È complicato parlare del periodo del COVID-19 mentre questo fenomeno è ancora in corso, spaventa, disorienta e detterà l’agenda internazionale almeno ancora per un anno. Per il blog abbiamo visto il curioso, strampalato, involuto, sofferto ma “onesto” Lockdown all’Italiana con Greggio. Un film realizzato sotto il distanziamento sociale degli attori sul set, in una Roma blindata e deserta, dove la massima trasgressione per una commedia era immaginare di tradire la moglie a distanza su Skype. Dove Greggio a un certo punto si sentiva impotente come comico e suonava al pianoforte una melodia struggente, catartica. Forse in futuro ci rideremo su, per davvero. Racconteremo di un nuovo baby boom, di come le coppie in crisi non potendo scappare di casa si siano consolidate, di come il lavoro a distanza e la transizione ecologica siano maturati positivamente, della solidarietà umana che spontaneamente ci ha reso persone migliori, della ripresa economica che ne è seguita. Un po’ come quei film sul maestro di arti marziali Ip man, che terminano con “e dopo la guerra, dopo la depressione, arrivò Bruce Lee”. Ma il futuro al momento è un concetto ancora lontano e nebuloso, le grandi promesse sono ancora “in corso d’opera” e aleggiano ancora sinistre nella memoria, per chi non ha vissuto direttamente o indirettamente i drammi del COVID-19, le bare ammassate di Bergamo, la disperazione di chi ha perso il lavoro, il papa da solo sotto la pioggia in San Pietro. Sosteniamo ancora a fatica il troppo felice slogan “andrà tutto bene”, che sinistramente è anche la frase più abusata nei film horror prima che arrivi il peggio. Ci viene un brivido quando nelle sale cinematografiche di nuovo aperte lo spettacolo si apre con quel messaggio a inizio proiezione che dice, ancora oggi, “tieni la distanza, indossa la mascherina e rilassati, ora sei al sicuro”.
Oggi siamo di nuovo a quel punto, come
in Lockdown all’italiana, con l’arte che cerca di trovare un senso al periodo
della “nuova peste” che abbiamo vissuto e in parte stiamo ancora vivendo (ancora per poco, incrociando le dita). Isolation è un’opera che vuole guardare
nel magma emozionale di cinque artisti diversi, di età, nazione e sentimenti
diversi, parlando per lo più la lingua del documentario. Arriva quindi ad
aprirsi le danze con Death Close by un Michele Placido crepuscolare,
stropicciato e senza trucco. Affronta le vie deserte della Roma del primo
Lockdown da solo, ripreso nell’incedere tra le vie dal suo telefono
cellulare. Erano i momenti in cui le vittime giornaliere arrivavano a 1000, gli
anziani erano i più esposti, le mascherine erano introvabili e si
facevano le code ai supermercati. Ci dice che la moglie non è contenta
che lui esca di casa, perché ha paura che se dovesse morire all’improvviso lei
vorrebbe essere al suo fianco. Ma lui non riesce a restare in casa, deve
documentare e deve con le sue parole e la sua arte provare a ispirare,
trasmettere vicinanza a chi soffre e speranza per il domani. Perché per Placido
l’isolamento forzato per questioni sanitarie non può corrispondere a un
isolamento interiore, a un “arrendersi”. Nel suo segmento Placido incontra
Bocelli e parla con lui di filosofia e letteratura. Poi si muove tra le guglie
del Duomo di Milano con Bolle, nell’unico luogo abbastanza isolato da non
necessitare la mascherina. Fa capolino nei teatri che registrano per lo
streaming, dove le artiste confessano di mettersi ancora il rossetto sotto la
mascherina, nonostante nessuno lo possa vedere. Placido fotografa nei dettagli
una normalità che cerca di sbocciare nel momento più nero e segue lo stesso
percorso della tedesca Julia Von Heinz nel corto successivo, Two fathers.
Attraverso immagini in presa diretta, una segreteria vocale e alcuni filmati
d’archivio, la Von Heinz racconta la scomparsa e al contempo la “scoperta” di un
padre ai tempi del COVID-19. Un padre percepito lontano da anni e che ora deve
seppellire in uno di quei tristi funerali contingentati con massimo di due
persone. Un padre che attraverso i diari e le lettere che la donna ritrova per
casa racconta una vita segreta e un rapporto omosessuale di lunghissimo corso.
Al punto da far sorgere spontanea la convinzione di aver potuto conoscere due
padri, che sarebbero magari vissuti alla luce del sole se gli omosessuali
fossero stati ai tempi accettati come oggi, dopo che molte battaglie sulla
libertà di genere sono state riconosciute. L’autrice compie un parallelismo
diretto tra l’isolamento sociale, vissuto da chi si è negli anni ritenuto
diverso in quanto omosessuale e l’isolamento sanitario imposto oggi dal
COVID-19. Il corto assume presto la forma di un dialogo a distanza tra
l’autrice e una figura di spicco del movimento omosessuale. Si muove invece in
ambito mediatico il segmento Liberty, Equality, Immunity del francese
trapiantato in Svezia Olivier Guerpillon, con una satirica critica al
cosiddetto “modello Tegnell”. Del resto non si può parlare oggi di COVID-19
senza parlare dell’enorme sovraesposizione mediatica dei virologi. Il virologo
di stato Andreas Tegnell ha negato a lungo la necessità di mettere in pratica i
lockdown, mettendosi in diretto contrasto con le opinioni dell’OMS e diventando
in certi contesti una bandiera dei movimenti no-vax. Olivier Guerpillon con
pungente ironia e utilizzando stralci di telegiornali racconta il paradosso di
vivere in uno dei paesi al mondo più ossessionati dalla sicurezza e dalla
prevenzione delle malattie, ma che in questo caso ha eletto Tegnell come una
specie di salvatore. Al punto che il suo ritratto è arrivato a essere
rappresentato su delle bandiere e addirittura sui tatuaggi. La fermezza, il
curriculum impeccabile (era in Zaire con Medici senza frontiere durante
l’Ebola) e il carisma di Tegnell hanno saputo per Guerpillon spingere la Svezia
verso una china pericolosa, di sostanziale negazione della pericolosità del
virus, almeno fino a quando hanno iniziato ad arrivare dall’estero immagini
forti come le bare di Bergamo. Da lì il percorso di negazione è stato più
difficoltoso ma è riuscito pervicacemente a durare ancora a lungo, rallentando
il periodo necessario a un’azione di contrasto che ha comportato infine un
picco dei contagi fuori misura. Le continue rassicurazioni del virologo “che la
pandemia sarebbe andata a spegnersi da lì a un mese” continuavano nei fatti a essere rimandate e lo sono tutt’ora. Certo è difficile prendere decisioni e
divulgare informazioni su un fenomeno epidemiologico ancora in corso, non
codificato da studi clinici longitudinali e per il quale siamo ancora a una
fase di risposta sperimentale. Un virologo non ha la sfera di cristallo, ma può
invitare all’uso corretto della profilassi, può rassicurare circa la bontà di
una cura rispetto a un’altra mostrando i dati di una ricerca, può fare
comparazioni con altre epidemie. Certo, che alla fine utilizzino quella “sfera
di cristallo che non hanno” glielo chiediamo sempre alla fine. Facciamo le
classifiche tra chi è più pessimista oppure ottimista, tra chi è più simpatico
e chi più musone. Faccio qui outing e dichiaro il mio amore incondizionato per
la dottoressa Barbara Gallavotti. Amo perdermi nel suo modo calmo e
rassicurante di parlare, nel suo sorriso e nei suoi occhi dolci. Mi sento come
un bimbo cullato nel passeggino da una mamma affettuosa che si avvicina a me
col volto. mi allunga sul viso i suoi riccioli e mi dice “forse non andrà tutto
bene oggi, ma ci proveremo lo stesso”. E credo che un virologo in tv dovrebbe
fare un po’ questo senza che noi pretendiamo o speriamo che faccia altro.
La ricerca scientifica non si muove in linea retta. Certo il caso dell’isolamento
nella politica sanitaria della Svezia è abbastanza emblematico di come i media
spesso ci abbiamo confuso le idee e sullo stesso piano arriva il quarto
segmento, del belga Jaco Van Dormael, dal titolo Mourning in the time of
coronavirus. Girato in bianco e nero, il corto è composto da frammenti di
telegiornale intervallati da una vicenda umana molto intima che inizia come un
girato convenzionale e via via rallenta e si scompone, fino a diventare una
serie di fotografie sempre più fuori fuoco, con il solo accompagnato di una
musica drammatica. Scorrono le notizie del telegiornale e sembra che raccontino
un mondo distante, asettico e indifferente, mentre ci viene raccontata la
storia di una coppia suo malgrado isolata, padre malato e figlia, che possono
comunicare solo attraverso il monitor di un computer. L’immagine dell’uomo è
sgranata dalla bassa risoluzione dell’immagine, il riverbero luminoso del
monitor è l’unica luce nella stanza della figlia. Il tempo si allunga,
l’immagine si blocca e tutto appare sempre più fuori fuoco. Di primo impatto un
po’ “freddo” come forma artistica, nel suo ancorarsi a uno stile visivo più
che nella narrazione, il quarto corto possiede l’innegabile qualità di fissarsi
nella mente dello spettatore con forza. Le sue immagini fisse e sfuocate
assumono inconsciamente forme liquide di fantasmi, il frame rate che scatta
fino ad annullarsi insinua una profonda malinconia e senso di solitudine. Non è
invece da sola e nel silenzio la protagonista del quinto e ultimo corto,
dell’inglese Michael Winterbotton, che dà anche il titolo alla pellicola. In
una Londra blindata, in un piccolo appartamento di periferia, vivono una
giovane madre con un bambino sui dieci anni. È immigrata in attesa di lavoro,
ha un passato disastroso e un marito in carcere, la previdenza sociale inglese
la aiuta con 80 euro alla settimana. Il suo isolamento forzato assume subito i
connotati della sopravvivenza. Il bambino è incontenibile e fonte costante di
rumori, dal prorompere in risate allo schiacciare con foga i tasti del
videogioco al martellare sul tavolo con i pastelli da disegno. Una sorta di
performance acustica che perpetra con impegno, come si fosse dato il compito di
“tenere sveglia la madre”, “allontanarla dalle preoccupazioni”. La madre cerca
di stargli vicino come a volte cerca di ritagliarsi dei piccoli spazi dove
stare da sola, conscia che si trovano entrambi ingabbiati a tempo indeterminato
mentre in tv il premier Johnson continua ad apparire con inviti al sacrificio e
al tirare la cinghia. Sono pochi minuti ma da spettatori sentiamo la voglia di
scappare e non immaginiamo davvero cosa potrebbe essere vivere per mesi in
quella situazione.
L’isolamento dalla bellezza dell’arte in attesa fremente di un ritorno alla normalità. L’isolamento dalla fruizione dei propri diritti e libertà ma anche l’isolamento dagli altri per “paura”. L’isolamento sanitario e come si combina con l’informazione, la politica e l’opinione dei virologhi. L’isolamento dai propri cari che diventano sempre più un’immagine lontana e sfuocata, un’immagine da guardare su schermo come un telegiornale. L’isolamento dal resto del mondo quando tutti siamo spremuti senza nostra colpa in un piccolo spazio, a rubarci quasi l’aria. Isolation è un documentario dai sapori forti, che lancia problematiche concrete e riesce a trovare nonostante tutto una energia vitale importante, una bellezza umana che si fa strada nonostante tutto. Lo stile è sobrio, la visione non trova particolari intoppi nel passaggio di regia ed episodio, ogni autore trova una strada personale e interessante di esprimersi. Sarebbe bello riguardarlo a distanza di qualche anno.
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