domenica 19 dicembre 2021

House of Gucci - la nostra recensione del nuovo film di Ridley Scott

 


Siamo nella Milano anni ‘70, con la “Milano da bere” ancora lontana ma non così tanto, perché c’è già “fermento”. C’è un fermento simile (ma di diversa natura) anche in uno dei posti più magici del mondo per iniziare una storia d’amore: la storica libreria Cortina, davanti all’Università Statale (o almeno così pare dalla posizione). Lui si chiama Maurizio, è un ragazzone magrolino dall’aria un po’ allampanata e gli occhi buoni (Adam Driver). Vuole studiare legge per andare via da tutte le beghe familiari: tra il malinconico e scostante padre/attore-mancato Rodolfo (Jeremy Irons), lo zio d’America Aldo (Al Pacino) troppo distante per capirlo e la fabbrica di borse “un po’ vecchiotte” che incombono sul suo futuro. Lei si chiama Patrizia, è una gnappetta un po’ tarchiatella ma peperina, con dagli occhioni enormi e così azzurri da sembrare Liz Taylor (Lady Gaga). Lavora nell’ufficio dell’impresa paterna (il papà è interpretato da Vincent Riotta) operante nel settore del trasposto gommato e sogna il grande amore, intravisto di sfuggita alla maxi festa in maschera dai conti Serbelloni Mazzanti (di fantozziana memoria) e scambiato sul momento per il barman. Quel grande amore che ora è lì, davanti a lei, tra i mattoni polverosi di procedura civile della Cortina (o così pare) e l’aria di uno che non riesce a sollevarli con troppa convinzione. I due si presentano come si deve, si piacciono e scappano in vespa direzione lago di Como, trovandosi subito davanti alla più classica e romantica delle giornate sul lago di Como (per chi lo conosce e lo vive): in barchino a remi in due con nebbia totale a visibilità zero, acqua gelata e rischio concreto di cadere negli abissi, dove non troveranno mai più i corpi. È amore vero, anzi “l’Amore”, quando poi lui decide di andare via dalla “casetta paterna di migliaia di metri quadrati” dopo che il genitore, ex attore borioso, non vuole saperne della sua nuova tresca, che rischierebbe nel breve periodo di vedere legato il suo nome, altisonante dal glorioso passato, con una famiglia di “camionari”, come quella di Patrizia. Maurizio si fa le ossa lavorando insieme a quei camionari, vivendo con loro e giocando a gavettoni mentre puliscono i mezzi, in canotta, fino a che i due si sposano, con i nobili Gucci che disertano in toto la cerimonia. Ma lo zio Aldo poi ci ripensa e cerca di riagganciare i ponti. Suo figlio Paolo (Jared Leto) è troppo naif per ereditare l’impresa di borse, lui è anziano, Rodolfo misogino e Maurizio rimane l’unico degno erede possibile. Aldo troverà un assist importante proprio da Patrizia, che si rivelerà donna ambiziosa quanto abile stratega, in grado non solo di ricucire i legami familiari ma pure di rilanciare in alto il marchio verso nuove vette, con nuove idee e un sincero coinvolgimento per la causa comune. La  donna un tempo “gnappetta” appare di colpo a Maurizio bellissima bellissima (scrivo due volte per rafforzare), anche sotto la pioggia di una New York autunnale in bianco e nero, da ammirare come una diva del muto. I “gucci” con lei stanno per diventare i “Gucci”. Poi accade il “patatrac”. Beghe di soldi e finanza, casini e burocrazia presi sotto gamba, un po’ di cattiva gestione. Maurizio scappa in moto in Svizzera scoprendo che a Patrizia preferisce la bella Paola Franchi (Camille Cottin), l’amica di tante vacanze sulla neve di gioventù: bellissima, altissima, biondissima e con il naso strano. Di colpo ritrovata e subito riportata nella sua vita, insieme a tutta la vecchia cumpa degli amici fighetti, pronti a nuove sciate tutti insieme con in sottofondo Last Christmas dei Wham!. Patrizia raggiunge il marito sul set di questa specie di cinepanettone dopo aver cercato di spegnere i casini economici, ma appare subito fuori posto. Troppo gnappetta, nera come Calimiero, picchietta il cucchiaino sulla tazzina di caffè come un martelletto (e ha pure le sue ragioni dopo aver scoperto questo improvviso “volto galletto” del marito) ed è così poco “fashion”. Maurizio scappa e cambia tutti i lucchetti delle ville, si mette in casa la bionda dal naso strano, inizia a sognare in grande e arriva a chiamare Tom Ford per trasformare la sua azienda in qualcosa di enorme, dando fondo quasi a tutte le risorse nella realizzazione dell’impresa. Patrizia cerca di riaggiustare le cose, chiama e lui non risponde, lo segue e lui la tratta male, fino a che lei sceglie di servirsi dei poteri spiritici (e non) della medium Pina (Salma Hayek), conosciuta in passato durante una trasmissione televisiva notturna in cui leggeva le carte. Aldo intanto sarà in piena balia del figlio naif.  Finirà “a schifio”, ma prima il marchio Gucci volerà alto come non mai.


House of Gucci è una commedia nerissima, basata sul libro di Sara Gay Forden che adatta molto liberamente la vera storia della famiglia Gucci (al netto di qualche figlio in meno nella conta totale e situazioni e contesti non verificabili), leggendola nella chiave di una scalata al potere che non fa prigionieri. Ridley Scott ama rappresentare  al cinema gli uomini di potere, spesso leggendoli come figure tragiche incapaci di amare se stessi, amici, amori e financo i propri figli, alla costante ricerca di qualcosa di “più grande”, anche se indefinito, quella che i greci chiamavano “Hybris”. Il dottor Tyler di Blade Runner (Joe Turkel) amava suo “figlio” Roy Batty (Rutger Hauer) ma lo condannava a essere schiavo per poi morire in pochi anni per “un bene superiore” (ed economico). Ne Il Gladiatore, l’Imperatore Marco Aurelio (Richard Harris) non permetteva al figlio Commodo (Joaquin Phoenix) di succedergli per la volontà di far rinascere “la Repubblica”, facendosi ricordare come ultimo sovrano assoluto. In Tutti i soldi del mondo il milionario Paul Getty (Christopher Plummer) non voleva concedere il riscatto per liberare il nipote John (Charlie Plummer) per una questione di onore quanto di attaccamento a un rango che non riconosceva il mettersi a parlare con i comuni esseri umani (in una scena dice proprio al nipote bambino: “Per noi, un tempo, gli uomini avrebbero costruito le piramidi”). Il “potere” che muove il sol e le altre stelle (si perdoni questa dissacrante suggestione nell’anno di Dante) nel caso di House of Gucci è in fondo solo un nome: “Gucci”. Un nome dal grande potenziale gestito da persone che non sanno cosa farsene, fino a che questa donnina con gli occhi di Liz Taylor se ne appropria, lo lucida e ci crede “troppo”, fino a suscitare per riflesso un po’ di genuina invidia da parte dei legittimi detentori. È lì che la donna viene “rimessa al suo posto” come indegna, “proletaria”, facendo saltare il banco e le alleanze, con i “legittimi eredi del nome” che nel frattempo tornano a volerlo gestire in proprio, anche se in modo maldestro. Si può quindi nella finzione cinematografica “fare il tifo per Patrizia” senza sentirsi troppo in colpa, pur dissociandosi per l’esito finale delle vicende. Lady Gaga la incarna come donna in continua mutazione: da brutto anatroccolo a vamp, da casalinga disperata a parodia di una strega, ma sempre con gli stessi occhi profondi, intelligenti quando determinati. È una donna pratica, disillusa, infranta e quel nome, “Gucci”, sente di esserselo meritato con anni di lavoro.


Adam Driver dà corpo a questo eterno ragazzone elegante che il nome “non se lo è meritato”, che gira in bici con i pantaloni legati dalle mollette, per non finire sotto i raggi, tra i palazzi più ricchi della città più ricca d’Italia. Vive perennemente di sogni, idealizza persone e situazioni, ha “fiuto per il bello” e per l’arte, ma non riconosce alleanza e deve essere lui il solo protagonista della sua vita. Non può assecondare il padre, reso da Jeremy Irons come un uomo ricurvo intento a contemplare per sempre, nella penombra di un fioco camino, la sua stanza dei trofei, lamentandosi di ogni cosa e rivedendo le vecchie pellicole che lo vedevano protagonista, ancora “vivo”. Il nipote non può nemmeno mettersi dalla parte dello zio, che Al Pacino veste come un commerciante gentile, accogliente, paterno ma disilluso, che punta al profitto più che alla qualità assoluta. Non può sopportare il buffo e inconcludente cugino Paolo interpretato da Jared Leto, per la spericolatezza con cui “nomina invano il nome Gucci” (che pure sarebbe il suo, all’anagrafe), per promuovere in genere la sua arte da quattro soldi, fatta di capi da abbigliamento dozzinali. Maurizio pecca di Hybris e finisce un po’ come Icaro, ad un passo dal sole e dal successo. Patrizia pecca infine anche lei della stessa Hybris, come la shakespeariana lady Macbeth. L’insoddisfazione e i limiti di Paolo potrebbe avvicinarlo a Fredo, della saga del Padrino di Puzo e Coppola. Poteva essere quindi tragedia, greca quanto moderna, ma Scott, che da poco ha portato sullo schermo la “sua versione della tragedia” con The last duel, sceglie un tocco più leggero e per lui più adatto per raccontarci le umane miserie di personaggi “tragicamente fantozziani” quanto umani. In una cornice lussuosa e ammiccante (grazie alla fotografia sempre affascinante di Dariusz Wolski) che dà continuo lustro alle bellezze di un’arte italiana che nella moda trova una delle sue mille voci, con in sottofondo il meglio della nostra musica pop d’annata (unita a un’ottima colonna sonora firmata da Harry Gregson - Williams) si muovono personaggini più goffi che sexy, più umorali che razionali, più infagottati che eleganti. Figli di una Dolce Vita un po’ amara, spesso con un approccio alla vita un po’ fumettoso, quasi “trash”, come la surreale veggente Pina interpretata da una divertita e divertente Salma Hayek, con il suo sottobosco criminale da avventori del panino alla porchetta. Personaggi che in un attimo da New York e le ville, dove ci si scontra virilmente nei caldi pomeriggi nel più british dei rugby, passano a quell’atmosfera da Vacanze di natale della location Svizzera, dove a un certo punto quasi ci sentiamo di invocare Jerry Calà e un “delicatissimo” Christian De Sica. C’è poi quel “faccione da Alberto Sordi”, straordinario quanto tenero, che tira fuori di colpo Al Pacino, mente coccola un Jared Leto che si agita con la voce della signora Coriandoli di Maurizio Ferrini (già in lingua originale), dicendogli paterno: “Tu sei un imbecille. Ma sei il Mio imbecille”. 


Se James Wan ha preso Argento e lo ha riletto stilisticamente in Malignant, se Tarantino ha preso Castellari, Corbucci e Leone e li ha fusi nelle inquadrature dei suoi ultimi film post-spaghetti-western, il Ridley Scott di Blade Runner e Prometheus, di Alien e Thelma e Louise, dei Duellanti e The last duel, per House of Gucci ha preso a piene mani dalla nostra commedia all’italiana. Lo ha fatto non con un atteggiamento di sfida o supponenza, perché ha trovato che fosse il modo più corretto per leggere questa sceneggiatura.

Più una variante de Il vedovo di Dino Risi che Game of Thrones

Forse Scott ha fatto uno “sgarro”, per chi cercava dalla pellicola una celebrazione dello stile italico quanto Nine di Rob Marshall o si aspettava per lo meno la algida Grande Bellezza di Sorrentino. Qualcuno si sarà sentito deluso per la componente “gialla” della vicenda, ben lontana pure da “un giorno in pretura”, che nasce e si risolve non esattamente come un dedalo inestricabile di indizi, inseguimenti, thriller. Possiamo dare salomonicamente la colpa di queste “delusioni” in parti uguali al libro di Sara Gay Forsen come alla sceneggiatura di Backy Johnson e Roderto Bentivenga, ma House of Gucci, se si ha la voglia di “passare oltre”, è davvero gustoso. Crudele quanto basta. Più sarcastico che malinconico. Un po’ come quei villoni sfarzosi sul lago di Como, che il destino ha voluto spesso coperti dalla nebbia e maltempo, con Paolo Villaggio che li guarda e ci guarda dal cielo e ride, con noi che dovremmo ridere con lui e insieme a Scott di questa cosa. 

La pellicola ha una durata abbastanza imponente, ma non ho avvertito in modo negativo questo aspetto. Bravi tutti gli attori, Gaga e Pacino straordinari, umani e avvolgenti. Driver misurato quanto etereo, Irons crepuscolare quanto tagliente, una menzione speciale a Jared Leto, che si è totalmente trasformato nell’aspetto e nella voce per interpretare il ruolo di Paolo.

Molto divertente, ben confezionato, potrebbe non piacere a chi si aspetta qualcosa di diverso da una commedia nera. 

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