C’era una volta un principe che passava
le notti tra sexy club e appartamenti borghesi, in cerca di affetto, sballo e
amori clandestini. Di giorno, cadendo come vittima di una maledizione, lavorava
sottopagato in un luogo senza sogni e prospettive, cercando solo di tirare
avanti fino a sera, ricordando i tempi dell’amore e del liceo, quando aveva
ricevuto da una ragazza carina il più dolce dei regali: una audiocassetta con
tutte le canzoni più belle di quei tempi. Viveva con la nonna in una casetta
piena di mobili antiquati e oggetti consunti, spostandosi tra le stanze quasi
senza far rumore e senza lasciare traccia. Simile a un gatto, la sua vera casa
non era lì, era ovunque, tra le mille stradine che si diramavano da Melchiorre
Gioia, sempre in cerca di brividi, sogni e cantonate. Insieme a lui c’erano
altre persone simili a gatti, che vivevano ai margini delle regole del mondo
girando su se stesse, cercando di toccare con il muso la loro coda. Alcuni
spostandosi nottetempo sui tram, affascinati dalla puntualità ed
efficienza del trasporto pubblico e trovando pace in quel movimento costante
che sa sempre “giungere a destinazione”. Altri sognando e rincorrendo lo sballo,
nascondendo la droga dentro armadietti simili alle femmine robottone degli anni
‘70. Altri organizzavano orge scatenate aperte a tutti senza limiti di
età, ma pretendendo dai partecipanti il silenzio assoluto, per non
turbare i vicini e il proprio equilibrio interiore. Tutti questi uomini-gatto,
al contempo trasgressivi quanto compressi, guardavano il mondo come si guardano
i treni che passano, in un eterno trainspotting di noia e attesa di “qualcosa di
meglio” che sembrava irraggiungibile. Fino a che il principe non si fece
licenziare e comprò con la liquidazione una pelliccia, che lo rese ancora più
simile a un gatto.
Oggi si semplifica tra Boomers o
Millennials, ma tra gli anni ‘70 e ‘80, all’ombra della Milano da bere,
iniziava a muovere i primi sbilenchi passi una intera generazione di falliti e
perdenti, oggi diventati per lo più tra i più scapestrati e “randagi” dei
quarantenni. I loro genitori e nonni avevano visto gli orrori delle guerre ma
anche la ripresa economica, si erano costruiti con tenacia e impegno un lavoro
e una casa, avevano offerto ai loro figli il meglio e “tutto quello che loro
non avevano avuto da piccoli”, da un posto caldo e sicuro in cui vivere
all’educazione scolastica superiore e universitaria, dalla scuola calcio ai
giocattoli e i cartoni animati, dai sani valori sociali alle carezze. Nel
frattempo le “vecchie regole del mondo”, saltate con la guerra, erano tornate
in vigore, insieme alla “necessità” della società di smettere di continuare ad
espandersi. Trovare un lavoro prestigioso era tornato a essere una questione
di nepotismo e raccomandazione o di straordinaria fortuna. La scuola era in
ritardo con il mondo, non solo dove nei corsi di informatica si studiava basic
quando era già da tempo uscito il pacchetto Office, ma soprattutto laddove non
si studiava la Storia oltre alla “resistenza” e al 1948, ponendo un limite alla
coscienza culturale/politica ancora non superato. La tecnologia di suo è
decollata e ha fatto in modo che servissero sempre meno persone nelle fabbriche
e uffici, l’economia si è aperta al mondo e ha deciso che era più
redditizio aprire fabbriche all’estero che in Italia, delocalizzare. Il tasso
di mortalità legato alle migliori condizioni di vita ha decretato che chi aveva
già un lavoro dagli anni ‘70, magari subentrato dopo il genitore nella stessa
mansione secondo un’usanza consolidata, non lo avrebbe mollato prima del
massimo limite di età consentito, che ulteriormente esteso al netto della legge
Fornero oggi in alcuni casi arriva al 2030. I genitori e nonni, un po’
all’oscuro di questi meccanismi e credendo ancora alla favola del “se ti
impegni realizzarsi quello che vuoi”, avevano investito tanto sulle nuove
generazioni e iniziarono a domandargli “Perché non ti trovi una brava ragazza e
metti su famiglia?”; “Perché non cerchi un lavoro a tempo
indeterminato?”; “Quando uscirai dalla tua cameretta per farti una casa
tutta tua?”. I giovani degli anni ‘70 e ‘80, specie quelli nati ai margini
delle grandi città come Milano e quindi principalmente lanciati in un mondo
ultra competitivo, iniziarono presto a sentirsi non indispensabili per quella
società. Non per un discorso politico di “contestazione”, quanto per una
autentica “mancanza d’aria”. I migliori tra loro comunque ce la fecero e come
la “legge naturale della competitività” vuole realizzarono imprese e sogni
spettacolari. Gli altri, molti altri, quelli più emotivamente “schiacciati” e
quelli che non hanno mai trovato un lavoro stabile o i soldi per comprarsi una
casa o anche solo un’automobile, iniziarono la “fuga di cervelli” o “fuga dal
cervello”. La fuga di cervelli vuole che qualche intrepido cerchi un lavoro
all’estero, laddove la politica italiana si preoccupa solo di agevolare i
contribuenti anziani e quindi maggiormente solvibili e affidabili pagatori di
tasse. La “fuga dal cervello” è qualcosa di più pragmatico e consiste nel
rimanere con il corpo in Italia, simili a zombie, ma con la testa tra le
nuvole, cercando una propria identità e scopo. Rimestando nelle poche gioie del
passato, cadendo nelle dipendenze e vivendo in quel mondo della notte dove è
più facile incontrare altre persone “fratturate dalla vita” in cui riconoscersi.
Solo l’ironia e l’autoironia, insieme ai ricordi felici di quando si era
“bambini e per questo felici”, possono aiutare. Si parla oggi di hikikomori, di
Net, di ragazzi che si uniscono in bande dove trovano una “vera famiglia”, ma
non si parla abbastanza di questa generazione di quarantenni a cui la società
ha negato il futuro quasi senza accorgersene, preferendo bollarli come
bamboccioni e falliti, viziati e ingrati, politicamente poco interessanti e
rilevanti. Castoldi mette un bel faro su questo mondo grazie al suo cinema
asciutto e mutante, che parte dal registro di genere per poi umanizzare la
maschera oltre la facile risata. C’è una domanda pressante che aleggia
nell’aria senza risposta: cosa faranno questi uomini-gatto quando chi oggi si
occupa di loro economicamente non ce la farà più, anche solo per sopraggiunti
limiti di età? Possiamo chiedere a questi uomini-gatto di sistemare da soli i
loro problemi, del fatto ignorando la loro esistenza? Silvio Cavallo dà corpo a una persona autentica quanto sfaccettata, umana quanto complessa,
divertente quanto tragica, “contratta nelle emozioni” ma generosa nei fatti. È
una persona che non si arrende perché è già andata “oltre la resa” e che resiste
giusto inseguendo ricordi e affetto impossibili, ma a cui il mondo, da primo il
mondo familiare, ha dato e dà molto poco.
Il principale di Melchiorre Gioia è un
film piccolo, coraggioso e interessante, ricco di alcuni personaggi davvero
unici, divertenti quanto fantozzianamente titanici, pieno di situazioni cariche
di un quotidiano surreale quanto crepuscolare, qualche volta sognante. Il
taglio delle riprese è quasi documentaristico ma la fotografia, giocando con i
contrasti, rilascia una Milano dall’anima triplice. C’è una Milano dai colori e
toni più caldi, che disegna il “sogno del passato”, il periodo felice della
scuola e dell’amore in cui tutto è possibile. C’è la Milano della notte, carica
di luci artificiali e quasi psichedeliche, ovattate. Luci che per questo, in
qualche modo, rimandando anche loro a una realtà ugualmente sognante, sfumata
nei contorni. C’è infine la Milano “di giorno”, dai contorni e colori
spietatamente definiti, iper - reali, in cui la fuga dal reale è
impossibile.
I giovani attori coinvolti si dimostrano molto bravi e al netto di una storia che prosegue ondivaga tra accelerazioni e frenate, alla fine della pellicola si ha molta voglia di saperne di più, di scoprire dove il principe e gli altri anti-eroi di Castoldi andranno a finire. Perché sono personaggi dentro i quali per molti sarà facile riconoscersi o riconoscere qualche amico.
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