Ci troviamo nella collinosa cittadina di Thorton, nello Yorkshire, a inizio dell’Ottocento. Emily (Emma Mackey), la terzogenita figlia del rigido pastore Patric Bronte (Adrian Dunbar), ha sempre la testa tra le nuvole. La sua diligente sorella maggiore Charlotte (Alexandra Dowling) è già avviata all’insegnamento in una scuola prestigiosa, il secondogenito Branwell (Fionn Whitehead) ha già ricevuto dei riconoscimenti per meriti nella pittura e scrittura presso la Royal Academy of Art ed Emily è ancora in giro per casa, quasi incapace di affrontare il mondo e la scuola, spaventata dallo studio e dalle compagne di corso, perennemente avvolta in un mondo tutto suo. Un mondo fatto di strane storie fantasiose che inventa mentre ascolta la natura o gioca a rotolare giù da una piccola collina come una bambina. Ormai anche la sua sorellina più piccola Anna (Amelia Gething), l’unica davvero sempre avida nell’ascoltare le strane storie di Emily prima di dormire, sta diventando più adulta di lei. Padre Patric è sconfortato, fino a che appare a Thorton un giovane curato di nome William Weightman (Oliver Jackson-Cohen). È un uomo intelligente e integerrimo, affascinante e ancora in cerca di moglie. Subito desta l’interesse di molte ragazze del luogo tra cui Charlotte, ma Patric vede in lui soprattutto l’insegnante di francese ideale per Emily. Tra Emily e William nasce una strana chimica che presto si trasforma in un sentimento consumato, clandestinamente e sempre meno saltuariamente, all’ombra di una casetta diroccata tra i boschi. Oltre alla bellezza, Emily attira William soprattutto per le poesie che lei gli dedica. Sono potenti quanto sfacciatamente erotiche e l’uomo le conserva avidamente di nascosto, spronandola a scriverne sempre di nuove. Molto affascinato dalla nuova scrittura “più adulta” di Emily è anche suo fratello Bran, che da qualche tempo ha lasciato la scuola per vivere nello spirito degli autori bohémienne, a contatto con la natura e i bar. Con Emily, Bron si diverte ad andare a bere al pub ma anche ad osservare i suoi vicini di casa. È una cosa divertente anche se un po’ matta e morbosa, che i due condividono spesso di notte, osservandoli dal giardinetto al di là della finestra che dà sul soggiorno, acquattati nel buio. Guardano i loro vicini di casa che mangiano e si inventano storie su cosa si dicano, fanno casino fino a che vengono inevitabilmente scoperti e costretti a scappare di nascosto dai cani mandati al loro inseguimento. Emily si sta divertendo scambiando poesie con Bran e “giocando” William, ma il tempo passa e le cose si fanno sempre più strane e distorte, il suo rapporto con il curato non sembra andare da nessuna parte e Bran sembra sempre più perso dietro alla sua bottiglia di alcol. Alcuni eventi drammatici cambieranno presto per sempre la sua vita, ma al contempo Emily sta maturando la voglia di scrivere qualcosa ancora di nuovo, magari un romanzo. Forse un giorno il padre inizierà a guardarla non come una specie di fallita e lei troverà il suo posto nel mondo e lontano da Thorton.
L’attrice e sceneggiatrice Frances O’Connor esordisce alla regia con questo dramma in costume che interpreta la vita della scrittrice Emily Bronte come un percorso emotivo simile a quanto descritto dal suo unico romanzo, il capolavoro Cime Tempestose. Thorton è ritratto come una serie di casette affastellate in un luogo dalla natura lussureggiante, ma perennemente tempestosa e piovigginosa, in cui le sorelle Bronte (che diventeranno tutte celebri scrittrici), tra drammi e momenti di gioia, incespicano continuamente tra gli alberi e la terra scoscesa con i loro vestiti ottocenteschi: rotolando ridendo a valle o cadendo rovinosamente per essere inciampate in un ramo in un momento complicato. È come se la natura benigna/matrigna di quei luoghi avvolgesse i personaggi guidandone invisibilmente i passi, e così il processo creativo di Emily viene tradotto in un continuo incontro con il vento e le foglie cadute, nelle corse a perdifiato lungo le colline e nella malinconia nell’ascolto della pioggia, per lo più lontano dal rigore istituzionale dei sermoni paterni. Fino a che con la stessa naturalezza, innocenza, ingenuità e sfrontatezza, l’autrice arriva a descrivere gli incontri amorosi tra i corpi di due persone che si amano: diventando a tutti gli effetti, all’ombra della rigida educazione religiosa della sua famiglia, una delle penne più trasgressive dell’epoca. Emma Mackey trasmette con molta spontaneità emotiva e passione tutti i sentimenti che prova Emily in questo processo di emancipazione, che la porta a diventare in breve tempo da bambina a donna, riuscendo a cogliere il cambiamento sia sul piano espressivo quanto fisico, dando prova di una ottima interpretazione, complessa quanto riuscita. Anche la sorella “apparentemente austera” Charlotte, interpretata dalla brava Alexandra Dowling, cambia in ragione del cambiamento di Emily, arrabbiandosi furiosamente con se stessa e il mondo (ma soprattutto con la sorella) per non essere in grado di fare altrettanto “lasciandosi andare”. Charlotte è perennemente inquisitrice, contratta e incazzata e per questo nei modi brutali quasi eccessiva, buffa: come se questo difficoltà nella gestione dei sentimenti la rendesse di fatto più fragile e bambina di Charlotte. Buffo ma pure un po’ inquietante è pure il Bran di Fionn Whitehead, che vive un percorso di dissolutezza che ne conferma più fragilità che “grandiosità maledetta”. Rigido per stile di vita più che per indole, e per questo interiormente dilaniato, è invece il curato William, che l’attore Oliver Jackson-Cohen interpreta in perenne sottrazione, quasi fosse un personaggio che cerca disperatamente di diventare invisibile a tutti senza riuscirci, patendo continue crisi dietro una facciata di accomodante controllo e compostezza. All’opposto il capofamiglia Bronte portato in scena da Adrian Dunbar è gigante e dispotico, grandioso quanto quasi anaffettivo, alla continua ricerca di una auto-celebrazione che vive attraverso i successi dei suoi figli. Un moloc con cui ogni figlio e ogni abitante di Thorton fatica a confrontarsi senza prima riverentemente genuflettersi. Sono tutti personaggi molto complessi, quanto incredibilmente ben scritti e diretti da una O’Connor che si dimostra fin da questa prima prova un'autrice davvero completa, decisamente da tenere d’occhio anche per le sue opere future. Una autrice che per creare questi personaggi è in grado di spremere al meglio ogni attore fino a rendere unica ogni interpretazione, quanto di fare fondo a tutta la magia del cinema per raccontarli al meglio. Abbiamo già accennato alle meravigliose location naturalistiche che anche grazie alla fotografia dai colori tenui di Nanu Segal riescono quasi a dialogare “sensorialmente” con l’interiorità degli interpreti, a questo aggiungiamo scenografie e costumi in grado di trasportarci in un ottocento pieno del legno lucido e scricchiolante delle case quanto l’acciaio sferragliate delle ferrovie e il fumo dei pub. La colonna sonora, avvolgente e gentile ma carica di “scoppi drammatici potenti” è ad opera di Abel Korzeniowski, che ricordiamo di recente per l’horror The Nun ed è qui una scelta azzardata quanto vincente, a tratti simile nell’impatto al lavoro di Jonny Greenwood per il film Spencer. L’editing ordinato ma sempre in grado da un momento all’altro di farsi sincopato e sensuale è ad opera di Sam Sneade, già conosciuto per il ritmo tra l’austero e il sensuale de La favorita e per il modo in cui passava dalla calma al caos nel cult con Ben Kingsley Sexy Beast. Tutti i comparti funzionano e i centotrenta minuti di Emily volano in un attimo, coinvolgendoci in una storia apparentemente semplice, ma che proprio in ragione di questo peculiare lavoro artistico risulta carica di mille dettagli e sfaccettature tutte da esplorare e scoprire. Un’opera che non passerà inosservata di un'autrice che non passerà inosservata. Bravi tutti.
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