giovedì 13 giugno 2024

L’esorcismo - Ultimo Atto: la nostra recensione del film, in parte horror e in parte “biografico”, di M.A. Fortin e Joshua John Miller, con protagonisti Russell Crowe e Ryan Simpkins



È notte fonda, il freddo è pungente, tutto è avvolto dal silenzio.

Un prete si fa largo tra la nebbia, recita concentrato delle preghiere e poi senza fermarsi entra in una casa di tre piani con giardino. Si sta preparando un esorcismo per salvare la vita di una ragazzina posseduta da un diavolo. 

Poi il prete impreca. Ha sbagliato qualcosa. Non si trova in una vera casa indemoniata, ma sul set silenzioso di un film, fuori dall’orario consueto delle riprese. Non è un vero prete esorcista ma un attore che sta provando il suo ruolo, ha dimenticato la parte e in qualche modo così, imprecando, si è “burlato del rituale”. 

D’un tratto vediamo il quadro di un demone dall’aria adirata. Forse solo un oggetto di scene grottesco. Le luci si spengono. L’attore viene buttato giù dal terzo piano della scenografia, nel vuoto. 

Esistono film dell’orrore maledetti come Poltergeist. Film che durante la lavorazione sono afflitti da continui incidenti, anche mortali, come se fossero stati in grado di evocare nella loro messa in scena, tra realtà e immaginazione, dei veri demoni. 

L’attore che interpretava la parte dell’Esorcista muore forse per mano di un demone che aleggia sul set. O forse è solo inciampato. Si va avanti.

Si offre la possibilità che a interpretare quella parte sia un altro attore, una “nuova vittima”.

Il prescelto è Anthony (Russell Crowe), un attore decaduto e già finito tra le braccia del demone dell’alcol, dopo la prematura scomparsa della moglie. Ha cercato di rimettersi in sesto e ora è accudito dalla figlia Ryan (Ryan Simpkins, conosciuta per la serie horror Fear Street Trilogy e per Revolutionary Road), che lo aiuta a ripassare battute che non riesce più a memorizzare bene come un tempo, in attesa dell'audizione. La sua grande rivalsa. 

Lee è felice per lui e potrà incontrare magari sul set la cantante Blake (interpretata dalla cantante Chloe Bailey), di cui è grande fan, che qui esordisce al cinema nel ruolo di “posseduta”. Il provino sembra andare decisamente male. 

Il regista Peter (Adam Goldberg), scontento, inizia a insultare, umiliare e far arrabbiare Anthony. Gli ricorda che è un fallito, un ubriacone, un uomo che non ha più motivo di vivere. Minuto dopo minuto l’attore appare sempre più confuso e afflitto. 

Lee non capisce cosa stia succedendo, sembra quasi che non senta gli insulti rivolti al padre. Dal modo di parlare confuso, guardandolo, che il padre, per “sostenere lo stress”, abbia ripreso a bere, tornando a duettare con il suo demone.

Ma i demoni non esistono. Lo sottolinea più volte alla festa per la ripresa del film il consulente religioso, padre Conor (David Hyde Pierce), di fatto più che un pastore tradizionale un laureato in psicologia (Hyde Pierce ha impersonato l’ironico psicologo Fraiser nelle serie tv Cin Cin e nel suo spin off Fraiser), che ha abbandonato da tempo le suggestioni del folklore. La parte principale del grande esorcista è di Anthony, mentre nel ruolo del giovane apprendista c’è il giovane attore Joe (Sam Worthington, l’attore protagonista di Avatar), che è voluto diventare attore proprio guardando recitare Anthony, quando era una star dei western. 

L’incidente sul set sembra dimenticato in un lampo, ma ne seguiranno di nuovi.

Lee nei giorni successivi proverà sempre più paura a condividere la casa con il padre. Anthony di notte vaga in stato di trance per il palazzo. A volte parla alla figlia come se non fosse lui ma un estraneo, subdolo e volgare, con una voce quasi diversa. Sul set momenti strani di tensione, incidenti e blocchi improvvisi delle riprese si susseguono. Il quadro di scena del demone protagonista del film, intanto, se la ride. 


Il regista Joshwa John Miller, dopo una intelligente e divertentissima commedia horror/slasher, The Final Girls, super meta-cinematografica e ultra-citazionista, torna a scrivere insieme al suo sceneggiatore e compagno di vita, M.A.Fortin, un nuovo film dell’orrore. Questa volta non abbiamo a che fare con grossi e maneschi epigoni di Jason Voorhees alle prese con adolescenti discinte, nella cornice pop di un horror anni ‘80, ma siamo nell’ambito dei “più seri” film sugli esorcisti ed esorcismi anni ‘70. Erano film sulla fede ma soprattutto sul “potere”, sulla manipolazione della società ai danni delle persone comuni. 

Ne nasce una pellicola ancora una volta stratificata, curiosa e personale, di stampo ancora più marcatamente “autobiografico”.

Joshwa John Miller è infatti il figlio di Jason Miller, attore vincitore del premio Pulitzer per la recitazione nel '73, per la sua interpretazione del ruolo di padre Merrin ne L’Esorcista di William Friedkin. 

Già in The final girls il regista ci parlava della difficoltà per un figlio di vivere il suo rapporto con un genitore-attore, spesso lontano e sfuggente, di fatto cercando “per conoscerlo” di sovrapporre “quanto più possibile” il suo ruolo del genitore con i molti suoi ruoli sullo schermo. Vivere a fianco di Jason Miller, come figlio, non deve essere stato per Joshwa particolarmente semplice. L’attore, scomparso nel 2001,  era un perfezionista, per molto versi un genio, ma che ha avuto anche molti momenti di crisi, sbalzi d’umore, depressione e tanti demoni personali “oltre a Pazuzu”. 

Nel rapporto tra i personaggi di Lee e Anthony, che risulta la parte più interessante, sentita  e profonda del film, Miller sembra rivivere parte di quel rapporto travagliato tra padre e figlio, affrontando anche temi complessi come le dipendenze, ma anche  la difficile accettazione del padre della sua omosessualità. 

Il “film nel film”, quello che affronta sulla scena l’attore fallito Anthony, è poi a tutti gli effetti una reinterpretazione libera de L’Esorcista di Friedkin, e diventa minuto dopo minuto una dantesca discesa agli inferi, tra i demoni dell’alcol e quello del set maledetto, dove realtà e finzione continuamente vanno a confondersi e sovrapporsi. 

Anthony e Lee vagano insieme sulla scena, legati a inesplicabili “radici del male”, profonde quanto personalissime, cercando in modo tenero quanto tragico di continuare a parlarsi, perdonarsi e accettarsi come famiglia. 


Il personaggio della Simpkins è il cuore della storia. Ci racconta di una giovane ribelle cresciuta per lo più da sola, che diventa caregiver del padre ma non controvoglia, materna quanto risoluta, critica e pratica. Le scene con sulla scena padre e figlia risultano sempre ben realizzate, per nulla macchiettistiche, autentiche. 

Forse è solo l’amore della famiglia, sembra dirci il regista, l’unica cura a un “male” che non sembra comprensibile neanche per la giovane scienza medica/psichiatrica, qui ironicamente “vicaria” della vecchia religione, nonché “impersonata” dall’attore che è stato il più divertente psicologo da telefilm più favola della tv, David Hyde Pierce, non riesce del tutto a comprendere. 

Anche la scrittura del suo Padre Conor è gustosa, carica di ironia ma al contempo complicata, in costante bilico tra fede e ragione, come se il personaggio fosse sempre sospeso, incerto se affidarsi ancora a dei valori forse fuori moda. Hyde Pierce interpreta questa “bussola morale spuntata” con molta raffinatezza e trasporto, cercano di far riemergere “un altruismo” che di fatto dovrebbe connotare tanto i sacerdoti che i medici. 

Il personaggio di Anthony è invece del tutto in crisi, fisica quanto spirituale, come forse si è sentito in crisi, negli ultimi anni, anche l’attore che lo interpreta: Russell Crowe. 

L’attore australiano, diventato celebre per il ruolo da protagonista ne Il Gladiatore di Ridley Scott, è con il tempo diventato celebre anche una vita fuori dal set molto turbolenta. Oggi sceglie sempre più spesso ruoli sopra le righe, in cui dà voce anche a un corpo in decadimento, a una vocazione naturale verso il b-movie. Anche la locandina de L’esorcismo - Ultimo Atto pare richiamare graficamente e grottescamente a quella di un poliziesco anni ‘70, con Crowe che impugna un crocefisso come una pistola, come farebbe Callaghan. 

Crowe si mette a nudo ed è come sempre fantastico. È “enorme e viscerale” nella “espressività caricata” dei suoi movimenti, quanto nel modo incerto e spaesato di incedere del suo personaggio. È gioiosamente teatrale nei momenti di “rabbia metafisica”, ma sa rendersi piccolo, intimo e indifeso, quando affronta con difficoltà e sincero sforzo la sua dipendenza. Come dice in una battuta meta-cinematografica il finto-regista del film: se hai un grande attore non puoi solo fare un film horror, devi fare almeno un dramma psicologico. Ed è di fatto ciò che riesce meglio qui a Joshua John Miller, anche perché sul tema “horror” tutto diventa confuso e strano proprio “nell’ultimo atto” della pellicola richiamato dal titolo. 

La parte finale, se vogliamo in linea con quanto prescrive il genere horror, è un caos fatto e finito in cui esplode tutto, regna lo splatter e la sceneggiatura non sembra voler prendere mai una direzione precisa tra realtà e finzione. Tra le righe si comprende lo sforzo di tenere insieme l’idea che i demoni dell’alcol non sono troppo diversi dai demoni di altro tipo, come il fatto che la possibilità di uscire da una dipendenza/possessione sia possibile solo grazie all’aiuto, e spesso sacrificio, di altre persone amiche. Ma i tempi narrativi sono forse troppo concitati, la messa in scena forse eccessivamente confusa e sarcastica il “demone” troppo raccontato, quasi reso una macchietta ciarliera e depressa. 

Per un attimo sembra di tornare dalle parti della commedia horror di The final Girls, ma questo cambio di registro (forse necessario al regista/sceneggiatore per prendere maggiore distanza tra storia personale e realtà filmica) è forse troppo ardito e sconclusionato.  

Nel plot-twist finale la struttura si riprende, con una scena dal gusto gioiosamente eccessivo degno degli horroracci del passato, ma l’ultimo atto de L’esorcismo - ultimo atto ha infine il retrogusto della peperonata e di fatto butta un po’ via molto del fascino complessivo dell’opera. O per lo meno rende parecchio strano e un po’ sconclusionato il tutto. 

Non è un film perfetto, ma un film che per tre quarti ha una direzione interessante e attori interessanti. Tre quarti di pellicola che sanno raccontare l’intimità di una famiglia, i dolori delle dipendenze, il senso di vuoto e sconforto nel ritrovarsi nel mondo senza avere i mezzi per rialzarsi da soli. 

Poi arriviamo all’ultimo atto e serve un po’ di ironia a farci i conti. Ma chi è in grado di farlo potrebbe dimenticarsi presto dell’ultimo miglio della pellicola, considerando un bilancio generale infausto ma forse a tratti non così disastroso. 

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