giovedì 30 gennaio 2025

The Brutalist: la nostra recensione del film di Brady Corbet, con protagonista Adrien Brody, prodotto da A24, che racconta la storia di un moderno “costruttore di piramidi”

Sinossi: All’inizio è solo buio e rumore.

Uomini che in massa urlano e piangono, strisciando in avanti, facendosi largo tra i corpi accalcati lungo le pareti di un tunnel stretto, simile a un budello. Nella testa di László Toth (Adrien Brody) rimbombano però, più forti, le parole delle lettere della moglie Erzsébet (Felicity Jones). Parole di coraggio che si sovrappongono al caos. 

Una sirena irrompe e avvolge ogni altra voce o pensiero. Gli antidolorifici spostano László verso una luce vicina, oltre la soglia. Il viaggio in nave è finito, c’è il sole, la brezza marina. 
Ha davanti ai suoi occhi, maestosa, una specie di “divinità moderna”, la cui figura è opera dello scultore Auguste Bartholdi insieme all’architetto Gustave Eiffel: Statua della Libertà.

È immensa e accogliente, ma al primo colpo d’occhio a László appare come “al contrario”, “girata”, “storta”.

Forse un presagio.

Ma intanto László ride, urla e piange come un bambino venuto al mondo, nel “nuovo mondo”. La sua voce si unisce al coro di tutti gli altri che sono lì e come lui hanno alle spalle un campo di concentramento, pur trattenendone le cicatrici. Sono felici e sovrastano le sirene. 
Il 1947 segna un nuovo inizio e una nuova vita, ma da trascorrere ancora “in attesa”: il momento in cui anche sua moglie, ancora prigioniera, potrà ricongiungersi a lui. I contatti saranno difficili quanto trovare degli intermediari: servirà molto tempo.

László prende intanto un accogliente autobus per Philadelphia, che lo porta a casa del cugino Attila (Alessandro Nivola): nel vicino futuro un letto caldo e un negozio di forniture per ufficio da gestire insieme.

La moglie di Attila, Audrey (Emma Laird), americana e cattolica, non è però molto contenta di questo nuovo ospite, segaligno, dall’aria strana e trasandata. Attila stesso sull’insegna del negozio usa un nome “camuffato”: bisogna “integrarsi” e un po’ nascondersi ancora, sebbene dietro ai sorrisi del sogno americano.

László era comunque un noto architetto della Bauhaus, con tanto di opere presenti e osannate su libri e riviste.

Il suo nome attira ancora l’attenzione e arriva così a Harry (Joe Alwyn), figlio primogenito del grande industriale Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce). Insieme alla sua sorella gemella Maggie (una Stacy Martin un po’ taciturna), Harry sta organizzando una sorpresa per il compleanno del padre: la ristrutturazione completa del suo studio con biblioteca, posto nell’area più periferica di un’autentica reggia.

Carta bianca, quasi nessun limite di spesa e la possibilità di disporre dei migliori materiali e operai. Tempi di realizzazione strettissimi.

Per Attila è l’occasione di una vita. Per László la possibilità di creare di nuovo qualcosa con la sua testa e le sue mani.

Sperimentando con punti di luce “a strapiombo” e vani a scomparsa.

Incorporando gli spazi con lo stile “essenziale”, quasi “scheletrico”, delle moderne sedie per ufficio, “ora in vetrina”, anche nel negozio di Attila.

I due dedicano giorno e notte ai lavori. Spostano personalmente e forse distruggono accidentalmente mosaici, rivoluzionano l’ambiente trasformandolo in una enorme trincea, ridono e sgobbano, bevono. Ogni tanto, di nascosto, László riprende quegli antidolorifici che durante il viaggio lo hanno aiutato e lo fanno ancora stare bene. Lo fanno sentire più lucido nella creazione e l’opera trova una sua forma, personale quanto “potente”.

È in piena notte che irrompe nel piccolo cantiere Harrison Lee Van Buren. L’uomo vede ovunque solo caos e disordine, si sente personalmente “offeso” dalla presenza di stranieri che stanno lavorando per lui la notte.

László gli risulta subito scortese anche perché lo trova non esattamente “in sé”. Vuole cacciare tutti all’istante, ma prima devono sistemare, riordinare e chiudere tutto. Non è felice, vorrebbe che tutto tornasse esattamente come prima, ogni libro al suo posto. Ma non è possibile. Così sbraita e agita i pugni.

Di fatto i lavori erano quasi ultimati e vengono portati a termine già la mattina dopo, ma con nessuna paga né rimborso, a monte di un investimento già sostanzioso, minacce di cause legali di risarcimento danni.

Maggie prende la palla al balzo per far buttare fuori di casa il cugino strano del marito: insinua che abbia allungato anche le mani su di lei.

Attila chiude la porta della sua casa e László inizia a vivere di fortuna e miseria, tra i poveri della città, dormendo in casermoni per l’accoglienza dei senza tetto, trovando lavori occasionali da manovale. 
Ogni tanto entrando in una sinagoga, per avere informazioni della moglie attraverso una rete di conoscenze.
Incontra nel suo quotidiano sempre più gli antidolorifici, ma trova anche un amico: Gordon (Isaach de Bankole’), un operaio di colore che dorme a fianco della sua branda in dormitorio, cercando a stento di far sopravvivere, con gli avanzi della mensa, un bambino di pochi anni che tiene sempre stretto al petto.

Nel futuro di loro due c’è la costruzione di un Bowling e a László non dispiace: ha in passato realizzato altre opere pubbliche come piscine, scuole, biblioteche, ma mai un Bowling. 
Ma ecco che ricompare davanti a lui Harrison Lee Van Buren.

È raggiante.

Lo studio nuovo che non voleva e non ha pagato, realizzato da questo “famoso architetto ungherese sopravvissuto ai campi di concentramento”, è stato fotografato e messo su una rivista d’arte. 
L’industriale ammette di aver “agito di impulso”, in quanto affranto per il grave stato di salute della madre Margaret, che proprio in quella notte scellerata stava morendo. Invita l’architetto a casa sua per un evento di gala e riconoscimento pubblico del suo valore artistico, in cui lo presenterà a tutta la principale élite di Philadelphia. Anticipa dei soldi.

László accetta, stringe mani, sorride.

Durante la festa Harrison Lee Van Buren conduce tutti i suoi ospiti sul ciglio di una collina.

Lì dichiara di voler costruire un enorme monumento dedicato alla madre scomparsa. Un centro polifunzionale con chiesa, piscina, palestra, stadio, biblioteca e sale per incontri. Sarà enorme e aperto a tutti, complesso e moderno, ma anche qualcosa di profondamente bello rispetto ai classici casermoni dell’edilizia americana: “artistico”. László sarà incaricato personalmente del progetto e scopre la cosa sul momento, su quella collina.

Non può sottrarsi, è tutto già predisposto, compresa una casa per lui e la moglie, appena riusciranno a portarla in America.

Erzsébet arriva nel nuovo mondo presto, ma ridotta a uno straccio a causa della osteoporosi: su una carrozzina sospinta dalla nipote Zsófia (Ariane Labed), a sua volta rimasta muta dopo l’esperienza nel campo di Dachau.

Cose che si potrebbero aggiustare con il tempo e le giuste cure. Il tempo passa.

Il rampollo Harry jr inizia a girare con insistenza intorno a Zsófia e non è contento di essere respinto: come se la generosità fosse gratis.

I contatti di Harrison Lee Van Buren permetterebbero a Erzsébet di tornare a lavorare come giornalista, sui maggiori quotidiani di New York, ma questo diventa motivo di litigi continui con il marito.
Fino a che l’architetto ungherese non ha più tempo per gli affetti, gli screzi, giochi di soldi e poteri. 
Ormai sospinto solo dalla morfina, vive subendo ogni ritardo e intoppo dei lavori come una ferita lancinante e personale: vuole pagare di persona tutti gli intoppi ed errori di quei lavori, a costo di non guadagnare niente. L’industriale cinicamente acconsente.

Ormai Laszlo è sempre più irritabile e assente. 

Non pensa ad altro se non alla costruzione di quella che, giorno dopo giorno, ha sempre più l’aspetto di una moderna piramide in cemento. Il suo tributo a un moderno faraone, dispotico e umorale come quelli della Bibbia, ma anche la sua opera più maestosa, “essenziale”, imponente.

Vorrà ricoprirla di marmi di Carrara personalmente scelti nel cuore della montagna.

Vorrà legare insieme le strutture con un dedalo di gallerie sotterranee.

Vorrà che l’edificio appaia, a chi lo visita, stretto e altissimo, non solo imponente ma “trascendente”.

Predisporrà che la croce della chiesa appaia dall’alto, direttamene sull’altare, disegnata dal riflesso fuggente del sole, spostandosi a determinate ore del giorno.

Il significato di tutto questa dedizione e sacrificio personale sarà forse spiegato, un giorno, sui libri di architettura moderna.

 


La costruzione artistica di un colossal: Nel 2018 iniziava la produzione del nuovo film di Brady Corbet, dopo il successo della sua seconda pellicola, Vox Lux. Ad affiancare il regista nella sceneggiatura c’è ancora la sua compagnia Mona Fastvoid.

C’è molto interesse intorno al progetto e giravano diversi nomi di grandi star: l’opera puntava a offrire uno sguardo visionario sulla deriva moderna del sogno americano, con afflati quasi “biblici”. 
I lavori inizialmente previsti per il 2020 slittarono all’estate del 2021 e poi slittarono di nuovo, fino alla seconda metà del 2022. Il corona virus mieteva molte vittime tra tutti coloro che sono coinvolti nella lavorazione e la pellicola iniziava a mutare, acquisendo quasi l’aria di un film maledetto. 
Le riprese iniziarono ufficialmente a Budapest solo nel 2023, nel mese di marzo, per poi spostarsi in Toscana, a Carrara e finire a maggio.

Per le immagini si sceglieva un formando difficile e affascinante come il VistaVision: 35mm, ma anche con copie nell’estensione di lusso a 70mm. Secondo il regista per avere lo stesso fascino “panoramico” delle pellicole degli anni ‘50 come Ben-Hur, ma pure il formato voluto da Tarantino per il western Hateful Eight. Come Hateful Eight, The Brutalist sarebbe stato proiettato con una pausa tra il primo e secondo atto, di quindici minuti, con in sottofondo un accompagnamento musicale, come avveniva stilisticamente nei cinema per i grandi film del passato. 
La fotografia del britannico Lol Crawley, anche lui assiduo collaboratore di Corbet, puntava a mettere in risalto un’America in perenne costruzione e trasformazione, “fatta e disfatta” di cantieri, binari e ciminiere, brulicante di “men at work” e all’ombra di una natura “fangosa”, “maligna”. Un mondo di “luce riflessa”, artefatto, cemento plumbeo e grigio, sgraziato e ingentilito solo dai tramonti e le luci artificiali della sera. Un mondo in netto contrasto con la solarità e geometria delle “montagne scavate” di Carrara: quasi un luogo metafisico, di scambio, artistico e di comunione, direttamente con le radici “più benigne” della natura. 
La colonna sonora di Daniel Blumberg, nella rosa dei candidati agli Academy Awards, che sarebbe stata in seguito definita “elegante e muscolare”, sceglieva un ampio uso di sonorità jazz di trombe e pianoforte, mischiando questo stile con tamburi e corni (se vogliamo non lontani dalle sonorità dei lavori di Christopher Nolan), alla ricerca di un senso epico quando avvolgente, da “vecchia Hollywood”. 
Per i primi dieci minuti del film veniva composta una potente overture con sonorità alla Stravinskj.


Daniel Blumberg è un artista poliedrico e in questo caso, oltre alla colonna sonora, prendeva parte, insieme al dipartimento artistico, anche alla costruzione visiva delle “architetture brutaliste digitali” del film.

La post-produzione e il montaggio opera di Dávid Jancsó sono lunghi e accurati, durano oltre un anno. 
Uno specifico programma di intelligenza artificiale è stato implementato sui disegni tridimensionali, per calcolare, in un modo realistico e sostenibile nel mondo reale, la fisica delle strutture più imponenti.

Perché di fatto, nonostante la magia del cinema, la fedeltà e accuratezza storica della pellicola di Brady Corbet, László Toth “non è mai esistito”. La pellicola non è una biografia.

László Toth non è mai esistito: il protagonista della nostra storia, l’architetto ungherese “brutalista” László Toth, è a detta dei realizzatori un personaggio di fantasia, modellato però sulle vite e opere di artisti reali, molti dei quali collegati direttamente con la Bauhaus, ma con in comune, in alcuni casi, anche l’origine ebraica, quanto tristemente la circostanza di essere stati deportati nei campi di concentramento. Vengono citati da Corbet Marcel Breuer, Paul Rudolph, Erno Goldfinger e László Moholy-Nagy, che in qualche modo qui “convivono insieme” nello stesso corpo, descrivendo in modo affascinante un unico percorso, umanamente quanto artisticamente coerente.

Quello che segue nel paragrafo è quindi un breve, semplificato e superficiale, “percorso orientativo for Dummies”, per poter apprezzare alcune delle “suggestioni e suggerimenti visivi” offerti dalla pellicola, anche strettamente funzionali a fini narrativi. Uno “spunto sgangherato”, per poi esplorarle in proprio, nelle sedi più consone, qualora il tema risulti interessante.

Le opere di László Toth relative al design di interni, nello specifico le sedie dello studio di Harrison Lee Van Buren, sono probabilmente ispirate ai lavori dell’architetto modernista Marcel Breuer. Come László era ungherese, ma approdò in America prima, nel 1937. Le sue sedie, la Wassily Chair e la Cesca Chair, formate da sottili tubi di metallo piegati e integrati con stoffe a taglio rettangolare, eleganti quanto perfette per una produzione industriale in serie, sono state collocate negli studi della IBM e diventate di fatto parte dell’estetica moderna degli uffici contemporanei. 
Le imponenti e rigide linee esterne degli edifici, geometriche e spigolose, che quasi sembrano costruite con “enormi mattoncini lego ante-litteram” (di fatto blocchi prefabbricati che arrivavano via treno, da assemblare in loco), possono ispirarsi a opere come il Yale Art & Architecture Building, di Paul Rudolph. Un architetto, pittore e musicista, figlio di un prete metodista itinerante nell’America del Sud, che spesso lo faceva girare con sé. Viaggi visivi ed emotivi che hanno stimolato la sua curiosità verso la fusione di diversi stili architettonici, dai più antichi ai moderni, fino a volerli “sintetizzare insieme”.

László potrebbe invece condividere con Ludwig Mies Van der Rohe la sua passione per le rocce e i marmi. Per Mies un retaggio dal lavoro paterno, per il personaggio creato da Corbet il simbolo del legame con un amico scultorie di Carrara. Da qui l’utilizzo nell’architettura del marmo come componente di “tramite”, tra uomo e natura, passato e presente. Si dice che spesso, per descrivere i suoi lavori, Mies usasse gli aforismi “less is more” e “Dio è nei dettagli”: due frasi che hanno molto in comune con il modo di affrontare la vita e l’arte di László.

Con Erno Goldfingher il nostro protagonista potrebbe invece condividere la verticalità vertiginosa, che legava i popolari “Tower Block” del primo con, nella finzione, “la torre centrale” del monumento dedicato a Margaret.

Infine, il nostro architetto potrebbe condividere con László Moholy-Nagy l’idea ancora sperimentale per quei tempi di “art of light”: se vogliamo una “rivisitazione” dell’uso della luce del mosaico, ma che si affida solo alla “luce naturate” e istallazioni in grado di “filtrarla”, (facendo di fatto entrare la natura nell’elemento artistico), proiettandola sulle superfici con la logica delle ombre cinesi. 

Soprattutto nella descrizione narrativa di queste ultime suggestioni artistiche, relative a Meis, Erno Goldfingher e László Moholy-Nagy, il regista arriva infine a delineare, sul finale del film, un’idea specifica e profonda del “progetto artistico” dì László. Un progetto che ci viene “svelato” nella sua ispirazione umana e ambizione “sociale”, insieme a una definizione puntuale del termine “brutalismo”, in un modo molto originale quanto diretto, struggente. Un modo che in fondo ricollega l’arte, alla vita dell’artista, in modo profondo.

Una “definizione” che ci porta a una comprensione nuova del personaggio stesso, ma che starà allo spettatore scoprire in sala, in uno dei finali più originali, inaspettati e intriganti.



Uomini e dei:
The Brutalist presenta una terna di attori principali che hanno già puntualmente ricevuto le candidature come Miglior Attore (Adrien Brody), Miglior ruolo di supporto maschile (Guy Pearce) e Miglior suolo di supporto femminile (Felicity Jones). Ma del resto The Brutalist ha già fatto incetta di tantissimi riconoscimenti, premi e nomination.

Brody, che ha avuto un insegnante personale di ungherese per parlare con l’accento più corretto, torna a impersonare un uomo complicato e solo, che riesce per lo più a esprimersi attraverso la sua arte, come ai tempi de Il pianista di Polanski.

László lotta costantemente con le sue visioni: preferisce “dialogare con gli assenti” piuttosto che affrontare le persone nel presente, sembra preferire la matematica alla politica. Sempre più spesso, fugge cinicamente dalle sue responsabilità “umane”, in modo compulsivo quanto doloroso. 
Il personaggio di Felicity Jones ci viene presentato come un angelo dalle ali spezzate, che il nostro protagonista può ancora accogliere e accudire, ma che non è più in grado di amare. László la sospinge da dietro la sua carrozzina, senza di fatto quasi mai incrociarne sguardo e parole. Si sottrae ai pochi momenti di dolcezza che lei teneramente richiede, vede come pericolose per lei tutte le occasioni di uscire di casa o sottrarsi al riposo. Lei è più di un angelo spezzato e Felicity Jones ce la descrive tanto fragile quanto tenace: vuole combattere, perché ha ancora molto da dire e forse ha le stesse motivazioni del marito. Se László si è ridotto a parlare “solo con la sua arte e con nessun altro”, lei da giornalista ha bisogno di tornare a scrivere, denunciare le iniquità, dare un senso a tutta la sofferenza che ha subito, ma anche all’ipocrisia della “accoglienza americana”. La sua arma, tragicamente spuntata ma potente, rimane il dialogo. 

Sono come due pianeti distanti, riuniti alla corte di un imprenditore/padrone ambiguo, gigantesco quanto vanaglorioso, affamato dei “monumenti e riconoscimenti” che “insieme” possono offrirgli.

Guy Pearce ci ha già abituati a personaggi che hanno incarnato sul grande schermo l’idea di un potere assoluto quanto corrotto, come il Peter Weyland della saga di Alien. Creature mosse da pura ambizione, quasi capaci di amare e odiare allo stesso tempo e con pari “ferocia”, paterne e maligne, perennemente irrisolte, aristocraticamente “superiori” per privilegi di sangue. Il suo Harrison Lee Van Buren si muove sostenendo un sorriso cordiale di facciata alla Walt Disney, che trattiene a fatica, perennemente in lotta con un destino che non lo vuole “al centro dell’universo”, nonostante tutti gli sforzi che lui mette in atto per farsi amare. Si crede sinceramente una specie di divinità e il suo primo sacerdote è genuinamente il figlio Harry, interpretato dal bravo Joe Alwyn. Rubicondo quanto arrogante, goffo quanto cattivo, Harry vive nell’ombra, tra un rimprovero e l’altro, purché quell’immagine paterna non venga infranta e lui possa continuare a godere della sua vicinanza. Ma Harry alla fine non possiede una sua identità: è più simile a “un braccio del padre”, pronto a colpire, nel caso qualcuno lo minacci. Una “sua estensione”, una marionetta. Il resto dei personaggi è simile a un coro silenzioso, per lo più come il personaggio traumatizzato di Zsófia. Ma un coro subito pronto a prendere voce come nelle tragedie greche, “farsi branco”, appena le circostanze lo permettono e il sorriso di condiscendenza non fa più parte del loro dress-code: soprattutto quando uno straniero rifiuta di sottomettersi, cambiare nome e usanze e abbracciare “l’american way” come unico modello culturale. Come nel caso di Attila e Audrey.

All’ombra del grande sogno americano, che promette a tutti indistintamente progresso e possibilità infinite di emergere, troviamo quindi tutti gli elementi più classici della tragedia greca: fusi insieme con originalità e una grande messa in scena dal sapore simbolico: in uno spettacolo che prima di tutto riesce a parlare di arte, in modo nuovo quanto accattivante, profondo.

Finale: The Brutalist è una esperienza cinematografica monumentale: per la sua incedibile durata di 3 ore e 35 minuti, per la grandiosità dei paesaggi descritti nella bellezza dei 70mm panoramici come Ben-Hur, per le scene enormi e brulicanti di persone al lavoro come Metropolis di Lang, per le musiche avvolgenti e prolungate come la prima overture, all’inizio del film, che dura oltre 10 minuti da sola e ci “proietta nell’azione come in un quadro”, come l’incipit di Salvate il soldato Ryan.

A una messa in scena “faraonica” non potevano che corrispondere toni e personaggi non da meno: dalla caratura “biblica”, da tragedia greca. Personaggi complessi e spigolosi, titanicamente disperati, anche perché Shakespearianamente anche in lotta con i propri fantasmi, ossessioni e ambizioni.

A questo Bradley Corbet aggiunge la creazione di un mondo stimolante ed “erudito”, dove l’espressione artistica è di fatto centrale a tutto: un “potere”, che alimenta “sogni di immortalità” ma in grado di farci accedere anche alla dimensione inconscia, trasformandosi in “memoria” e “speranza”.

È difficile avvicinarsi a The Brutalist senza venirne affascinati.

Ogni comparto tecnico e artistico riesce a esprimersi al meglio, mettendosi al servizio di una “visione” di cinema unica, originale, complessa quanto imponente.

Ma “l’imponenza della messa in scena” è una caratteristica che va sempre mediata: con la sensibilità dello spettatore, ma anche materialmente nei termini “pratici”, di tempo e impegno, che uno è in grado di “offrire all’opera”.  

Certo è tempo ben speso.

Se cercate un film “gigantesco in tutte le sue parti”, di “quelli da Oscar”, qui lo avete trovato. 


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