martedì 27 giugno 2023

Olga - in fuga per le Olimpiadi: la nostra recensione del film di Elie Grappe che racconta l’Ucraina degli ultimi anni dal punto di vista di una sua ginnasta olimpica

Siamo nel 2014 a Kiev, in Ucraina, all’inizio della cosiddetta “rivoluzione della dignità”. Il presidente Yanukovych non aveva firmato lo storico accordo che avrebbe reso il paese più vicino all’Unione Europea e il paese andò in subbuglio. Piazza Majdan divenne l’epicentro degli oppositori al governo e tutta la città si riempì di barricate e inni rivoluzionari. Poi arrivarono le cariche dell’esercito e lo scontro civile. Fu l’inizio di una sanguinosa guerra civile che quindicenne ginnasta Olga (Anastasia Budiashkina) non poteva vivere in prima persona, perché si trovava ad allenarsi alle parallele in una palestra in Svizzera. Poco tempo prima era rimasta infortunata alla gamba a causa di un incidente in auto in cui guidava la madre Catherine (Stephanie Chuat). Catherine era una giornalista che si opponeva al governo, l’incidente era stato a tutti gli effetti un attentato e la ragione che le spinse a mandare la figlia lontana in Svizzera, paese di origine del padre, per sua incolumità, per riprendersi e completare con più tranquillità gli allenamenti in vista dei campionati europei di ginnastica artistica. In quel paese sconosciuto Olga faticò a trovare nuove amiche: troppo rigida o poco sorridente, troppo concentrata o poco festaiola, veniva considerata “il classico robot anaffettivo dell’est”. Anche gli allenatori svizzeri non capivano tanta dedizione per gli esercizi quanta poca cura nei rapporti umani. Anche i parenti del padre la guardavano con commiserazione, non perdendo occasione per rimproverare la eccessiva passione per il giornalismo della madre, con tali parole di fuoco che Olga non riusciva a stare in loro compagnia. Era “sola” in tutti i giorni del suo esilio, dall’alba al tramonto, chiusa in quel centinaio di metri che separavano il suo alloggio dalla palestra. Sola con la sua passione, da vivere a testa bassa e muso duro, Olga si concentrava solo sul rimettersi in forma e perfezionare tra mille cadute la complessa evoluzione chiamata “Jeager”. Ogni tanto tramite internet arrivavano dalla sua vecchia compagna di squadra e amica Sasha (Sabina Rubtsova) aggiornamenti su quanto avveniva a Kiev. Si parlava di grande fermento e atti di eroismo, ma anche di momenti drammatici che avevano cambiato per sempre la vita di tutti. Anche la vita di Sasha sarebbe per sempre cambiata, dopo averle fatto scoprire l’odore della carne bruciata dalle molotov.  Qualche volta pure la madre si faceva sentire da Olga di sfuggita, tra un bombardamento, una rissa e un soggiorno in ospedale, con il volto spesso trasfigurato dalle botte. La ginnasta incassava tutto e non poteva fare altro che andare dritto per la sua strada. Anche il suo vecchio allenatore ucraino, cui era molto legata, ora faceva una vita diversa. Dopo la rivoluzione aveva “tradito” la nazionale ed era finito ad allenare le ginnaste della Federazione Russa, nel biasimo generale della squadra. Battere le russe ai campionati poteva diventare quindi per la ginnasta qualcosa di simbolico: un atto di sport ma anche di politica. La dimostrazione che potevano averla spezzata ma non l'avevano ancora sconfitta. Ma per Olga quel campionato poteva essere anche un atto di emancipazione: la volontà di distaccarsi da tutto quel “mondo” che aveva cambiato per sempre la sua vita. Allenamento dopo allenamento aveva iniziato a fasi capire e apprezzare. Aveva nuove amiche. Per questo Olga avrebbe gareggiato, ma come ginnasta svizzera, fino a che fosse stata un grado di scegliere il modo giusto di ricomporre la sua vita. 


Nel 2021 la regista svizzera Elie Grappe esordiva al cinema con questo film che racconta una storia di sport, adolescenza, sradicamento e guerra civile. Un film che oggi, dopo l’inizio della guerra tra russi e ucraini, testimonia in modo quasi profetico il doloroso percorso umano (prima ancora che politico) che ha portato agli ultimi eventi. Si racconta, “dentro  lo sguardo” profondo e doloroso di una ragazzina ferita, di una Kiev sotto assedio in cui gli animi sono già pronti a esplodere e dove la violenza ha iniziato a riempire di sangue le strade, muovendosi quasi casa per casa, trasformando in Nemico persone conosciute da anni. Una violenza di cui noi Italiani e l’informazione internazionale in genere siamo stati inconsapevoli fino a un paio di anni fa. Olga è interpretata da una bravissima attrice non professionista, una vera ginnasta ucraina che in questo momento storico è proprio in Ucraina a combattere, non solo “attraverso l’arte” ma anche in prima linea. Quasi l’intero cast è composto da vere ginnaste e allenatori, ucraini e svizzeri, scelti dalla Grappe perché possano parlare con la loro esperienza diretta dello sport quanto, sul lato ucraino, del fatto di essere umanamente, da anni e in prima persona, coinvolti in un conflitto che si trascina da fin troppo tempo, quasi nell’indifferenza dell’Occidente. La Olga di Anastasia Budiashkina, dal fisico ancora acerbo per quanto scolpito, affronta con rigore militare ogni esercizio della sua complessa preparazione, così come riesce a svelare quasi di nascosto, con assoluto pudore e compostezza, tutto il turbinio di emozioni che tiene represse, pronte a esplodere solo attraverso il gesto agonistico. Ha lo sguardo severo e malinconico, usa poche parole anche per le difficoltà della lingua diversa che deve usare nel suo “esilio svizzero” e sceglie per comunicare con il mondo di concentrarsi solo sui movimenti. Osservando anche i movimenti delle compagne di squadra passa così anche al “coaching”, aiutando le altre ginnaste, sostenendole  e instaurando così i primi rapporti con il nuovo gruppo. Per un attimo il personaggio di Olga ci fa credere che lo sport possa diventare davvero una specie di linguaggio, universale quanto inclusivo. Per un attimo sembra possibile che lo scontro civile tra russi e ucraini si possa vincere sul piano dello sport come in quella metafora anni ottanta della guerra fredda che fu Rocky IV, ma il film sente amaramente la necessità di andare oltre, raccontandoci la guerra. L'amica di Olga, Sasha, ginnasta rimasta a Kiev interpretata da Sabina Rubtsova, sceglie di rinunciare a esibirsi nel campionato e questo crea un forte cortocircuito emotivo che blocca questa forma di comunicazione. Sasha rinuncia “per lanciare un messaggio al mondo”, ma questo gesto cade nell’indifferenza generale di chi quella guerra civile non la conosce e vuole solo vedere della ginnastica. Un gesto che quindi è visto “dall’estero” come folle, come viene tacciata per “matta” la madre di Olga, che rimane sul campo di Kiev a documentare lo scontro civile invece che scappare all’estero “da brava madre”. Olga vive anche l’impotenza di non poter prendere un aereo per tornare nel suo paese, dovendo essere trattenuta “per il suo bene”, come un ostaggio, nella silenziosa e tranquilla Svizzera. Una frustrazione che sale quando il suo ex allenatore passato ai russi la incontra e in modo tragicamente lucido risponde ai suoi sguardi ribadendo che per lui “lo sport non è politica”. Quasi sostenendo che è dunque possibile da un lato rispettare una persona per la sua arte e al contempo accettare la possibilità che venga uccisa, in quanto nemica, per un “bene superiore”. Così  il film della Grappe diventa progressivamente più che un film sullo sport un film sulla impossibilità di comunicare tra le persone: una pellicola più vicina a La messa è finita di Nanni Moretti che a Rocky IV di Stallone. Un film dove ogni tipo di comunicazione va a scontrarsi con mura lucidamente invalicabili. È una lezione amarissima quanto bene rappresentata sullo schermo da una regia sempre sobria e composta, dall’ottima prova delle interpreti e da una costruzione narrativa che predilige la sottrazione al melodramma, lasciando che a esprimere le emozioni “ci provi” il linguaggio universale dello sport. Le corse preparatorie nel cuore della notte, la palestra solitaria, le cadute e i traumi, i muscoli tesi e la volontà di arrivare alla fine di una routine di gara diventano così il titanico e romantico tentativo di dare un senso alla vita: concentrato attraverso i pochi secondi di un esercizio ginnico. Una sintesi unica per la quale Olga è un film che colpisce non solo gli amanti dello sport: metafora di come il mondo perda ogni capacità razionale di comunicazione ed empatia quando si scatena malauguratamente un conflitto. La Grappe arriva in sala con un film oggi più che mai urgente. 

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