sabato 1 giugno 2024

Il regno del pianeta delle scimmie: la nostra recensione del film di Wes Ball, nuovo capitolo della saga ispirata al libro di Pierre Boulle, ambientata 300 anni dopo gli eventi di The War - il pianeta delle scimmie di Matt Reeves.

 

Sono trascorsi molti anni dalla storia del primo grande leader, Cesare. Tra le verdeggianti rovine metalliche dei palazzi della civiltà passata degli “echo”, ormai del tutto ricoperte dalla vegetazione, i giovani scimpanzé “simian” del clan “aquila” si arrampicano con fatica e attenzione verso le vette più alte, in cerca dei nidi dei rapaci. 

Il “giorno del legame” si avvicina e Noa, Soona e Anaya devono riuscire almeno a impossessarsi di un uovo a testa per compiere il rito. Da quello nascerà un’aquila che potrà essere istruita attraverso i loro canti misteriosi, perché diventi la compagna, seguace e amica di una vita. Un rapace con cui combattere o pescare i pesci di fiume. 

La caccia che decreterà il passaggio dei tre all’età adulta si fa presto rischiosa quando impervia. Le vecchie torri arrugginite, tenute insieme da radici contorte, cedono e ogni passo aprendo infiniti baratri mortali. Franano su se stesse aggrovigliandosi, risvegliando a ogni tonfo i predatori in agguato. I rapaci sorvegliano il cielo temibili, proteggono strenuamente la loro prole, pronti a lanciarsi in picchiata contro chiunque si avvicini. 

La regola della preservazione dell’equilibrio con la natura impone inoltre ai simian di non lasciare mai un nido senza alcun uovo, preservando così la vita. Questo può prolungare la ricerca, rendendola a volte più rischiosa in quanto vicina alle ore del tramonto e al buio. 

Per Soona e il buffo Anaka è stata un’impresa dura ma veloce. Noa, il figlio del capo del clan, ha invece ottenuto il suo uovo solo rischiando l’osso del collo dopo innumerevoli cadute, agguati e lividi, riuscendo a recuperarlo in extremis con il piede a picco di una voragine sul vuoto. Con il bottino depositato nella cintura a tracolla, i tre fanno ritorno a casa: un villaggio le cui imponenti strutture sono ricavate intrecciando tronchi sulla base di enormi alberi secolari.

Tutto è già pronto per il giorno dopo, in accordo con la luna. Il capo clan nell'ampia stanza dei rapaci li accoglie: veste già con il rituale abito di piume e si congratula con loro, mentre l’aquila Sole sbeffeggia il figlio con i suoi artigli, ricordandogli la sua scarsa esperienza canora.

Subito è notte e Noa è insonne. Pensa al suo futuro mentre vaga tra le torce e i falò che rimangono ancora accesi per difesa, mentre un rumore attira la sua attenzione. Qualcuno o qualcosa si muove tra le ombre, nei pressi del locale-cucina dove si affumica il pesce. È una creatura piccola ma veloce, sembra una femmina. Proviene da un passato che si riteneva estinto: è una “echo” (Freya Allan). 

È combattiva, assale Noa dopo essersi ben mimetizzata e nella fuga rompe l’uovo, prima di sparire verso i territori che sono proibiti al clan: le gallerie di roccia che affondano nella parte più oscura della foresta. Un territorio infausto e pericoloso, ma che fornisce anche una scorciatoia per trovare presto, prima dell’alba, un altro uovo. Forse l’unica occasione di Noa per non dover aspettare un altro anno prima di diventare adulto. 

Il giovane simian insegue la echo, finendo presto in un agguato: una imponente trappola delle “maschere”. Cavalcano destrieri neri e sono simian come il clan aquila, ma hanno i volti coperti da elmi pesanti e indossano delle armature. Si muovono veloci e arrabbiati, brandiscono lance in grado di sprigionare fulmini grazie ad una misteriosa magia. 

Li guida il gigantesco e inarrestabile gorilla Sylva.

Cercano la echo, ma cercano anche tante scimmie per edificare un nuovo grande regno, un impero unito e forte degno di Cesare, che sta sorgendo sulle rive del mare, a ridosso di un'imponente e misteriosa costruzione militare del passato. 

Il re di questo nuovo impero si chiama Proximus ed è una creatura ancora più grande (come specie è una “grande scimmia di Bili”), i soldati invocano il suo nome a ogni passo. Il clan Aquila viene decimato per essere soggiogato. Soona e Anaya, insieme a molti giovani e donne, vengono rapiti. La città è data alle fiamme, il capo clan ucciso. Scappano a questo destino per miracolo Noa e la echo, che iniziano insieme un viaggio disperato per salvare i superstiti. L’Aquila Sole, dall’alto, li seguirà  proteggendoli.

Il cammino li porterà in posti misteriosi come la grande “biblioteca”e “l’osservatorio”, in cerca di alleati e di risposte. Incontreranno il saggio orango Raka, che darà un nome alla echo chiamandola “Nova” e racconterà la grande storia del passato, sperando che Noa decida di seguirlo per conservare l’antico sapere. Raka gli racconterà della possibilità di convivere tra Simian e Echo, già accaduta in passato e segno di prosperità per entrambe le specie. Sul loro cammino ci sarà anche un altro echo, Trevathan (William H.Macy), del tutto piegato e riverente nei confronti del nuovo signore della terra, Proximus. Disincantato e succube al punto da essere diventato indifferente alla violenza. 

Noa e Nova affronteranno più volte il destino avverso, ma soprattutto dovranno affrontare se stessi: perché in fondo uomini e scimmie, forse per sempre, cercheranno di odiarsi a vicenda. Nova potrà pure “sembrare docile”, ma in fondo non ritiene che la Terra debba stare nelle mani delle scimmie. 

Riusciranno a incontrare di nuovo Soona e Ayaka?


Nel 1963 usciva un libro di fantascienza distopica eccezionale, scritto da Pierre Boulle, che ipotizzava un mondo post-apocalittico, in parte desertico dopo una eventuale crisi climatica, dominato da una razza di scimmie “senzienti e umanizzate”. Queste  camminavano erette e con dei vestiti, avevano le loro istituzioni e ruoli, politici e filosofi. 

Nel loro regno, la razza umana aveva ormai assunto il ruolo di animali di compagnia ed era per lo più “cacciata in cattività”, relegata a vivere nascosta. Su questo mondo atterrava improvvisamente, con un veicolo in avaria, un piccolo gruppo di astronauti terrestri, non diversi da quelli che nel 1969 sarebbero arrivati sulla Luna con la Apollo 11. 

Gli astronauti credevano di trovarsi a 300 anni luce dal sistema solare, dalle parti del sistema di Orione, ma subito capirono di trovarsi su un mondo abitato, presto furono prigionieri. Cercarono di cavarsela e infine trovarono un modo per tornare a casa, pur costantemente braccati da queste scimmie evolute, almeno fino alla drammatica, shockante “rivelazione finale”: non erano su Orione, non c’era più una casa dove ritornare. Erano sulla Terra del futuro.  

Il racconto era crudo, incredibilmente intelligente e affascinante. Anche profondamente satirico, dai contorni quasi “orwelliani”. Non mancavano certo atmosfera e moltissimi momenti avventurosi e per questo il romanzo venne subito opzionato per diventare un film con i contorni del colossal.

Sarebbe uscito nel 1968, sceneggiato da Rod Serling (autore della serie tv Ai confini della realtà), interpretato dalla star Charlton Heston (Ben-Hur, Il più grande spettacolo del mondo) e diretto da Franklin J. Schaffner (regista di Patton e in seguito di Papillon). 

Il make-Up prostetico che avrebbe trasformato i lineamenti degli attori in scimmie evolute era opera di John Chambers, l’artista che due anni prima aveva creato il look degli alieni Vulcaniani di Star Trek. La colonna sonora era di un giovane Jerry Goldsmith (Star Trek, The Omen, Alien, Gremlins, Rambo). 

Il successo fu enorme e generò tra il 1970 e il 1973 ben quattro sequel per il cinema. Nel 1974 arrivò una serie tv e nel 1975 una serie a cartoni animati. Tra nuovi racconti, pupazzetti e marchandising Il pianeta delle scimmie si impresse nell’immaginario collettivo di più generazioni, con una storia che con il tempo divenne sempre più articolata e affascinante.

Nel 2001, firmato da Tim Burton, arrivò il primo vero remake della serie. Era qualcosa che rimischiava le carte della “timeline originale” della storia raccontata fino ad allora, in modo significativo quando spiazzante. Al progetto, scritto dallo sceneggiatore di Apollo 13 e Cast Away, con protagonisti Tim Roth, Mark Wahlberg e Helena Bonham Carter, prese parte anche un anziano Charlton Heston in un breve cameo. Al make-up delle scimmie umanoidi arrivò come degno erede di John Chambers l’artista Rick Baker, il realizzatore degli effetti de Un lupo mannaro americano a Londra

Il regista dichiarò di volersi ispirare a Spartacus, per cui l’astronauta protagonista finiva in un pianeta delle scimmie che per architettura e costumi ricordava più che l’era moderna l’antica Roma. Per rendere più dinamiche le scimmie, si decise di farle muovere con un complesso sistema di cavi invisibili come nei film di arti marziali cinesi. La storia forse era un po’ semplice, ma la direzione artistica era straordinaria. Il film fu apprezzato, visivamente era superbo, ma non divenne un successo tale da generare i “pur previsti” seguiti. 


Anni dopo, la tecnologia digitale espressa dalle case di produzione di effetti speciali, come Weta e Light And Magic, aveva dato vita ai prodigi visivi di opere come il Signore degli Anelli, Avatar e il King Kong di Jackson. 

Era diventato possibile creare da zero al computer delle creature digitali complete, credibili per espressività quanto per anatomia e movenze, al punto che ora anche la saga delle scimmie umanoidi poteva esprimersi in qualcosa di nuovo ed eccitante in termini di dinamica dell’azione quanto di uno sviluppo inedito, quasi “verticale”, delle scenografie. 

Non vennero più chiamati dei truccatori straordinari come Chambers o Baker, ma le scimmie di Boulle potevano per la prima volta arrampicarsi sulla superficie dei grattacieli, dondolare sul vuoto, usare alberi e liane come Tarzan: potevano in genere fare tutte quelle cose per cui apparire come qualcosa di più di interessante di semplici costumi alla Star Trek.

La narrazione cinematografica immaginata dall’autore di Ai Confini della Realtà, incentrata sulle complesse e spesso contraddittorie dinamiche di potere tra umani e scimmie, poteva mantenersi intatta grazie al lavoro di sceneggiatori rispettosi delle fonti come Rick Jaffa e Amanda Silver. I due autori avrebbero costituito il soggetto di tutti i nuovi episodi del “nuovo corso”, rimanendo anche legati alla saga di Avatar

Era giunto il tempo di un nuovo pianeta delle scimmie. O per meglio dire di una sua “espansione”. L’intuizione fu quella di ignorare l’episodio di Burton e tornare al film originale del 1968, debitamente “aggiornato al presente dalla trama”, ambientando la pellicola in un periodo quasi in contemporanea con la partenza dell’astronauta Charlton Heston e soci per lo spazio. 

Il colpo di genio fu nella costruzione di una motivazione “fantascientifica” molto credibile e realistica alla base del “big bang” della saga: il momento in cui le scimmie hanno iniziato ad evolversi, in quanto cavie nella sperimentazione di un farmaco destinato alla cura dell’Alzheimer. Nello sviluppo della trama, la scelta è stata quella di raccontare una storia in cui erano centrali le relazioni tra umani e scimmie, partendo da uno scenario intimo. Da un contesto familiare comune e fino alla costruzione di spazi sociali/identitari autonomi, per finire in una situazione di inevitabile conflitto Inter specie. Pura fantascienza sociale: un racconto personale che di colpo e in modo sublime sapeva trasformarsi in epica. 

Il cinema poteva ora raccontare i 300 anni “inediti” della presa del potere delle scimmie sulla razza umana, partendo dal fondatore della nuova razza di scimmie evolute, “Cesare”.  

La mite e gentile scimmia Cesare, nel cammino sempre più “politico” che lo avrebbe consacrato a primo leader della sua razza, avrebbe incontrato uomini gentili e compassionevoli, con il volto di James Franco, fino a creature trasfigurate dall’odio e dalla follia con il volto di Gary Oldman o Woody Harrelson. Allo stesso modo avrebbe incontrato scimmie alleate e scimmie a lui avversarie: primati in fondo con tutti i pregi e difetti degli uomini. È nata così una trilogia di grande successo, a cui hanno contribuito registi di pregio come Rupert Wyatt e Matt Reeves, di fatto infondendo nuova linfa e interesse nel brand. 

La storia della possibile “esistenza” di questo nuovo capitolo della saga, il “quarto” dopo il reboot della serie del 2011, risale più o meno al 2014. 

Il grande artista della “motion capture” Andy Serkis, l’interprete digitale di  Cesare e ancora prima di “Gollum” nella saga del Signore degli Anelli, aveva ventilato a MTV della possibilità di avere almeno sei nuovi capitoli del brand. Poi Matt Reeves che avrebbe pur dovuto curare i successivi capitoli, è andato a dirigere The Batman e la prospettiva è cambiata.

Alla sceneggiatura si è aggiunto Josh Friedman, autore del soggetto di Avatar la via dell’acqua ma anche sceneggiatore delle serie tv Terminator- Sarah Connor Chronicles e Snowpiercer. La regia è stata affidata a Wes Bell, regista e produttore della saga fantasy Maze Runner.

La “saga di Cesare” trovava un epilogo alla fine del terzo capitolo e ora ci troviamo in un mondo fantasy tutto nuovo, con nuovi eroi, tribù e un tiranno scimmiesco di nome “Proximus Caeser”. È a tutti gli effetti una ripartenza, forse il primo capitolo di una nuova trilogia. 

Siamo in un mondo neo-medioevale,per certi versi vicino alla “antica Roma scimmiesca” di Tim Burton, ma anche (specie nell’ultima parte) a film action folli post-atomici come WaterworldMolta attenzione è riservata agli oggetti rituali, alle diverse lingue e registri comunicativi, ai simboli grafici e ai canti, a una “tecnologia del passato” spesso riadattata alle esigenze del presente in un modo quasi fantasy, come i “bastoni di tuono”. 

C’è tutto un nuovo “folklore” legato a tribù che dobbiamo ancora imparare a conoscere, ci sono territori, regioni e “sotterranei/sommersi” da esplorare, finora anche inediti alla saga, ci sono rivalità e alleanze, aspirazioni e ossessioni scimmiescamente umane. Al contempo sono tantissime le assonanze e suggestioni, visive e narrative, che rimandano al film originale del '68. Al punto che qualcuno durante la lavorazione aveva pure ipotizzato che Freya Allan fosse in qualche modo legata al personaggio di Charlton Heston, se non una reinterpretazione dello stesso.

Proprio partendo dalla nostra co-protagonista “umana”, in effetti lo spirito combattivo e il complesso carattere di Nova non appaiono troppo distanti dal modo di fare del (citando Bowie) “uomo caduto sulla terra del futuro”. A volte anche con sfumature inaspettate, quasi crudeli, Nova esprime il suo disappunto, il suo orgoglio, la sua determinazione. Nova parte muta, piccola e disperata come Newt in Aliens - Scontro FinaleMa presto “cresce”, rivela il suo ruolo di sopravvissuta e combattente “da guerriglia”, conquistando in un attimo la scena e l’attenzione del pubblico. 


La Allan è molto brava nell’esprimere le sue mille sfumature tragiche quanto la sua risolutezza. Nova ha le potenzialità per diventare un personaggio tanto originale quanto controverso, centrale per i futuri capitoli della saga. Se si evolverà come il personaggio di James Franco o come quello di Woody Harrelson sarà solo il tempo a dircelo. 
Meno “centrato e accattivante” è invece lo scimiotto Noa, di fatto molto simile per ingenuità ai “figli indistinti del protagonista” del nuovo Avatar

La computer grafica con cui sono realizzati lui e le altre scimmie è imponente e affascinante, oggi riusciamo quasi a provare empatia per queste creature digitali, tuttavia il mondo e la cultura che circondano Noa risultano infine più interessanti rispetto a un suo particolare tratto caratteriale. Noa è un personaggio ancora acerbo, anche “giustamente adolescenziale” secondo i canoni di un racconto fantasy di ampio respiro. Molto probabilmente anche lui ha un buon potenziale,  ma che qui rimanere il larga parte inespresso. 

Perfetto avversario per un eroe ancora acerbo, Proximus è un “villain” gioiosamente pomposo e cretino, quasi identico al Dennis Hopper di Waterworld, solo in parte “nobilitato” dal suo “anfitrione e cantore personale”, il personaggio del sempre intrigante e complesso William Macy. 

All’enorme ed esagitato Proximus però si può anche volere bene, in quanto sembra davvero la gustosa parodia di un dittatore, tronfio del culto di se stesso e fiero della sua auto-incoronazione, dei suoi proclami e della sua innata eleganza. È un “bruto” e  se vogliamo del tutto simile anche fisicamente al quasi muto, e per questo forse più cupo, gorilla Sylva, il capo delle “maschere”. Ma se Sylva si limita a essere una continua esplosione di violenza fuori controllo, Proximus si sforza davvero di apparire magnanimo, in ragione del suo ruolo di vertice, risultando “sornione”, pragmatico, quasi seduttivo e meno scontato del previsto.

Il calmi e quasi spirituale Raka è invece un po’ il legame tra passato e futuro, il “classico orango intellettuale” discredente dell’orango intellettuale Maurice. Un po’ Yoda e un po’ Gandalf, come Maurice è  un “tramite”, quasi un mediatore culturale:  la “voce della ragione e della Storia” in un momento di guerra e orrori. Ogni personaggio come ci ha abituato la saga recente è visivamente bellissimo e realizzato da attori specializzati nella motion capture davvero esperti. Le scenografie di Daniel T.Dorrance sanno essere molto ispirate e originali, così come la fotografia di Gyula Pados riesce in un istante a trasmetterci tutti i colori e sfumature di un grande racconto fantasy, se vogliamo dai toni molto più caldi (quasi “miyazakiani”) rispetto all’ultima trilogia. 

La musica di John Paesano riesce a riallacciarsi al tema classico pur trovando una sua autonoma forma e in generale il lavoro di Wes Ball risulta composto e ordinato nella forma, sempre pulito e a fuoco, come del resto nella saga di Maze Runner

Il pianeta delle scimmie diverte e incuriosisce, vincendo la sfida di rinnovarsi pur rimanendo una saga sfaccettata, dinamica e intelligente. Al netto di un piccolo scivolone narrativo (legato alla soluzione un po’ troppo semplice di un particolare “enigma”), sul quale si può glissare come chiudere entrambe le orecchie e gli occhi per un istante, la storia funziona, il viaggio è pieno di spunti, l’azione è sempre appagante e i personaggi non banali. 

Per 145 minuti veniamo paracadutati su piccolo mondo a se, che come quello di Avatar in costante espansione verso scenari sempre più complessi e lontani. Un mondo in cui è bello perdersi in una serata a mente leggera, ma che con semplicità riesce anche a parlare (magari a un pubblico più piccolo) delle radici ataviche dell’odio, del ruolo centrale della cultura per comunicare tra i popoli, dell’importanza di ricercare un equilibrio funzionale con la natura e un uso positivo della tecnologia. 

È soprattuto un film molto bello da vedere in sala, sul grande schermo e con un impianto audio importante, da godere in ogni scena, ricercando i mille dettagli visivi e narrativi con cui questo strano universo è costruito. Di sicuro uno dei film più spettacolari dell’anno, considerando che i film con scimmie digitali, tra Transformers e Godzilla x Kong, stanno ora spopolando. 

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