martedì 21 dicembre 2021

Il colore della libertà (Son of South): la nostra recensione del film prodotto da Spike Lee sull’attivista Bob Zellner

 

Siamo in America, stato di Alabama, presumibilmente intorno agli anni '50. Ai bambini si fanno credere le cose più strane. A Joanne (Lex Scott Davis) hanno raccontato che i capelli biondissimi dei ragazzi bianchi “sanno di pollo fritto”, quando vengono bagnati. A Bob (Lucas Till) hanno spiegato che non è igienico riempire la sua pistola d’acqua dal rubinetto pubblico destinato alle persone di colore. Poi i due ragazzi sono cresciuti, diventati adolescenti e hanno iniziato pure loro a provare sensazioni contrastanti, che li facevano sentire un po’ diversi da chi li circondava, forse “strani”. Bob si sentiva in colpa quando lo costringevano a tirare per strada dei sassi alle persone di colore, perché a differenza dei suoi amici non lo trovava un passatempo troppo divertente. Joanne era invece andata a vivere all’estero ed era confusa sul fatto di non ritenere i ragazzi francesi dei “ragazzi bianchi”, anche se la loro carnagione era indubbiamente caucasica. Di confusione in confusione, Bob un giorno finisce nei guai quando per una tesina sui diritti umani chiesta dal corso che frequenta prova ad interessarsi dell’opinione delle persone di colore che seguono il reverendo Abernathy (Cedric The Entertainer). Viene quasi espulso, manda quasi a monte la sua relazione con la bellissima Carol Ann (Lucy Hale) e sconforta tantissimo il nonno (Brian Dennehy), figura di spicco dei suprematisti bianchi dell’Alabama. Ma suo padre lo consola perché anche lui si era sentito strano, anni prima, quando aveva accompagnato all’estero un gruppo canoro di colore: quando era tornato a casa aveva provato la strana sensazione, per molto tempo di “non vedere più i colori” e forse è lui che ha attaccato al figlio “questa strana malattia”. Di confusione in confusione Johanna partecipa nel 1961 a una marcia pacifica per l’integrazione, i “freedom riders”, nello spirito della protesta non violenta di Ghandi, e finisce quasi picchiata a sangue, costretta a nascondersi in una biblioteca. Fino a che arriva a salvarla, portandola in braccio verso un riparo, un principe azzurro bianchissimo, proprio il nostro Bob. Forse è l’occasione per testare se quei capelli biondi bagnati sanno davvero di pollo fritto.



Credo che la giusta via per parlare dei problemi di integrazione razziale passi dalle semplici ma traumatiche iperboli di cui si compone questa piccola ma riuscita pellicola prodotta da Spike Lee. Da un lato c’è la bella e poco conosciuta storia vera di Bob Zellner, attivista a favore delle persone di colore in Alabama con un nonno esponente del KKK: aspetto che rendeva quantomeno problematico e a volte surreale “redarguirlo”. Zellner è stato una figura importantissima nel processo di integrazione (addirittura rappresentato nei libri per i più piccoli da colorare), che ha saputo esporsi in modo pacifico e inattaccabile, dando corpo a un movimento che oggi è molto strutturato. Un rispetto con cui è riuscito a  guadagnare la fiducia di persone che sulle prime erano un po’ “incredule”, vedendo questo ragazzone biondo muovere i primi passi per aderire all’SNCC, il comitato studentesco per la non violenza. Per altro verso il film ci suggestiona, più che con mille parole e attestati,  proprio attraverso piccoli episodi semplici quando “al limite”, storielle in cui un osservatore esterno, come noi italiani nello specifico, al giorno d’oggi, può sentirsi per lo meno spaesato. Come quando un fattore, reo confesso dell’omicidio di una persona di colore, dichiara candidamente: “era mio amico, gli ho prestato i soldi per comprarsi la casa. Ma lui oggi voleva votare”. Come quando il reduce di guerra suprematista dice: “Sotto le bombe in Corea eravamo tutti americani e ho salvato la vita a molti di colore, portandomeli anche sulle spalle sotto i proiettili. Ma ora sono a casa e le cose sono diverse e li detesto di nuovo”. Quello che emerge da questi piccoli racconti, per lo più tratti dalla cronaca, è un odio confuso, “situazionale”, intermittente, con il personaggio del nonno che un po’ capisce il nipote perché “le donne di colore sono bellissime e gentili”, ma poi indossa il cappuccio bianco e brucia croci. Il film non va alle radici dell’odio (ma se vi interessa il tema vi consiglio anche Free State of Jones, di Gary Ross, che parla di un precedere storico che può essere significativo), ma trova modalità per esporlo nei suoi risvolti più contraddittori, guardarlo come fosse uno strano bug dell’inconscio collettivo più che una chiara convinzione precisa. Il colore della libertà in questa ricerca di contenuti sceglie di “non urlare”, come sentendosi di fare quanto invece Spike Lee aveva già espresso in Fa la cosa giusta. Mette inoltre in scena il training con cui gli attivisti si preparano a un confronto secondo le regole della non violenza di Ghandi. Ci parla di come una parola risulti offensiva quando viene storpiata e arrotolata nella pronuncia, diventando una specie di verso più che una definizione. Ci parla della possibilità di stupirci del pollo fritto che irradiano i capelli biondi con la curiosità buffa di quella che può essere una favola e forse un modo più “gentile e curioso” di relazionarci con persone di etnie che non conosciamo. La messa in scena in qualche caso può apparire non troppo cinematografica, gli attori sono in parte e il ritmo è buono, ma i messaggi che vogliono essere veicolato arrivano e spesso sono originali, interessanti. C’è poi come ciliegina finale una nota surreale e sarcastica, di stampo sociologico, alla Django Unchained come un po’ alla Blackkklansman. Film piacevole e utile per riflettere. 

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