lunedì 6 novembre 2023

Five Nights at Freddy’s: la nostra recensione del nuovo film prodotto da Blumhouse, diretto da Emma Tammi e inspirato ai videogiochi di culto realizzati da Scott Cawthon

Ci troviamo in una desolata America di provincia dei giorni nostri. Il trentenne Mike (Josh Hutcherson), che da quando è rimasto orfano condivide una piccola casetta con la piccola e problematica sorellina Abby (Piper Rubio), non sembra in grado di conservare il suo posto di lavoro da addetto alla sicurezza per più di un paio di mesi. Perseguitato ogni notte dal ricordo del rapimento di suo fratello Garrett (Lucas Grant), avvenuto davanti ai suoi occhi quando era ancora dodicenne, durante i turni il ragazzo scatta non appena coglie minimi gesti di tensione o violenza nei confronti di bambini, spesso mandando all’ospedale i loro genitori o guadagnandosi provvedimenti disciplinari per conto della direzione. Dopo l’ennesimo incidente, sembra che non siano rimasti sulla piazza molti lavori disponibili. Si avvicina la concreta possibilità che la sua arcigna zia Jane (Mary Stuart Masterson), interessata ai sussidi governativi per l’affidamento dei minori, richieda l’affidamento esclusivo della piccola Abby. 

Ma per Mike c’è ancora una ultima, strana speranza.

Il bizzarro consulente del lavoro Steve (Matthew Lillard) può offrirgli ancora un ultimo lavoro, il più misterioso di sempre: fare la guardia notturna alla pizzeria Freddy Fazbear’s. 

Il Freddy’s è un posto di periferia molto colorato ed eccentrico, che andava particolarmente di moda negli anni ottanta. Un “family restaurant” pieno di videogame e divertimenti di ogni tipo, dove enormi pupazzi animatronici da parco giochi durante i pasti si animavano improvvisando dei numeri musicali su di un palco. 

Il luogo è stato chiuso in seguito alle indagini sulla scomparsa di cinque bambini della zona e mai più è stato riaperto, ma il proprietario tiene molto al fatto che sia ancora ben conservato, tenuto a lucido e protetto da eventuali vandali. 

Il lavoro di Mike consisterebbe per lo più nello stare seduto, da mezzanotte fino alle sei di mattina, nella stanza di sorveglianza: osservare le telecamere a circuito chiuso, non ascoltare musica e non addormentarsi, intervenire in caso di emergenza e utilizzare in alcuni casi una misteriosa “leva”. 

Sembra infatti che i cinque enormi pupazzi del locale, l’orso Freddy, la coniglietta Bonnie, la volpe Foxy, la gallina Chica e il suo inseparabile plum-cake rosa con gli occhi, siano “vivi”. 

Forse non sono semplici pupazzi canterini ma degli ultra tecnologici robot, creati dal geniale e folle ingegnere nonché co-proprietario del locale, William Afton. 

Forse dentro i cinque pupazzi si nasconde qualcosa di più sinistro, come dei fantasmi. 

Sta di fatto che ogni tanto queste enormi creature abbandonano il palco e gli strumenti musicali e si muovono e vagano nel locale, forse per giocare o forse con l’intento di aggredire persone non desiderate. 

La “leva” può inviare una scossa in grado di sedare in qualche modo queste creature, ma l’incolumità della guarda non è garantita, in caso non faccia in tempo ad azionarla. Di molte della guardie passate dal Freddy’s non c’è da tempo più traccia, sembrano essere sparite nel nulla. Ma la paga è così buona e le alternative così esigue che Mike non può rifiutare questa occasione. Ad affiancarlo nelle ronde notturne qualche volta avrà vicino Vanessa (Elizabeth Lail), un’agente di polizia gentile, giovane e carina e molto legata al locale, ma la situazione fin da subito si rivelerà molto disturbante. Mike, nell’incubo che rivive da sempre ogni sera, inizia a vedere cinque bambini di cui non ha alcun ricordo. Forse sono gli stessi bambini che sembra disegnare da qualche giorno anche la sua sorellina Abby, riferendosi a loro come “amici”, per i quali lei è disposta a fare di tutto pur di essere portata dal fratello sul suo nuovo posto di lavoro.

Riuscirà Mike a terminare almeno la prima settimana di lavoro al Freddy’s salvandosi dai vandali, dagli incubi, dai robot, dai fantasmi e dalla disoccupazione?



Era il 2014 quando Scott Cawthon pubblicò il primo capitolo di quella che sarebbe stata la lunga saga videoludica di Five Nights at Freddy’s, uno dei “game horror” più amati degli ultimi anni, giunto oggi, tra seguiti e spin off vari, al traguardo di ben 15 titoli. 

La leggenda vuole che il nostro Scott fosse fin dall’inizio della sua attività da game designer ben intenzionato a creare giochi didattici per bambini pieni di pupazzi buffi, ma che a seguito delle critiche ricevute sul suo character design, ritenuto “inquietante e non adatto a dei bambini”, abbia deciso, un po’ per scommessa ma anche con sana autocritica e autoironia, di passare al genere horror.

FNAT ha un gameplay semplice: è  una specie di “gestionale semplificato”, un punta e clicca “a tempo”, dove il giocatore è chiamato a trascorrere delle notti a guardare quello che si muove all’ombra di alcune telecamere di sorveglianza, agendo su alcuni pulsanti per risolvere le varie emergenze. L’emergenza più grave è ovviamente l’assalto del giocatore da parte di Freddy e dei suoi amici, che se non adeguatamente anticipato porta a degli incontri ravvicinati davvero spaventosi, in grado di far sobbalzare sulla sedia quanto di decretare un veloce game over. L’atmosfera spettrale delle telecamere a circuito chiuso e del ristorante abbandonato, unita a questi pupazzi dall’aria carismatica, strana e inquietate ma pure “bonacciona”, sempre pronti a irrompere sulla scena e spaventare con il classico “bu bu settete!!, sono riusciti insieme a imprimersi davvero bene sul pubblico di tutti gli adolescenti, di ieri quanto di oggi. 


Un pubblico che annovera in special modo i giovanissimi, anche perché sebbene il genere sia “horror”, al di là della tensione di vedere spuntare all’improvviso un orso o una gallina la violenza visiva del prodotto è quasi nulla. Freddy e soci spaventano e divertono e sono ormai amatissimi, sempre più presenti sul mercato con magliette, pupazzi, funko, portachiavi, tazze, ecc.

Per non scontentare i giocatori della prima ora, che dal 2014 a oggi sono cresciuti, Scott Cawthon ha poi fin dall’inizio saputo sviluppare parallelamente una storia molto articolata, lasciandosi influenzare tanto dalla tradizione del cinema horror asiatico alla The Ring, quanto dalla pixel art anni ‘80. Oltre al gioco gestionale/survivor, l’autore ha così fin dall’inizio impreziosito ogni opera con dei piccoli geniali momenti giocabili meta-narrativi in cui, attraverso una grafica molto elementare tipica dei primissimi videogame (ma che per “brutalità sintetica del tratto” possono pure ricordare i disegni infantili di Profondo Rosso) il giocatore poteva conoscere la “storia segreta” del gioco. Una storia che è diventata sempre più complessa quanto a volte difficile da decodificare, scatenando la fantasia degli internauti quasi quanto gli un tempo seguitissimi creepy pasta. 

L’attesa per una trasposizione cinematografica di Five Nights at Freddy’s era quindi altissima, al punto che prima di questo film “ufficiale” almeno due altre pellicole sono riuscite a “bruciare i tempi”, presentando delle idee e atmosfere molto vicine ai giochi di Cawthon: The banana splits Movie e Willy’s Wonderland con Nicolas Cage. Sono entrambe pellicole divertenti quanto a tratti amabilmente “sgangherate”, quasi “sperimentali”, ma la cosa divertente è che dal film delle Banana Split che “imitava FNAT” è stato tratto un videogame, alla cui realizzazione ha partecipato attivamente con entusiasmo lo stesso Scott Cawthon: The Banana Splits: Sloppy Night. Oggi possiamo vedere The banana splits Movie e Willy’s Wonderland quasi come dei “test”: dei primi tentativi virtuosi di dare una forma cinematografica ai lavori ludici di Cawthon. Spunti che lui stesso avrebbe colto o scartato, anche in relazione alle reazioni del pubblico, mentre era in piena gestazione il film ufficiale.

Una lunga gestazione. 

Dal 2015  iniziava infatti a farsi largo questo super progetto, passando dalla Warner alla Dreamworks, dal Seth Grahame-Smith di Orgoglio e Pregiudizio Zombie al mitico Chris Columbus di Harry Potter, per poi giungere fino a oggi a Blumhouse (la casa di Insidious e The Purge, ma anche di recente di Venerdì 13 e dell’Esorcista) e Emma Tammi, la regista dell’horror western The Wind che qui si è portata dietro anche il suo bravo direttore della fotografia . 

Per la realizzazione dei pupazzi, a tutti gli effetti il cuore di tutta la produzione, è stato ingaggiato il meglio del meglio desiderabile: nientemeno che il Jim Henson Creature Shop, gli autori del Muppets Show, di Yoda de di tutti gli alieni di Star Wars. C’è un po’ dell’orso Fozzie nella pancia di Freddy e non manca qualcosa di Gonzo nello sguardo di Chica: la cosa quindi non può che commuovere. Il gruppo del Jim Henson ha dato vita a magnifici animatronici realistici e “anni 80” a tutti gli effetti, con minimi interventi di computer grafica, vero “pelo” e vere “ossa d’acciaio”, voce campionata da cassette a nastro. Puro amore. 


Nel ruolo da protagonista è stato scelto il bravo Josh Hutcherson, famoso per le saga di Hunger Games. Elizabeth Lail la abbiamo già apprezzata in Once upon a time ma soprattutto nello scombinato ma gustoso horror Coutdown.

In un ruolo importante, centralissimo e già confermato per altri due seguiti, è stato scelto Matthew Lillard, l’amatissimo attore del primo Scream e negli anni 2000 voce e volto di Shaggy di Scooby-Doo. Qui potrebbe avere la grande consacrazione “alla Freddy Kruger” che da sempre si merita e un po’ facciamo il tifo per lui. 

La sceneggiatura, come garanzia di continuità e coerenza, è a firma di Emma Tammi, Seth Cuddeback e soprattutto dello stesso Scott Cawthon. 

La sceneggiatura era qui anche l’incognita più grande di tutte, perché avrebbe settato una volta per tutte la versione cinematografica dell‘autore, al di là di quello che ogni fan si è immaginato fino ad ora e al di là di The banana splits Movie e Willy’s Wonderland

Partiamo da quello che “manca”. 

In FNAT scompare ogni linea “narrativo/grafica” legata alla pixel art dei videogame vintage, al di fuori del loro impiego nell’ottima sequenza dei titoli. È una strada che il film non cerca di percorrere scientemente, preferendogli per lo stesso compito  una linea narrativa “più onirica”, stile Sesto Senso, che anche se ben realizzata (e molto inquietante!) appare nell’esecuzione forse troppo “lineare”.  

Allo stesso modo, dopo un incipit quasi alla Saw l’enigmista, che poteva avere moltissimo in comune con le meccaniche del videogame, esaltando a mille i fans, la pellicola decide di percorrere una via del tutto nuova. Meno sullo stile dei film di  fantasmi orientali (e vicino al game), dove basta uno spavento per morire e tutto si gioca sul risolvere enigmi, più incline ai giochi di maschere e sangue di Michael Mayers. È una scelta che potrebbe magari ribaltarsi con il già annunciati secondo capitolo cinematografico, ma che in effetti qui ci permette di presentare al meglio i personaggi sulla scena in un modo quando più diretto e comprensibile. Permangono comunque ancora, come nel videogame, tanti divertenti “jump scares”, ossia i momenti in cui l’inquadratura cambia, la musica aumenta di colpo, compare il mostro e noi ci spaventiamo. Ma questa volta possiamo davvero osservare da più vicino i terribili/amabili animatroni del Freddy’s al di fuori di quella specie di “gioco del nascondino”, apprezzandone i momenti di rabbia ma anche di calma, scorgendone i dettagli più umani dietro alle maschere e provando se vogliamo ancora maggiore inquietudine, quando queste creature di colpo “cambiano di umore”. Scopriamo così che Freddy e i suoi sanno essere sorprendentemente docili a “certe condizioni”, apparendo quasi simili alle tartarughe ninja o alle creature fuoriuscite da Una notte al museo. Scopriamo che possono essere timidi e imbarazzati, a volte genuinamente buffi e impacciati ma anche profondamente “fragili e afflitti”, anche in ragione di un “interno metallico”, pulsante e tagliente, che prima non avevamo mai visto tanto bene. Una gabbia di metallo che può apparire simile a uno strumento di tortura stile vergine di Norimberga quanto a una corazza invincibile: forza e al contempo dolore, qualcosa di “duplice”, affascinante quanto respingente. Se dall’espressività dei pupazzi del Jim Henson possono trasparire dei tratti infantili, il “vero volto” di queste creature è qualcosa di più severo, quasi spietato, colpito da troppa sofferenza e dolore per non essere qualcosa di “svuotato”, apatico. Un “vero volto” che sa esprimersi in momenti dove esplode la loro fisicità rabbiosa “quasi” a livello splatter, dove la “lotta” tra uomini e animatronici ha il sapore “comico ma non troppo” degli scontri contro i giocattoli infernali di Krampus, in scenari dove non mancano luci infernali intermittenti e un incedere dei pupazzi simile alle articolazioni meccaniche dei cyborg Terminator. 

La trama è semplice e lineare ma gustosa, la tensione riesce a essere sempre accesa e non è scontato l’esito finale di nessuno “scontro”, compreso quello finale. I personaggi sono costruiti in modo tale da garantire una pur assurda “coerenza logico/narrativa” tra la follia del Freddy’s e quanto accade nel resto del mondo, le interpretazioni di tutti gli attori in scena sono spesso convincenti e mai troppo forzate. Un plauso alla piccola Piper Rubio e una ovazione per Lillard, che riesce a buttarsi a testa bassa in tutta la pazzia ed eccentricità che il suo ruolo “super grottesco” prevede. La scenografia e gli effetti speciali, così come il comparto audio, sono molto affini ai videogame di riferimento e offrono un indubbio valore aggiunto a tutta l’opera. La sala di controllo della guardia è identica così come lo sono le leve, le stanze del locale, l’atmosfera decadente anni ‘80, i pupazzi, l’illuminazione e le musiche e quel senso di ossessivo controllo delle telecamere in cerca di “paranormal activity” (che se vogliamo è figlio di Oren Peli e Blumhouse prima ancora che di FNAF). 


Forse sul piano dell‘azione e del thriller molti si sarebbero aspettati (e si sarebbero accontentati) che tutto il film fosse come nei primi minuti, ma FNAF riesce a mettere in scena tutti i giusti presupposti perché questo possa ancora accadere, fin dal primo minuto del secondo film. Al contempo, cosa per nulla scontata, la pellicola sa fornire il perfetto biglietto da visita per chi a fine film vorrebbe avvicinarsi per la prima volta al videogame. 

Arriviamo quindi a un altro punto cruciale: 

FNAF funziona, ma è un film per ragazzi, pg13 al massimo. Non è un film horror Blumhouse classico, ma quasi un primo “Blumhouse for Kids”, un qualcosa pensato soprattutto per i ragazzini di 10/12 anni che oggi prendono in mano i videogame della saga per la prima volta e tra mezz’ora saranno a cercare i Funko pop di Bonnie, Freddy, Chica e Foxy. È di conseguenza un film che spaventa ma che non atterrisce di paura. Un film che “accenna qualcosa di splatter”, ma infine lascia molto di nascosto/ defilato. Un film all’uscita del quale, conosciuti personaggi e meccaniche, ci si tuffa sui dei videogame che sono nell’essenza, se vogliamo, una “variante” del gioco del nascondino “spaventarella”, ma meno truce di un Call of Duty

Qualcuno che da quel 2014 è diventato più grande di 10 anni e magari voleva una storia per 20enni forse ci rimarrà male, ma lo spirito dell’opera è qui rappresentato esattamente come lo vuole il suo autore e non è detto che lo spettacolo diventi più succoso e “per adulti” in seguito. 

FNAT è un buon film di esordio per una trilogia e infine deve essere forse valutato anche in questi termini, nell’attesa di un secondo e terzo atto che sappiano ulteriormente spingerlo. 

A noi è piaciuto moltissimo sul lato tecnico e abbiamo trovato la storia, nella sua semplicità, un buon modo di introdurre nuovi giocatori alla saga e un buon passatempo per chi ama film del terrore pur indirizzati a un pubblico per ragazzi come Krampus e Piccoli Brividi. Bravi gli attori, bella l’atmosfera generale. Poteva fare “più paura”, ma confidiamo nel futuro. 

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1 commento:

  1. Tecnicamente bello e a tratti anche divertente, ma troppo moscio per interessarmi davvero.

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