New York, metà degli anni ‘50. Siamo
nell’Upper West Side, tra Central Park e il fiume Hudson. Mentre le palle
demolitrici spazzano via un intero quartiere di palazzi fatiscenti in vista di
una riqualificazione urbana che porterà i ricchi nelle periferie, tra la terra
smossa e le macerie polverose, spavaldi e minacciosi come animali urbani,
avanzano i Jets. Si muovono in formazione, come colombi in planata
e subito in picchiata, compiendo attacchi veloci e inesorabili ai passanti e ai
negozianti, senza paura o rimorso. Non hanno niente da perdere perché non c’è
più niente che sia “loro”. Sono gli ultimi “bianchi rimasti”, come li
definisce il tenente Schrank (Corey Stoll), gli ultimi pervicacemente ancorati a un quartiere povero ora passato in mano ad
altri: i “latini”. Nel West Side ogni cosa ormai è dei portoricani, dai
ristoranti ai parrucchieri, e i Jets sentono il bisogno di “riprendersi da
padroni” un territorio che ora dovrebbe essere loro, la loro casa dove
però non riescono a trovarsi un lavoro, sfogandosi con la violenza, eliminando
le nuove insegne e imbrattando le nuove bandiere, alla ricerca di una
restaurazione impossibile dello status quo attraverso la lotta di strada. Ma
anche i portoricani hanno i loro guerrieri, gli Sharks, altrettanto tosti e
pronti a menare le mani per difendere la loro gente, infilandosi in quel
quartiere in demolizione carichi di coltelli e onore. La guerra tra bande
sembra sul punto di deflagrare da un momento all’altro verso l’epilogo finale,
partendo da un pretesto, una scusa qualsiasi. È necessaria una “fiammata
forte”, perché la battaglia finale deve essere definitiva, anche se in
fondo è una guerra tra poveri, dove il vincitore avrà al massimo l’onore
di essere il gruppo che offrirà ai nuovi “padroni di città” le colf e i
maggiordomi, gli operai e i facchini. Ma diventa una questione di principio, di
“onore”. Riff (Mike Faist) il capo dei Jets, è teso e eccitato, si gioca
il tutto per tutto e rivuole al suo fianco nella lotta il suo amico e uomo migliore,
Tony (Ansel Elgort), anche se lui ha messo la testa a posto e riga dritto come
commesso dell’alimentari gestito della latina Valentina (Rita Moreno). Anche
il capo degli Sharks, il pugile Bernardo (David Alvarez) è sul piede di guerra
e vuole combattere, anche se la sua ragazza Anita (Ariana DeBose) vorrebbe
trattenerlo ed è imminente il fidanzamento di sua sorella Maria (Rachel
Zegler) con il timido ma gentile Chino (Josh Andreas Rivera). Il pretesto per
lanciare l’ultimo guanto di sfida è un ballo del liceo ed entrambi i gruppi
sembrano determinati a non tornare sui loro passi, ma all’improvviso, per un
imperscrutabile scherzo del destino, Tony e Maria, proprio a quel ballo
scolastico, si incontrano e si innamorano. Riuscirà l’amore a fermare la
guerra?
Ma rimaniamo a West Side Story, che da musical “fa la storia” e diventa anche film, per la prima volta nel 1961. Un film che il piccolo Steven Spielberg ama, quasi venera. Nel cartone animato da lui prodotto con la regia di Don Bluth nel 1986, Fievel Sbarca in America, il piccolo topolino immigrato nel nuovo mondo canta “non ci son gatti in America” sulle stesse note del brano “America” di West Side Story e ci troviamo nello stesso clima, di speranza e “satira sull’integrazione” che trasuda dai brani di Bernstein. Spielberg culla a lungo il sogno di un suo West Side Story e quando oggi riesce a ultimarlo, liberandosi all’ultimo dalla produzione di un nuovo Indiana Jones, affronta la materia quasi con la stessa devozione filologica di Gus Van Sant per Psycho di Hitchcock. Sono poche le “innovazioni” narrative, ma chirurgiche. C’è una periferia “in demolizione e riqualificazione“, o se vogliamo essere tecnici in “gentrificazione”, usando un termine coniato da Ruth Glass nel 1964. Un luogo di ammasso di oggetti e sudore che diventa qui davvero molto simile alla periferia del futuro-presente dello Spielberghiano Ready Player One anche per merito delle monolitiche e quasi apocalittiche scenografie di Adam Stockhausen, che rileggono la storia ma la accentuano, ingrandiscono strade e innalzano i palazzi. Allo stesso modo la bellissima fotografia di Janusz Kaminski, con le sue notti plumbee ma anche le mattinate dai colori sgargianti, ci trasmette la doppia vita di queste “diverse cataste” ai margini dei quartieri dei ricchi: febbrilmente popolate, qualche volta grigie e pericolanti, ma cariche anche di ironia e autoironia, gentilezza e passione. Non c’è come in Ready Player One una rete informatica che unisce le persone, ma ci sono comunque un’infinità di tralicci carichi di panni stesi che collegano umanamente ogni finestra e rendono quasi il cielo a strisce, “strisce di magliette appese”. Sempre come in Ready Player One, ogni luogo accatastato è raggiungibile da una scala esterna di metallo, che parte dalle profondità, da sotto i tombini, alla maniera delle scale dei sottomarini, articolandosi su più piani con tutte queste scale sovrapposte che rendono poi quasi “a sbarre” ogni finestra che sovrastano, dando l’idea di una grande prigione urbana. La iconica “scala d’emergenza” di West Side Story del ‘61, a sua volta variazione del balcone di Giulietta di Shakespeare, assume qui un tragitto ancora più intricato e vertiginoso, sul vuoto. Tutto l’ambiente esterno però di punto in bianco si anima, attorciglia e corre grazie alla tecnica sontuosa con cui Spielberg dà vita ai suoi mondi. Tra droni, dolby, effetti speciali e telecamere a mano tutto il mondo balla e canta, dalle luci dei lampioni che allungano i corpi dei gangster in ombre minacciose e affilate che si intersecano (magari un omaggio al Nightmare on Elm Street dello scomparso Craven) alle auto-van d’epoca che lanciano a tempo dei barili sulla strada, dalle palle demolitrici che girano su se stesse e colpiscono, alla stazione di polizia che diventa vittima di un “attacco d’arte” a base di schedari ribaltati.
C’è poi narrativamente il nuovo personaggio di Valentina, interpretato da Rita Moreno, che era stata Anita nel film del 1961 e ora prende “spiritualmente” il posto del personaggio di Doc, la “figura paterna” che segue Tony sulla retta via. Valentina è una chiave narrativa struggente e il fatto che sia ancora la bravissima Rita Moreno a interpretarlo per i fan del musical ha un peso emotivo importante. Anche i “nuovi fan”, che guardano oggi la Anita della bravissima e bellissima Ariana DeBose dovrebbero fare caso a questo dettaglio perché queste “doppie Anita” si completano e quasi fondono, raccontando forse un personaggio unico, dal percorso “più lungo”, in grado “da sole” di dare voce alle mille difficoltà dei problemi di integrazione tuttora presenti in America.
Justin Peck coreografo e ballerino del
New York City Ballett già premiato ai Tony Awards smussa qualche linea classica
per un approccio più “urbano”, realizzando combattimenti-balletti più duri per
le bande dei Jets e Sharks, ma trova la vera musa nella straordinaria e
bellissima Anita della DeBose, interprete che sa essere nella danza prorompente
quanto sensuale, atletica quanto aggraziata. David Newman adatta
con garbo assoluto le canzoni di Bernstein, quasi non toccando nulla, in punta
di piedi; il quadro è completo, l’omaggio è compiuto. West Side Story di
Spielberg è un film magnificamente confezionato sotto tutti gli aspetti, ma che
rimane e vuole fieramente rimanere l’adattamento fedele di un classico del
musical, realizzato da un regista del tutto devoto a quel mito. Sarebbe
completo il giro se Spielberg provasse a portarlo poi a teatro, con la
stessa ottima compagnia, trovando lì una diversa sintesi del suo talento
visivo, magari giocando con immense scenografie mobili. Da amante dei musical
farei carte false per vedere a teatro West Side Story con la regia di
Spielberg.
Nonostante il minutaggio poderoso, West Side Story di Steven Spielberg abbraccia e coccola ogni fan dello storico musical in uno spettacolo visivamente eccelso e che riesce al meglio a sfruttare la magia della sala cinematografica. Non farà cambiare di una virgola il parere di chi non ama i musical, perché sceglie di seguire in tutto e per tutto quel linguaggio e tipo di narrazione, ma per qualcuno questo West Side Story potrebbe essere anche la chiave per scoprire e appassionarsi ad un genere nuovo e che il cinema dovrebbe rappresentare di più.
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