Siamo a Detroit, negli anni '50, dove la
piccola Ree (Skye Dakota Turner) incanta con la sua voce i cori della
New Bethel Church. La passione per la musica gospel è il grande legame
speciale che la unisce con la madre Barbara (interpretata dalla star di
Broadway Audra McDonald), che ora vive lontana, a Buffalo. Quando madre e
figlia sono insieme e duettano, sembrano quasi perdersi in un piccolo mondo
armonico tutto loro, dotato di una “straordinaria grazia” dove la luce è
intensa e in cui Bree è felice. Un mondo ben diverso da Detroit e dai
suoi chiaroscuri violenti. Quando Ree non ha ancora 10 anni, la madre purtroppo
muore per via di un attacco cardiaco e lei viene affidata permanentemente alle
cure di un padre, Clarence (il premio Oscar Forest Whitaker), severo, assente
e forse un po’ egocentrico. Ree rimane incinta a 12 e poi a 14 anni e la
pellicola ne parla giusto di sfuggita, anche perché è un tema spigoloso, di cui
la cantante ha parlato poco e solo su alcuni scritti trovati postumi alla
sua morte, nel 2019. Mamma ma ancora bambina, Ree con la sua voce continua
negli anni a brillare per il padre, che vuole sia solo lei a cantare come prima
voce nei gospel che arricchiscono le sue serate di predicazione come pastore
battista. Sono gli anni di Martin Luther King (interpretato da Gilbert Glenn
Brown che ne fa quasi una figura paterna alternativa) e Ree lo incontra più
volte in quanto amico del padre, portando a un sodalizio che legherà la
cantante e il politico per tutta la vita. A 18 anni Ree (ora interpretata
dalla cantante Jennifer Hudson) firma per la Columbia Records, con cui produrrà
9 album, sempre con dietro il padre Clarence come manager e mentore. Ma la
svolta della vita, la “chiamata” come si direbbe nei Blues Brothers, avverrà in
concomitanza con il nuovo contratto con la Atlantic, nel 1966. La nostra Ree
era famosa e corteggiata dalle radio, ma scontenta, non realizzata. Poi cambia
qualcosa con l’incontro/scontro con la cantante Dinah Washington (interpretata
da Mary J.Blige), che la mette davanti ai suoi limiti e a quello che vuole
diventare “da grande”. Poi arriva la nuova relazione con Ted White (Marlon
Wayans), accolto come una liberazione dal giogo paterno, ma che si dimostrerà da
subito solo l’ennesimo “padre/padrone” della sua vita. Ma in tutto questo nel
1966 Ree, pur da “bravo soldato” continua a cantare come sempre, senza
scontentare l’ambizione ora del nuovo compagno, ma con una nuova
voce. Una voce che tra le note e le strofe si eleva e si fa “urlo”. Un ruggito autoritario
quanto sensuale, caldo quanto potente, che muove dal gospel “materno” al soul.
Un ruggito che sgomita nella metrica, richiedendo per essere accompagnato
musicisti con forte esperienza jazz e blues. Ree per una volta richiede con
questa sua nuova voce Rispetto per se stessa. “Ree-spect”, per il suo punto di
vista, dolore e passione. La sua voce diventerà in breve così unica e popolare
da unire le voci delle donne oppresse, la voce delle persone di colore verso la
parità dei diritti sotto la guida non violenta di Martin Luther King, la voce
di chi ama la musica e il suo potere di cambiare il mondo. Una voce che
raggiungerà il suo apice quando re-incontrerà il gospel, vivendolo non più con
gli occhi di una bambina ma di una donna.
Liest Tommy è una giovane regista che
conosce la storia della musica e riesce a raccontarla, come dimostrato nel suo
ultimo lavoro su Dolly Parton. Il canovaccio di Respect, a opera di Tracey
Scott Wilson e Callie Khouri, racconta una storia “tristemente” abbastanza
classica, dove una artista di colore deve farsi strada nel mondo della musica
per lo più ostacolata da figure maschili autoritarie quanto frustrate da un
successo che godono solo “di riflesso”. Ma la musica, la straordinaria
musica di Aretha Franklin, riesce sempre a innestarsi meravigliosamente
sulla trama e a guidarne magicamente l’intreccio, dialogando e duettando con la
storia della vita della protagonista. Aretha sembra apparentemente un
personaggio immobilizzato nel ruolo di una donna sottomessa, ma il personaggio
riesce a esprimersi proprio attraverso le parole delle canzoni e la grinta con
cui le interpreta. Attraverso l’arte, Aretha si esprime in un modo cosi sottile
da non venir percepito dai suoi “aguzzini”, che di fatto non ascoltano la sua
musica quanto vivono del “successo che genera”. Ma al contempo la musica di
Aretha riesce a colpire il cuore per davvero quanti la ascoltano sul
serio e sa trasformarsi in una specie di voce interiore collettiva. Era
difficile veicolare al cinema una visione così raffinata quanto spirituale della
musica.
Respect va oltre una cornice
narrativa compassata quanto elegante, trascinando la musica direttamente nella
narrazione, in un modo diretto, sincero, dirompente ed esponenziale. Aretha
rivive al meglio dentro una bravissima Jennifer Hudson, attrice e
cantante che avevamo già apprezzato nei panni di Effie White in
Dreamgirls e Grizabella in Cats (anche se visivamente Cats è un po’ “Strong”,
rimane un film con bellissime interpretazioni). Forrest Whitaker è sulla via
regale di James Earl Jones, il suo Clarence è ricco di sfaccettature e nasconde
sotto la scorza qualcosa di più, titanico e dolente nel dover scontare un
confronto impossibile e spietato con un “padre spirituale” come Martin Luther
King. Marlon Wayans, come Jamie Foxx in Dreamgirls e Laurence Fishburne in
Tina, è “bloccato”, come era bloccato Danny Glover ne Il colore viola. Bloccato
in un ruolo di “uomo dal potere negato” da una società che non riconosce parità
di diritti alle persone di colore, generando in loro un senso di frustrazione
che tracima, diventa irrazionale e spesso si sposta con violenza sui propri
cari. Non è un personaggio semplice quello di Wayans, come non erano semplici i
personaggi di Glover, Foxx e Fishburne, anche perché narrativamente non vengono
“assolti” per le loro frustrazioni e crudeltà. Un bel passo in avanti nel campo
drammatico per l’attore comico Wayans.
In Respect troverete una straordinaria colonna sonora, da gustare rigorosamente nella migliore sala cinematografica per impianto sonoro. La durata supera le due ore ma non la avvertirete. Molto bravi gli interpreti. Una storia semplice ma scandita da meccaniche intriganti che mettono al primo posto e con molta originalità l’arte. Un buon tributo per scoprire o riscoprire Aretha Franklin.
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