America dei giorni nostri. Spesso la vita procede a “scossoni” improvvisi, dove commedia a tragedia si alternano quasi senza logica, come fosse un copione scritto male. In genere si urla, ci si fa del male, alcuni personaggi importanti vengono dimenticati dalla “trama”, si piange, si ricordano quasi per niente i momenti felici e ci si incolpa pure di questo. Le famiglie esplodono, le persone muoiono, la scuola fa schifo, il lavoro fa schifo, tutto fa schifo. Questo però non succede mai in molti telefilm: sensati progetti editoriali nati per essere seguiti da persone che vogliono rilassarsi dallo stress di tutti i giorni. Nei telefilm c’è sempre una risata, magari registrata, a stemperare gli animi seguendo tempi comici ed emotivi perfetti. Ci sono veri amici a portata di mano “giù al bar” tutti i giorni, che non ci fanno sentire mai soli. I parenti sono ingombranti ma buffi, i colleghi di lavoro sono ugualmente ingombranti ma ugualmente buffi. Non ci sono incomprensioni e quindi anche i drammi più catastrofici si riducono a piccoli battibecchi risolvibili entro fine episodio, l’atmosfera può essere sempre frenetica e gioiosa come la mattina di Natale quando da bambini si scartavano i pacchi. Se serve, arriva sempre qualcuno che come deus ex machina con pazienza e coerenza trova una soluzione, la soluzione sensata e politicamente corretta migliore a tutti i problemi. Questo è “il mondo che vorrebbe” il giornalista della guida tv Micheal (Jim Parsons), un ragazzo timido e sensibile che ama il Natale, i Puffi e il suo compagno di vita: l’affascinante e comprensivo fotografo Kit (Ben Aldridge). Fin da piccolissimo Michael sognava di vivere una vita parallela in una famiglia simile a quelle delle serie tv. Una vita in cui stava perennemente seduto in un salotto da sit-com stile Genitori in Blue Jeans, pieno di fratelli che non aveva, con una madre sempre comprensiva e con i bulli della scuola rigorosamente fuori dalla scena. Ogni periodo della vita di Michael è stato per lui come un “telefilm diverso”: il suo attuale lavoro nella redazione è simile a una stagione del telefilm The Office e la vita che sta costruendo insieme a Kit il suo grande telefilm sentimentale perfetto, un po’ come lo era Una mamma per amica. Deve diventare un telefilm ancora “più perfetto” soprattutto ora che Kit, Spoiler alert, nei primissimi minuti del film, si trova in punto di morte in ospedale, con un cancro incurabile che lo sta uccidendo. Michael è presente e combatte insieme a Kit in questa sua battaglia, ma al contempo il giornalista della guida tv ci racconta, rivolgendosi direttamente a noi come pubblico (ma anche un po’a se stesso) di quando la sua storia con lui sia stata “come nei telefilm”: tra gioie, successi, amori, sfide e problemi affrontati con la serenità di una sit-com. Sceglie di mettere decisamente da parte le burrasche del quotidiano che alla fine, col senno di poi, si sono comunque risolte con il tempo senza problemi, proprio come accade nei telefilm. La vita di Michael e Kit diventa così una specie di album dei ricordi pieno della sua passione “fuori controllo” sui Puffi, tanti Natali da passare felici sdraiati sotto l’albero a guardare le lucine colorate, cene di famiglia potenzialmente imbarazzanti fino a quando non si comprende che l’imbarazzo è sempre qualcosa di relativo, specie quando i sentimenti sono più importanti. Le stanze dell’ appartamento condiviso tra Kit e Michael si animano come le stanze di Friends, ma periodicamente i due devono necessariamente tornare a quelle atmosfere poco gioiose da medical drama stile E.R.: dove medici corrono e cercano letti liberi per i pazienti, la musica diventa concitata e dove infine… gli episodi finiscono con parte del cast non riconfermato per le puntate successive.
Il regista della commedia The Big Sick, Michael Showalter, dirige una curiosa pellicola sulla “narrazione di un amore” che sovverte in modo originale le regole classiche della commedia e del dramma. La sceneggiatura, scritta a tre mani dal produttore della serie tv Brothers & Sisters David Marshall Grant, dal produttore di The Real O’Neals Dan Savage e dall’attore e sceneggiatore Michael Ausello, prende spunto dalla storia personale di quest’ultimo, raccontando il rapporto di Michael con il suo compagno Kit, proprio a partire dai suoi ultimi momenti di vita. Protagonisti assoluti della scena sono Jim Parsons, che dopo il successo nel ruolo di Sheldon nella serie tv Big Bang Theory è uno degli attori più amati del momento. e Ben Aldridge, il Thomas Wayne della serie tv Pennyworth. Entrambi sembrano aver trovato la giusta intesa sul set, riuscendo a rappresentare bene l’affetto che lega i rispettivi personaggi: una coppia molto diversa ma alla continua e proficua ricerca di una intesa felice tra loro.
Ci sono da sempre film che “giocano” con in linguaggio e la messa in scena “tipiche” dei telefilm. Da un lato ci sono pellicole come il riuscito Pleasentville di Gary Ross, che ironizzano sul contrasto tra mondo reale e mondo della tv portando alla luce i tanti cortocircuiti interni che si vengono inevitabilmente a creare. D’altro lato ci sono pellicole che “inglobano” il linguaggio stesso della tv “nel reale” per farne un unico meta-linguaggio, che in parte è proprio riflessone sul modo odierno di “raccontare la realtà” attraverso i media. Oliver Stone prendeva così Woody Harrelson, l’interprete del dolce e amatissimo ragazzino apprendista-barman della sit-com Cin Cin (Cheers), ai tempi amato quanto Sheldon, e “usando il linguaggio della tv anni 90” gli faceva “indossare” i panni dell’assassino psicopatico Mickey Knox, in Natural Born Killer. Se in Cin Cin Harrelson “viveva” in divertenti e tranquillizzanti puntate da trenta minuti trasmesse in fascia pre-serale, in Natural Born Killer la vita del suo personaggio era scandita cinque minuti per volta da un furioso e turbolento “zapping tra i canali”: tra un brano di musica hard Rock di Patty Smith e una ballad di Leonard Cohen, un film horror in bianco e nero e un programma sui true crime, un telegiornale che segue in diretta una strage, un documentario sui nativi d’America, il wrestling, i mostri giapponesi giganti, la pubblicità, i cartoni animati e altro. Tutto veniva “mesciato” e contaminato più volte tra i vari stili narrativi e visivi dei rispettivi show, per essere poi annaffiato con una generosa dose di psichedelia in un modo dissacrante quando potente, disturbante quanto malinconico. Alla fine a essere trasfigurata “toccava pure” alla serie tv tranquillizzante, stile Cin Cin o Genitori in Blue Jeans: quella con il salotto, i buoni sentimenti e le risate registrate. Quello diventava di colpo il momento più terribile di tutto il film di Stone, anche perché alle scene da sit-com familiare venivano alternate delle immagini “di come erano andati nella realtà i fatti”, con scene di violenza familiare reale filmate in glaciale bianco e nero, proiettate in brevi flash subliminali. Spoiler Alert, nel costruire la “realtà ideale” voluta dal protagonista/narratore, se vogliamo compie un viaggio inverso rispetto a quello di Natural Born Killer, ma non meno ardito: trasformare/riscrivere davvero, per quanto possibile e in funzione di un “dolore attuale”, la realtà in una specie di album dei ricordi positivi. Anche egoisticamente a costo, qualche volta, di estraniare lo spettatore dalle reali dinamiche emotive dei protagonisti sulla scena. L’epilogo doloroso della storia tra Kit e Michael è “decisamente reale e terribile”, ma diviene fin dai primi minuti del film quasi la condizione necessaria, per raccontare una relazione amorosa che si vuole con tutta la forza del mondo che appaia perfetta come un telefilm del pomeriggio “dall’inizio alla fine”. Possiamo certo comprendere idealmente quello che prova il nostro narratore, Michael, nella sua volontà di cancellare le cose brutte dal suo racconto, ma fino a che torniamo al “piano reale”, nella situazione iniziale dell’ospedale tra lui e Kit, parte del pubblico può pensare di sentirsi come quegli amici che negli anni '80 venivano invitati il sabato sera a vedere le diapositive delle vacanze dalla Grecia di qualcuno. Immaginate che siamo nel dopocena e che chi deve mostrare le foto abbia una scaletta rigida per dire più cose in pochissimo tempo. A corredo delle foto caricate sul proiettore, nascevano frasi del tipo: “in questa foto siamo in aereo, c’è stato un problema con il biglietto del volo ma abbiamo risolto. Foto successiva”. Oppure: “qui siamo davanti al Partenone. Un turista ci ha impedito di riprendere quel dettaglio del capitello, ma è andata bene lo stesso con... Foto successiva”. Questo per dire che “le cose accadono” in Spoiler Alert, anche importanti e non scontate (tra il modo in cui viene affrontato tanto il “coming out” che la crisi di coppia), ma ci vengono narrate in modo per lo più veloce ed edulcorato per una precisa “policy aziendale”, senza che le “sintesi emotive” possano essere in qualche modo filtrate da ironia o da quegli agghiaccianti scorci nel reale in bianco e nero di Natural Born Killer. Sembra che il film voglia trincerarsi in un continuo e pur umanissimo: “Kit e Michael sono bellissimi così e basta!”, quando il punto di vista di Kit (perennemente “tagliato” in quanto protagonista, ma non narratore/protagonista come Michael) alla fine con ci viene mai davvero rappresentato, se non con l’idealizzazione che ne fa Michael. È una scelta di stile, interessante, “emotiva”, coraggiosa e che di fatto svela alcuni meccanismi psicologici poco esplorati che esistono nei rapporti di coppia. È qualcosa che rende questo film unico. Ma al contempo questo stile può risultare per qualcuno in sala una scelta quasi “antipatica”, divisiva almeno fino alla parte finale del film, dove la pellicola in parte ripara questa situazione con una soluzione originale che riflette in modo intelligente proprio su questa ambiguità di linguaggio, donando al film un livello di lettura ulteriore.
Spoiler Alert è una pellicola “dramedy” romantica, spiritosa e dalla struttura narrativa originale, portata in scena con gusto e con al centro una coppia di attori molto affiatati e coinvolti nella parte. È un film che può sembrare un po’ strano, almeno fino a che entriamo davvero nel punto di vista del personaggio di Parsons, ma è un film che può infine conquistare e anche commuovere. Portare i fazzoletti.
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