Dietro a ogni film c’è un intreccio di cavi, luci, viti e vite. Un flusso complesso, e a volte contorto, di mille idee, tecniche e istanze che progressivamente prendono forma, diventano arte.
Il nuovo lavoro di Marc (Pierre Niney), visionato per la prima volta dal regista e la troupe insieme ai produttori non convince: “troppo monocorde, troppo grigio”. Per evitare che il terribile produttore Max (Vincent Elbaz) decida di passare a qualcuno di esterno la lavorazione finale della pellicola, per “migliorarla/completarla” secondo il volere degli Studios, Marc, la suo aiuto regista Sylvia (Frankie Wallach), la montatrice Charlotte (Blanche Gardin) e il tecnico/tuttofare/“schiavo” Carlos (Mourad Boudaoud) in tutta fretta raccolgono i materiali e si preparano a fuggire dagli uffici. Ad aiutarli è anche la giovane montatrice esterna/indipendente Gabrielle (Camille Rutherford), della quale Marc si innamora perdutamente a prima vista, mentre i loro sguardi si incrociano sotto un tavolo. Gabrielle permette al gruppo di scappare con il furgone inscenando uno svenimento davanti ai cancelli, bloccando così in un atto quasi kamikaze l’auto dei produttori/inseguitori.
Marc è sicuro di poter sistemare le cose e arrivare a un prodotto migliore in pochi giorni. Gli basta avere intorno la sua piccola troupe, l’aria del paesino di campagna dove è vissuto da piccolo accudito con affetto dalla zia Denise (Francoise Lebrun), il suo libro delle soluzioni.
Arrivati in quella bellissima località circondata dal verde il regista, ancora “bloccato” sulle scelte di montaggio, fin dalla prima sera decide di prendere una decisione ulteriore: per poter esaltare a pieno la sua creatività, è necessario una volta per tutte rinunciare a tutti gli psicofarmaci che ultimamente è costretto ad assumere per qualche astruso volere medico. Marc vorrebbe buttarli tutti nel water ma Denise lo trattiene, lo convince a darli a lei in custodia.
La mattina seguente Marc decide di rigirare una scena-chiave all’aperto, in modo artigianale, dietro la casa di Denise. Le riprese le effettua personalmente, con la telecamera in una mano, mentre con l’altra impugna una canna dell’acqua per simulare “l’effetto pioggia”. Per non richiamare gli attori originali, decide di usare delle comparse del posto, riprese debitamente di spalle. Tra queste c’è la stessa Denise, che dopo una mattinata di riprese sotto l’acqua è già tutta raffreddata.
Marc ogni tanto va nel panico e scappa a nascondersi nel boschetto vicino all'abitazione, con tutto il gruppo che si avvicenda nelle ricerche senza trovarlo. Dopo ogni fuga il regista torna però da questi “isolamenti silvani” con nuove straordinarie idee.
Si potrebbero girare nuove scene dalla prospettiva di un buco in una foglia.
Si potrebbe rimontare tutto il film da capo con sequenze invertite nell’ordine, come una serie di flashback dentro flashback.
Si potrebbe girare tra il primo e il secondo tempo un cortometraggio animato sulla vita di una volpe che sogna di aprire un locale da parrucchiere, utilizzando solo cartoncini colorati.
Si potrebbe chiamare un intero complesso sinfonico polacco a suonare una colonna sonora, improvvisandola sul momento, con gli orchestrali che seguono le indicazione estemporanee di Marc.
Marc compare e scompare dal gruppo, spesso riapparendo alle due di notte davanti a qualcuno di loro mentre sta dormendo, svegliandolo con le richieste logistiche volte a dare concretezza alle sue più assurde nuove intuizioni.
Il regista si sente inarrestabile e nel mentre decide di consultare/riprendere/scrivere/ultimare finalmente “Il libro delle soluzioni”, il suo best seller tenuto nel cassetto che presto cambierà il modo di pensare di tutto il mondo e in parte “per infusione” sta già cambiando lui in meglio.
Sollecitati da Denise, anche per permettere al gruppo di Marc di lavorare almeno di giorno e avere delle pause dai costanti “attacchi d’arte” del genio, in paese chiedono al regista il favore di sostituire le attività giornaliere del sindaco, di recente impossibilitato alla carica dalla malattia della moglie. Solo per poche ore, giusto per levarselo dalle palle.
Ma Marc è incontenibile e tra mille progetti decide che è arrivato pure il momento di trovare il tempo per fare colpo su Gabrielle, la amata montatrice/kamikaze/freelance conosciuta in pochi secondi prima della partenza.
La ragazza, travolta dalla bizzarria del regista, prova a farsi coinvolgere e infine lo raggiunge durante la lavorazione.
Tra mille attriti e defezioni della troupe, tra idee strampalate che alla fine si rivelano sorprendentemente interessanti e in uno stato di costante ansia per quello che potrebbe accadere il giorno dopo, il film va avanti in qualche modo.
Riuscirà l’amore di Gabrielle a stabilizzare l’umore di Marc?
Riuscirà la pellicola infine a uscire nelle sale come programmato?
Riuscirà il tutto ad avere un senso?
Il libro delle soluzioni è un vero e proprio viaggio negli ingranaggi mentali del geniale Michel Gondry. Uno striptease emotivo, che diviene un film sul mestiere di fare cinema e su come questo si mischi inevitabilmente con l’emotività, inguaiandola ma anche felicemente ingravidandola con l’arte, come 8 1/2 di Fellini.
A tratti è anche un film sul momento in cui il velo tra reale e finzione vada a infrangersi in paranoia, come raccontatoci di recente da Ari Aster in Beau ha Paura, ma anche a fumetti dal Gipi di Stacy.
Tutto è infuso in tanta ironia surreale sulla working class del “dietro le quinte”, luogo dove impegni, passioni e ossessioni si fondono e scontrano in modo spesso anarchico, come nella serie tv Boris.
Il regista dell’Arte del sogno Michel Gondry firma una pellicola che è anche romantica, facendoci riflettere su quanto sia difficile essere romantici senza cadere in romanticismi spesso criptici, cose che “capiamo solo noi” e che all’altro magari rimarranno per sempre oscure, seppur bonariamente accettate.
Sognante e “caotico”, ma anche una delle opere più personali, autobiografiche e autoironiche, in cui con Gondry anche il suo protagonista Marc, il cui volto “teneramente dispotico” è quello del bravo Pierre Niney, racconta un‘infanzia di provincia dove ha scoperto di potersi staccare dal mondo e immaginare di viaggiare lontano, verso realtà costruite con carta e filo come nei giochi creati dai bambini.
Come Gondry anche Marc ha vissuto momenti di “blocco” e depressione a causa di aspettative e fama. Come lui, davanti alla “dolce ossessione” di coniugare sogno e cinema, si è spesso perso nel magmatico e coloratissimo caos della sua fervida immaginazione, dove il significato più intimo di ogni cosa è spesso taciuto se non criptico al punto da dover essere spiegato dall’autore stesso (in una scena esilarante in cui spiega alla troupe il significato simbolico del suo prossimo film, guidandoli per una “parete della follia” grande un’intera parete piena di fili e mille foto).
Gondry, da autore umile quanto intelligente, gioca a farsi un po’ beffe di se stesso e delle situazioni più assurde che il suo modo di lavorare ha “inflitto” su colleghi e amici.
Ci riesce e quasi fa finta di non averlo mai fatto, mettendo da parte e “prendendo a calci” la sofferenza e il dolore con l’immaginazione: con l'assoluta leggerezza da cartone animato che lo contraddistingue.
Ci sono a monte la paura e l’insicurezza del domani che creano incubi come quello del “film nel film”: descritto come la fuga disperata di un uomo in bianco e nero, inseguito da qualcosa di pericoloso in un mondo grigio.
Ci sono all’orizzonte i tentativi dell’autore di salvarsi da queste paure attraverso l’amore, che purtroppo (come capita a tanti di noi, me compreso) riesce a gestire sono nel modo più maldestro e inopportuno possibile, esibendosi in comportamenti seduttivi assolutamente “da rivedere”. Il peggiore è il complimento dedicato al personaggio di Camille Rutherford: dove per lodare il modo gentile in cui lei gli soffia sulle mani per riscaldarle dal gelo, lui sogna che lei offra un servizio simile in ogni bagno pubblico francese al posto dell’asciugatore ad aria calda.
È da tante piccole cose di questo tipo che si costruisce questo geniale, spiritosissimo, profondo, melodrammatico e sincero quanto magniloquente “film su situazioni personali”, che sappiamo in parte essere pure note, specie dopo che ci sono state narrate nel divertente documentario su Gondry A letto con Michel Gondry scritto e diretto dal suo collaboratore François Nemeta, a sua volta “seguito” di un primo documentario di Nemeta, sempre su Gondry Michel Gondry, do it yourself. Un dittico che ci dimostra con evidenza di suo quanto già oggi servano vari documentari per parlarci di Michel Gondry, con risvolti esilaranti quanto commoventi.
Come sempre quando ci troviamo davanti al cinema di questo autore ci è dolce naufragare nel suo mare di simboli e virtù, passioni e fantasia. Ancora un altro film di Gondry che “fa stare bene” e che a ogni visione nasconde uno scrigno sempre nuovo di significati ed emozioni.
Talk0
Nessun commento:
Posta un commento