sabato 29 giugno 2024

The Bikeriders: la nostra recensione del biopic di Jeff Nichols, liberamente ispirato al libro fotografico di Danny Lyon sugli Outlaws MC, con protagonisti Tom Hardy, Austin Butler e Jodie Comer

 


America on-the-road di fine anni '60. 

Vivere la vita un quarto di miglio per volta, a cavallo di una moto rombante, vestiti perennemente di cuoio, insieme alla propria “mandria di fratelli”.  

Liberi di apparire trasandati, liberi di ululare insieme alla luna sull’autostrada e fare gli spacconi nei bar. 

Liberi di bruciare qualche semaforo, facendo arrabbiare un paio di poliziotti addetti al traffico e un paio di lenti pedoni che, della vita, non hanno ancora capito niente. 

Liberi di accamparsi il fine settimana fuori dal mondo metropolitano, come forse facevano i cowboys, accendendo il fuoco e le salamelle tra i campi, raccontandosi epiche storie, sfidandosi bonariamente a duello per decidere “chi è lo re” (Diego Abatantuono, Attila, cit.), tra una birra e forse un altro paio di birre.

A un primo, ma anche al secondo sguardo, per una persona comune come Kathy (la brava Jodie Comer), i “Vandals” apparivano come un gruppo di ragazzoni decisamente appariscenti, sicuramente poco maturi. Magari giusto “sexy”, per via dell’abbigliamento in pelle. Poi però una sera lei inizia a frequentarli in un bar, perdendosi nello sguardo ribelle e nel sorriso gentile del giovane Benny (il molto bravo Austin Butler). Un paio di birre dopo, Kathy si trova nel cuore della notte aggrappata alla moto di Benny, sulla highway, con intorno tutte le luci delle altre moto che si fanno dolcemente largo tra il buio, come in una nuvola, rombando quasi armonicamente in coro nel pieno silenzio, come fossero gattini gentili. 

È amore. 

Poi, sotto i giubbotti in pelle e l’ossessione di sentire il rombo dei motori, questi Vandals non sono neanche brutte persone. Il loro “capo”, Johnny, parla un po’ come Robert De Niro (ed è interpretato da un Tom Hardy che cerca disperatamente di darsi un tono da Robert De Niro), ma alla fine è un buon padre di famiglia, con moglie e due bambine biondissime, con un solido lavoro di camionista alle spalle e l’attitudine a sedare ogni tipo di conflitto. Ha pensato al gruppo guardando in tv Marlon Brando, gli è piaciuto il look, inizialmente i tesserati facevano gare di motocross domenicali come un qualsiasi club sportivo. 

C’è nel gruppo chi è esperto di motori anche perché poi fa il meccanico per vivere. C’è chi è molto ligio al codice della strada, ha un lavoro di ufficio e vive con i genitori a cinquant’anni. C’è chi è solo un po’ sfigato o preso troppo a calci dalla vita e nei Vandals, che sono sempre accoglienti,  si sente a casa.

Il gruppo di certo fa così tanto casino, con le sue continue parate cittadine, che non piace troppo ai genitori della zona, come non è amato dalla comunità in genere. È come se la comunità cogliesse qualcosa di “inevitabile” che ai Vandals “sfugge”, mentre le richieste di affiliazioni da altre città americane iniziano a fioccare e iniziano a delinearsi sempre di più “codici d’onore”, “bandiere”, piccoli reati necessari al sostentamento economico del gruppo. 

In un secondo dai “duelli per il potere”, per lo più affrontati a scappellotti bonari con la gioia etilica nel sangue, si passa ai coltelli. Si inizia a parlare di territorialità tra bande rivali, qualcuno, più che un cowboy metropolitano, vuole sentirsi ancora più “correttamente” un Vandal, trasformando il club in un gang criminale a tutto tondo.

È un piano inclinato inevitabile. 

Un giorno un ragazzino (Toby Wallace), troppo picchiato dal padre manesco e dalla povertà, si innamora dei Vandals e vuole un giubbotto come il loro. È un ragazzo senza senso dell’umorismo e troppo violento, non viene accettato dal branco e inizia a covare rancore. Kathy negli anni vive la trasformazione inevitabile dei Vandals, con l’amore per il suo Benny che si fa di volta in volta sempre più “complesso”. Un amore sospeso tra una vita normale di periferia e le sempre maggiori incombenze di un gruppo, di ex hippie, che ora si trova a ragionare e agire a tutto tondo come fuorilegge. Un po’ per sopravvivere alla società, che ha fermamente deciso di odiarli, un po’ per cercare di mettere ordine e pace in quel piccolo mondo che dai sogni di libertà e birra si è poi inevitabilmente trasformato una qualcosa di diverso.


Il film, scritto e diretto dal bravo Jeff Nichols (Take ShelderMud), si basa liberamente su un libro fotografico di Danny Lyon, che racconta con disincanto la vera storia degli Outlaws MC, attraverso una serie di interviste, rilasciate in tempi diversi dai bikers e dalle loro famiglie. 

Lyon nel film è interpretato dall’attore Mike Faist, ma il suo ruolo nella vicenda è puramente interlocutorio, mentre la voce narrante della storia dei “Vandals” è assegnata al personaggio divertente quanto concreto di Kathie, la moglie del biker Benny. 

Kathy, interpretata in modo molto credibile e spontaneo dalla brava Jodie Comer, ci racconta del suo amore per un motociclista che può correre libero nella prateria quando vuole, con il vento nei capelli h24, mentre lei è a fare il bucato in una caldissima lavanderia a gettoni. La ritroviamo anni dopo, più disincantata, in una pausa da scuola con i bambini, a parlare della “crisi del gruppo” e di come sia diventata per lei anche “crisi di coppia”. La rivediamo ancora mentre come casalinga disperata riassetta una casetta bianca di periferia, forse da sola.

Kathy ci racconta una realtà di grigliate all’aperto, di pic nic con i bambini a base di motocross nei pomeriggi domenicali, del look perennemente “con l’ombelico di fuori” dei primi biker. Ci racconta del modo subdolo in cui “l’atteggiarsi da bulli” dei Vandals abbia finito per trasformarli, anche controvoglia, in credibilissimi bulli. 

Racconta di funerali di amici a cui i motociclisti non erano bene accetti dai parenti. Racconta della stato “quasi di dipendenza” che Benny subisce nei confronti del gruppo e di Johnny: di come la costante voglia di vivere fuori dalle regole, ma insieme ai suoi amici, lo abbia infine rinchiuso in una vera e propria prigione psicologica, senza uscita e prospettive se non nella fuga dalla realtà.

Un racconto del tutto diverso della storia dei Vandals, simbolico quanto immaginifico, è invece quello che ci viene offerto attraverso gli occhi di un personaggio senza nome, il “Kid”, interpretato da Toby Wallace. 

È una storia fatta di sguardi e sogni, cruda ma quasi di stampo “cavalleresco”, dove il Kid è alla ricerca di un proprio “posto nel mondo”, sotto la fascinazione del potere, delle turbine e del cuoio. Il ragazzo vive ai margini poveri, nella costante violenza domestica, impossibilitato nello sviluppare le giuste competenze e l’empatia per comprendere una “realtà diversa”, dall’emarginazione e dalla violenza. 

Dal basso della sua vita disastrata e senza prospettive, vede nei Vandals, che attraversano fieri la città con le moto, il branco che lui non ha mai avuto. Vede nel giubbotto e nello “stemma dei Vandals” una bandiera sotto la quale, per la prima volta, si potrebbe sentire parte di qualcosa, qualcuno di peso. Dal momento in cui Kid riesce a impossessarsi di uno scassato “cavallo di ferro a due ruote”, ai giochi di potere per essere accreditato come “cavaliere”, il passo è breve. Arriva la sfida al capo con un “ferro disonesto”, ma che per lui è come Excalibur, gli dona potere senza che altri si oppongano più a lui. Kid vive sempre più disumanizzandosi il suo personale viaggio distorto dell’eroe, a cavallo di un futuro a due ruote che forse nemmeno vuole comprendere. Un vero Vandals, si potrebbe tristemente dire. 

Se Benny e Johnny sono dei post-hippie, Kid incarna lo scontento degli emarginati e ma anche dei reduci del Vietnam, come la dolce voce narrante di Kathy ci ricorda. Uomini a cui non “bastava più“ la benzina per la moto, necessitando di sostanze stupefacenti per fuggire, ancora più velocemente, dalla realtà. 

Fuori dalla “narrazione”, c’è “l’azione”. Azione cruda quanto spettacolare, quasi splatter, a base di coltelli, tirapugni, incendi dolosi e sparatore. Tanti inseguimenti tra il traffico cittadino, gare e parate “roboanti”, sottolineati da grande musica dell’epoca e da un sound design delle modo che davvero convince, che nostalgicamente ci riporta al quasi futuristico sonoro in stereo di Easy Riders

Tom Hardy costruisce per Johnny un personaggio complesso, “politico”. Hardy gli dà un'interpretazione sofferta e pensosa, potente quanto “vulnerabile”, vicina a molti anti-eroi di Robert De Niro.

Johnny è consapevole di ricoprire un ruolo complicato “pur con le migliori intenzioni” e attraversa più fasi di crisi, spesso attaccandosi come unica ancora a Benny.

Il Benny di Austin Butler è invece un personaggio magnetico, solare e invincibile come James Dead. Un vero ribelle che gioiosamente vive senza regole, assaporando ogni emozione e sfida con un sorriso beffardo e innocenti occhi azzurri, anche se si tratta di ricevere una palla d’acciaio da un momento all’altro. 

Il Benny di Butler ruba costantemente la scena a tutti, si impone con eleganza anche rimanendo sornione, riposando in un angolo della scena a cavallo della sua bike, mentre il Kid di Wallace soffre, all’opposto, per non essere mai “visto”: né dal padre violento, né da Johnny, né dal mondo. Wallace racconta la perdita dell’innocenza di Kid, di pari passo alla sua disumanizzazione criminale, senza dimenticare mai di mettere in risalto il suo sguardo di bambino ferito, una irruenza che è figlia più di tutto della paura di confrontarsi con il mondo. 


Ci sono moltissimi ottimi attori nel cast, per lo più in piccoli ruoli gustosi, come Michael Shannon, Boyd Holbrook, Norman Reedus. 

Tutto il cast contribuisce attivamente alla costruzione di un affresco generazionale vivace quando contraddittorio, che ha però per vertice la magnifica “sognatrice disincantata” Kathy, di Jodie Comer. 

Kathy è il vero “collante morale”, la materna voce della ragione che riordina la casa dalle troppe birre per terra. 

Forse è anche la speranza di una “famiglia” al di fuori dal branco, con la Colman che cerca di infondere a Kathy tutta la forza morale, l’ironia e la pazienza, necessarie a credere in questo cambiamento . 

Bikeriders è un film divertente, drammatico, carico di azione e simbolismo, affidato a un ottimo cast artistico e tecnico. 

È un film che non possiede la forza anarchica, satirica e autodistruttiva di Easy Riders, ma è comunque un film “sentito”, che non ama troppo semplificazioni e autocelebrazioni e che, con onestà, racconta tutti i chiaroscuri di un momento storico leggendario quanto iconico. Assolutamente da vedere in sala, per assaporare ogni rombo di motore. 

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