico come lui?
In questo futuro non troppo lontano dal
nostro presente il “Bubble-Bot” o “B-Bot” ha così cambiato i social che sono
anche cambiati i modi di relazionarsi con gli amici. È letteralmente lui “che
ti cerca degli amici” sulla base dei gusti e preferenze personali, istallandosi
direttamente nelle scuole, dove ha una zona riservata per ricaricarsi proprio
accanto alle classi.
È forse un po’ invadente per la privacy,
ma è ormai letteralmente “nelle case e nella vita di tutti”.
Di tutti tranne uno, ossia il
povero Barney. Di origini russe, che vive in una casetta un po’ sfigata
con ancora il televisore a tubo catodico e la radio enorme con l’antenna
analogica. Il babbo vende roba assurda di chincaglieria su internet, la
nonna riempie la casa di maglioni e cibo etnico e per il cestino del pranzo gli
prepara le zampe di gallina fritte. Barney vorrebbe un B-Bot per il suo
compleanno, come tutti, anche perché senza un B-Bot la situazione sociale
a scuola è diventata altamente complicata per lui, quasi al punto che non può
partecipare ai gruppi di studio o pensare di poter giocare con qualcuno. La
maestra è così preoccupata per la socialità di Barney che nell’intervallo
invita i ragazzini a sedersi vicino a lui, nel cortile, sulla surreale (e abbastanza discriminatoria) “panchina della felicità”. In una scena
devastante la maestra, per rendere più “accattivante” essere amici dei
ragazzo, rivela a tutti che è appassionato di “sassi” e da allora Barney
si becca tutta una serie di scherzi a tema “sassi”. Visto l’andazzo,
vista la malinconia negli occhi del bambino dopo una festa di compleanno in cui
non si è presentato nessuno amico, (anche perché tutte le chat
sono collegate “all’avere un B-Bot”), il babbo e la nonna di Barney un po’ ci
provano, a trovargli un robottino. Ma il massimo che riescono a fare è dopo un
paio di vani tentativi caricarsi in macchina un B-Bot da rottamare recuperato
di straforo sul retro di un Bubble-Point, che il ragazzino accoglierà comunque
con gioia chiamandolo “Ron” (in originale con la voce di Zack Galifianakis e in
italiano con la voce di Lilo, che fa un ottimo lavoro). Poi quasi subito la
gioia finisce, perché Ron appare parecchio danneggiato. Si collega al modem con
la rapidità di un processore del 1998, riproducendo pure quello strano e
inquietante suono metallico del telefono (che in sala profuma molto “di
nostalgia”). Ha lo schermo che sfarfalla, non riesce a scaricare i dati dalla
rete social per svariati errori di sistema, la batteria non si carica se non
dopo ore, non si trasforma in veicolo. Tutto quello che dopo un fortunoso
backup Ron ha memorizzato nel suo processore sono le voci del dizionario con la
lettera “a”. Barney, sconfortato, lo sta portando direttamente al Bubble-Point
per cambiarlo, quando sulla strada incontra dei compagni di scuola un po’
bulletti, che lo stanno massacrando da giorni, specie da quando hanno scoperto
la passione segreta di Barney per “i sassi”. Ma a sorpresa il robottino
sfigato Ron interviene e difende lo sfigato ragazzino. Lo fa proprio perché il
suo sistema operativo è incompleto per il backup parziale e non sottostà per
questo ai classici vincoli di programmazione dei robot, primo tra tutti, come
Asimov insegna, il non attaccare gli esseri umani. Così Barney decide
infine di non portarlo indietro al negozio e colmare magari col “fai da te” i
problemi di programmazione di Ron. Iniziando con l’insegnargli cosa significhi
per lui la parola “amico”. Sarà l’inizio di una amicizia più analogica che
digitale, in un periodo in cui ormai tutto è fin troppo spinto verso “il
futuro”.
“Che cos’è un amico” è la bellissima e
profonda domanda sulla quale si fonda questo ottimo e intelligente ultimo
lavoro di Twentieth Century Studios e della londinese Locksmith Animation (un
team formato da esperti della computer grafica che hanno co-realizzato
con la Aardman gli ottimi Pirati! Briganti da Strapazzo e Il figlio di Babbo Natale), distribuito nelle sale da Disney.
Che cos’è “un amico” nel 2021? È uno che
ti segue su Instagram e con cui condividi la passione per la Nutella e The Walking
Dead? È uno che crea e carica i video migliori per intrattenerti sulla sua
pagina di YouTube? È uno con cui giochi online e scambi le opinioni sul forum
dei fumetti?
È di fatto, seguendo la tesi del film,
sempre più difficile che un amico sia “la persona che hai fisicamente davanti”,
quella con cui giochi nello “stesso spazio”. I bambini della pellicola, al di
fuori del protagonista “fuori dal mondo”, sembrano costantemente intenti a
“fare gli attori” davanti al loro B-Bot per ottenere dei followers online,
vivendo la frustrazione di non essere sempre all’altezza e per questo “perdere
amici virtuali”. La diabolica Bubble svela senza troppo mistero che il
“robottino amico” serve a profilare i dati dei ragazzini per vendergli dei
prodotti, l’algoritmo dei B-Bot in una scena veloce quanto spietata dimostra
che due persone non possono diventare amici, anche se sono compagni di classe,
perché non hanno le stesse preferenze “merceologiche”. La tesi del film è che
la tecnologia stia costruendo un mondo di persone sempre più sole e
narcisisticamente chiuse in se stesse e forse la vera rivoluzione sarebbe
riportare la tecnologia a un ruolo meno centrale nella nostra vita. Magari
spingendo i ragazzini a incontrare un amico per una pizza, piuttosto che
parlare con lui in chat a soli due isolati. Magari spingendo i ragazzi a
preferire un paio di amici veri rispetto a preferirvi centinaia di amici
virtuali, ma solo meccanicamente pronti a mandare like o dislike,
cambiando opinione dal giorno alla notte, giusto per idolatrare o deridere con
un click (la scena del film della “ragazza pupù“ è davvero emblematica
di questo concetto) in virtù dell’intrattenimento che “un amico” gli offre.
Il succo del film non è però un
manicheo “era meglio quando si stava peggio”, perché Ron non è un film
contrario alla tecnologia e sa anzi esporre bene anche i molti vantaggi che un
uso oculato della tecnologia può portare nella costruzione di mondo migliore. I
robottini sono impegnati nelle forze dell’ordine, aiutano gli anziani, rendono
meno faticosi i lavori di casa e permettono di fatto una comunicazione più
semplice. Ma Ron è soprattutto un film sui “giusti confini” che dobbiamo cercare
di ottenere per non perderci troppo nel mondo virtuale, ri-definendo il ruolo
delle persone che chiamiamo “amici” in un’ottica maggiormente relazionale.
La pellicola riesce così bene un
questo intento che andrebbe fatta vedere nelle scuole, anche per il linguaggio
semplice e chiaro che usa nel maneggiare questi temi.
Visivamente è molto colorato, l’azione è
sempre movimentata e la sceneggiatura riesce a regalare momenti pieni di
azione, a volte malinconici, ma anche con tantissimo umorismo. La
relazione che si instaura tra Barney e Ron è incredibilmente matura, sfaccettata e
“in continua evoluzione”, descrivendo in modo limpido e molto originale quello
che per un ragazzo di oggi dovrebbe essere la costruzione sana di un
rapporto umano.
Dal trailer può apparire come un
prodotto destinato ai più piccoli, ma la pellicola ha molto, molto di più da
offrire e riesce a incantare davvero spettatori di tutte le età. Da segnalare
l’ottima prova di Lilo nel doppiaggio del robottino Ron.
Ron: un amico fuori programma è una
piccola gemma che non ti aspetti, un film che con il passaparola può diventare
un piccolo cult, anche in ambito educativo.
Un film che speriamo possa crescere e
avere successo con il passaparola, per avere tutto il riconoscimento che si
merita.
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