Il maestro Amerigo (Stefano Accorsi) sta per entrare in scena a teatro, con il suo violino, quando giunge nel suo camerino una telefonata.
Parla con la madre, poche parole che lo devastano. La sua assistente gli chiede se va tutto bene, lui dice che è morta sua madre. Amerigo (Christian Cervone) va in scena e sulle note di una melodia dolce e malinconica torna a quando era bambino, di otto anni, per le strade di Napoli del 1944, in una città sotto le bombe.
Scherzava, nascosto sotto un carretto, mentre mamma Antonietta (Serena Rossi) lo chiamava preoccupata e lui pensava di stare ancora a giocare a nascondino, mentre tutti scappavano. Una esplosione e detriti ovunque, il quartiere coperto da calcinacci.
Amerigo vestiva lui stesso quasi di calcinacci, una canottiera sdrucita e poco più, neanche le scarpe. Mancavano i soldi e mancava quasi tutto il resto, con un padre ancora in America, disperso, di cui non si avevano notizie da mesi.
Alcuni “uomini d’onore” (Francesco Di Leva) si erano già fatti avanti per aiutare e la madre di Amerigo, che con quel poco che fruttava rammendare stracci era costretta ad assecondarli. Al mercato, per racimolare poche lire per il pane, i bambini provavano a “truccare” dei topastri, delle “zoccole”, per confonderli con ermellini e rivenderli: coprendoli di vernice bianca. Peccato che il trucco non funzionava sempre e quasi rischiavano un guaio.
Le prospettive erano magre e la madre di Amerigo decideva così qualcosa di difficile quanto necessario: assecondare, come altre madri, che suo figlio salisse su un treno, destinazione una città del nord, dove delle donne del partito comunista avrebbero allevato i loro bambini come fossero loro, nutrendoli e dandogli una istruzione, pure scarpe nuove, fino all’arrivo di tempi migliori.
Anche Tommasino e Mariuccia, amici di Amerigo, sembravano destinati a salire su quello stesso treno, ma le perplessità sulle storie dei “comunisti che mangiano i bambini” erano molte. I bambini un giorno vennero fotografati insieme alle loro madri, trascinati in lacrime tra infermieri, assistenti sociali e psicologi. Amerigo Speranza di 8 anni, con alloggio nei quartieri, nessuna scuola e un fratellino morto di tre anni, veniva schedato e poi passato sotto la doccia, per togliergli tutti i calcinacci.
Diedero ad Amerigo pure delle scarpe, un po’ piccole ma bellissime. Insieme a vestitini a modo, con un numerino cucito sui cappottini. In stazione c’era il treno, destinazione Modena, ma anche una mezza sommossa in atto: si urlava che fossero diretti in Siberia, per essere mangiati una volta tagliati a pezzettini, tutti iniziarono a piangere.
Qualcuno fece riflettere la folla. Era per il loro bene, per non vedere più bambini affamati e sparati. Una responsabile del partito comunista (Antonia Truppo), madre che aveva da poco perso un figlio, giurò sul suo onore che li avrebbe riportati tutti indietro, appena fosse stato possibile.
Il treno partì, i bambini si spogliarono: se andavano a vivere dai ricchi, quei vestiti che avevano indosso potevano darli alle, madri per rivenderli. I ricchi gliene avrebbero dato altri. Non ci furono più i numerini dei cappotti e allora il numero glielo misero a penna sul braccio. Il viaggio era lungo e di colpo la paura si trasformò nella dolce caciara in una lunga e chiassosa gita.
Arrivarono le coperte, una mela, la notte. Amerigo temeva gli fregassero le scarpe strette appena conquistate. Il nuovo giorno raccontava al finestrino paesaggi bianchi come latte, che forse si potevano mangiare. Non avevano mai visto la neve. Poi il treno giunse a destinazione e c’era tutta la banda di paese, manifesti “Nord e Sud Fratelli”, volti allegri in un clima da battere i denti. I bambini scendevano avvolti in copertine mentre si suonava l’inno di Mameli, un po’ spaventati.
Poi arrivò l’ora del pranzo in una mensa comune e nessuno mangiava: il prosciutto aveva sopra come “una muffa”, li volevano avvelenare? Non conoscevano la mortadella e poi, tranquillizzati, di colpo si abbuffarono, insieme a grosse tazze di latte caldo.
Arrivarono alla spicciolata le famiglie per l’abbinamento, parlando una lingua un po’ stana e piene di doni. Li portavano a casa mentre i piccoli non riuscivano quasi a spicciare parola. Tommasino veniva separato da Amerigo, che rimaneva solo su una panca.
Non c’era nessuno per lui, qualcuno si sarebbe dovuto “sacrificare”. Si faceva avanti una giovane donna, Derna (Barbara Ronchi) che viveva sola, faceva la sindacalista e come favole conosceva solo lo statuto della CGL. La mattina sembrava fosse scoppiata una bomba che aveva avvolto ogni cosa, ma invece quella era solo la prima nebbia di Amerigo.
La colazione era nella fattoria del fratello di Derna, Alcide (Ivan Zerbinati), dove tutti aiutavano lavorando i campi e si insegnava a suonare il violino, come faceva il nonno. Dopo aver raccolto le uova, Amerigo rimase stregato da una enorme Bologna appesa a una parete: prese una scala e rubò i pistacchi.
Temette che prima o poi lo avrebbero scoperto, magari allestendo per lui un grosso pentolone: per mangiarselo. Questa storia che poco dopo, con grossi sorrisi, lo avvicinano al grande forno, per “insegnargli a fare il pane”, lo fece scappare a gambe levate.
Poi Derna lo rassicurò sul fatto che sarebbe tornato a Napoli, appena i prati fossero diventati dorati dal grano. Era vero? Di sicuro era vero che ad Amerigo toccava ora andare a scuola, fare amicizia con bambini che gli dicevano che “puzzava di pesce” e fare i conti con al sua nuova mamma, Derna. La sua seconda mamma, che ogni giorno si faceva strada in una società particolarmente maschilista.
Si parla, attraverso il punto di vista dei bambini, del difficile ma speranzoso periodo del dopoguerra, così come del periodo di “avvicinamento” del nord con il sud, quando era ancora difficile riconoscersi come “tutti italiani”.
Si parla di una della pagina più belle e meno note della nostra Storia: un racconto reale di accoglienza, grande umanità e integrazione, se vogliamo con echi a quello che accadde negli anni ‘80, con i bambini di Cernobyl.
Si parla ancora una volta di genitorialità, in un paese come il nostro, che vive tutt’oggi una grande crisi delle natalità, e che forse per questo ha ancora più bisogno di storia sull’altruismo e generosità che dovrebbero stare alla base del diventare genitori. Storie coraggiose quanto concrete, che come questa vanno ad esplorare la difficile catena di rapporti umani e sociali che implicano, allora come nella quotidianità di oggi, la possibilità di prendersi cura e crescere un bambino.
La storia della Comencini adotta un linguaggio semplice, adatto anche ai più piccoli: il racconto di un viaggio in una “terra lontana”, ricco di tante piccole/grandi scoperte, quanto della necessità, per sopravvivere, di essere coraggiosi, creare dei legami a volte complessi, accedere alla scuola per garantirsi un futuro. Il racconto riesce ad arrivare al cuore grazie alla bravura e spontaneità dei giovani interpreti, ma anche grazie ai personaggi di tre “giovani madri”, combattive quanto generose, disperate quanto determinate. Antonia Truppo, Barbara Ronchi e Serena Rossi è come se si fondessero insieme, in un unico complesso ritratto di tutte le madri del dopoguerra: donne costrette a essere “dure” pur di trasmettere sicurezza, determinate a cambiare il mondo credendo nell’altruismo e nella politica, disposte a infrangere i loro sogni e desideri di madri, pur di preservare dalla miseria e dalla fame. Donne che in qualche modo assomigliano al personaggio della Cortellesi di C’è ancora domani.
Il treno dei bambini è un piccolo film dal grande cuore, che non lascia indifferenti e ci permette di riflettere su quanto coraggio serva per essere anche oggi dei buoni genitori.
Preparate i fazzoletti.
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