sabato 17 giugno 2023

Daliland: la nostra recensione dell’ironico e malinconico, epico e psicanalitico film sulla vita del grande pittore Salvador Dalì. Diretto da Mary Harron, regista di American Psycho e interpretato magistralmente da Ben Kingsley

C’era una volta un uomo che con la sua arte e sensibilità sapeva dirigere le onde del mare come un’orchestra. Poteva quasi disciogliere il tempo e riusciva a trasformarne con il suo sguardo ogni donna in una dea. Era il grande Salvador Dalì (Ben Kingsley), genio e rockstar incontrastata dell’arte, conosciuto e amato da grandi e bambini, cullato da ogni salotto artistico e aristocratico quando dalla tv commerciale. Un uomo forse anche in possesso delle chiavi per poter accedere ai party più incredibili e trasgressivi di New York: quelli che si tenevano in uno dei più lussuosi piani del più lussuoso albergo della città. Feste che duravano giorni a cui partecipavano anche Alice Cooper, Andy Warhol e lo stesso Gesù di Nazareth: nel senso dell’attore Jeff Fenholt (Zachary Nachbar-Seckel) protagonista nel ruolo di messia del musical Jesus Christ Superstar. Si dice che Dalì stesso provvedesse al mantenimento “terreno” di Gesù, albergo ed extra compresi, per conto dell’unica persona al mondo che lui riteneva più grande: sua moglie Gala (Barbara Sukowa). Gala lo aveva accolto nella sua vita quando era giovane (da giovane Dalì ha il volto del bravo Ezra Miller), in una bellissima giornata di sole. Gli era stata quasi portata dal mare e da allora lo aveva amato e guidato, mentre altri lo credevano solo un pazzo. Dalì le aveva dato il suo cuore e le chiavi della sua sanità mentale, designandola come amministratrice unica di ogni sua pur piccola decisione: amante, moglie e madre, sua dea e padrona, per sempre. Con questo compromesso , una certa briglia sciolta di Gala, era così diventato un uomo felice, in grado di realizzare ogni suo sogno e opera di ingegno. Un uomo che poteva sedurre chiunque lo incontrasse, pagare il ristorante con un “autografo” che sarebbe stato rivenduto a caro prezzo, circondarsi perennemente di ninfe. Ninfe moderne/amanti/ancelle come l'aristocratica “Ginestra” (Suki Waterhouse) e la solare “Amanda” (Andreja Pejic). Ma nonostante la grandezza, l’amore, la fama, i soldi e la vicinanza diretta con il figlio del Padre Eterno, talvolta non era comunque facile essere Dalì. 

Ogni tanto anche un genio come lui “si bloccava”, con le mani che non riuscivano più a orientarsi correttamente sulla tela. Dalì temeva allora l’ira funesta di Gala. Viveva così sempre più spesso le emozioni in modo forte e contraddittorio. Se gli affari non andavano bene, doveva per Gala dipingere di più, sempre di più per sostenere il piccolo mondo di nani e ballerine in cui vivevano, la sua “Daliland”. 


A New York, nel 1974, presso l’appartamento di lusso del Saint Regis Hotel dove aveva momentaneamente sede legale “Daliland”, arrivò così San Sebastiano (Christopher Briney). Si faceva chiamare “James”, diceva di essere assistente di una galleria d’arte ma c’era effettivamente di più: sapeva guardare Dalì con un occhio diverso da tutti gli altri. Sapeva riconoscere il differente stile con cui il pittore rendeva unica ogni sua firma sugli assegni e autografo, come fosse un piccolo originale regalo, un‘opera personalizzata. Da qualche tempo gran parte del lavoro di Dalì consisteva in firmare litografie, in quanto il tempo non bastava mai e non avrebbe mai avuto più la capacità di produrre tutti i quadri e sculture che servivano a mantenere il suo piccolo mondo. In quelle piccole firme c’era un Dalì che non si piegava alle logiche da catene di montaggio delle repliche e James lo aveva colto: San Sebastiano conosceva il martirio che lui viveva e poteva volergli bene. James lo avrebbe seguito anche nelle successive sedi di Daliland, ma avrebbe dovuto fare i conti anche con uno sfuggente e meteoropatico Gesù e soprattutto con Gala: una donna ormai indurita dagli anni e forse diventata incapace di amare, ma al cui volere il pittore che dirigeva le onde e controllava il tempo non poteva opporsi.

La regista di Ho sparato a Andy Warhol e America Psycho (vero manifesto sociale del “post yuppismo”), Mary Harron, dirige un film scritto da John Walsh: suo sceneggiatore nella serie Netflix L’altra Grace, ispirata a una storia vera tra cronaca nera e psicologia, ma anche autore di un corto su Armani e regista di seconda unità di The Notorius Betty Page. La fascinazione comune della Harron e di Walsh per la cronaca, la società dell’immagine, la psicologia e alcune delle figure più iconiche della storia recente, li ha portati così a scegliere il camaleontico Ben Kingsley per celebrare, umanamente e “mitologicamente”, prima ancora che artisticamente, una delle più controverse e amate icone del novecento. L’intento era raccontare  l’uomo nel suo essere fragile quanto “dionisiaco”, scegliendo un periodo della vita del grande artista particolarmente turbolento e caotico, ma anche incredibilmente affascinante, “pantagruelico e luculliano”, da tragedia greca ma con le luci psichedeliche e psicotrope della rivoluzione e contro-cultura hippy. Kingsley indossa i baffetti arricciati di Dalì con la stessa eleganza con cui inforcava i rotondi occhialini di Ghandi, fondendosi in tutto e per tutto con l’icona. Quasi posseduto dal suo spirito, il pittore rivive in lui nello sguardo pungente, nei movimenti eleganti quando nell’eloquio magniloquente ma non superficiale, tra grandiosità e fragilità, eccentricità e sensibilità. Più che un uomo un titano ferito, perennemente incatenato al destino ingrato che lo lega emotivamente e forse subdolamente a Gala, una donna descritta in modo altrettanto “imponente”, matrignamente divina, dalla eccezionale Barbara Sukowa, che fu già nel 1981 (a pochi mesi da Ghandi di Kingsley) la fatale ammaliatrice Lola per Fassbinder, per essere poi la diabolica scienziata/dittatrice dell’Esercito delle 12 scimmie di Gilliam. Vedere insieme Kingsley e la Sukowa a impersonare Gala e Dalì ci proietta nella tragedia greca: con Dioniso e le sue baccanti che devono fare quasi i conti con la divina madre di tutti gli dei, la vendicativa (chiedere a Hercules...) Era, nel momento di “massimo sgarro”: la mancanza di tributi in denaro. Alla tragedia il plus da “estasi mistica pop” in cui come coprotagonisti intervengono lo sfuggentissimo e inconcludente Gesù del musical hippy Jesus Christ Superstar, “alleato di Gala”, che dialoga sul successo insieme al “compassato e luciferino” Alice Cooper, alleato del rock quanto di Dalì. È un’estasi per cui uno stagista di una galleria d’arte belloccio è trasfigurato da Dalì in San Sebastiano: per similitudini fisionomiche e artistiche con il San Sebastiano di Mantegna o del Perugino, ma anche quasi con un tocco da allucinazione fantozziana. 


C’è il piano epico e il piano mistico, ma al di sotto c’è anche tutto un universo psicanalitico che la regista e lo sceneggiatore da sempre amano rappresentare con dovizia di dettagli anche da “addetti ai lavori”, che rende la costruzione di questi personaggi ancora più gustosa. 

Mentre i “giganti”, Gala e Dalì, combattono su un piano tragico irraggiungibile, come Godzilla contro Mothra, tra bene e male, ordine e caos, noi spettatori li guardiamo un po’ da lontano mettendoci nei panni proprio del simpatico San Sebastiano/James di Briney. Un ragazzo intraprendente ma dall’aria gentile, coscienzioso ma anche con voglia di sperimentare cose nuove, che come il protagonista del musical Hair (versione cinema) viene subito gettato “in pasto a Daliland”, tra le “ninfe di Dalì“ e un universo di colori e suggestioni nuove, sedicenti e seducenti. Una esperienza psichedelica ma anche umanamente strana. La “Ginestra” di Suki Waterhouse è una donna ammaliante come la Venere di Milo il cui fondoschiena può essere dal grande pittore usato come pennello per arte d’avanguardia, ma al contempo dietro a tanta maschera soave e maliziosa è una ragazza bene della New York alto borghese: è una musa part-time e forse pure hippy part-time. La Amanda Lear di Andreja Pejic ricorda invece molto per fascino, simpatia e sensibilità, l’amatissima soubrette nota anche in Italia: è un personaggio solare e accogliente che vive davvero fuori dagli schemi, simile a una musa classica, quasi una eroina moderna. Il rapporto che le due musa hanno con James viene spesso “spiato” da Dalì, come gli dei greci spiano “le vicende umane” nei miti. Si creano così  strane triangolazioni e suggestioni, emotive ma anche erotiche, che permettono all’artista di evadere dalla gabbia psicologica/morale in cui Gala lo ha infine rinchiuso insieme all’Onnipotente del musical, permettendo al contempo a James di avvicinarsi a lui, diventando quasi un suo possibile e seppur momentaneo “alter ego”. Quanto più James si avvicina a Dalì, tanto più riusciamo a cogliere il processo creativo delle opere del grande artista. Opere che vengono alla luce in momenti di vivace ribellione quanto in stati quasi di estasi, dove la natura che circonda il pittore sembra rispondere ai suoi stimoli fino a riplasmarsi, assecondandone fantasia e amore.  Non vediamo le opere di Dalì se non a livello di “idea”, in momenti lisergici quanto onirici, ma se dopo il film le approcciassimo ne scopriremmo forse un po’ di più l’intima poetica e tormento, la bellezza come l’angoscia, il modo austero come convivano in loro ordine e caos: Gala e Salvador. Questa è la magia del film di Mary Harron: la capacità di raccontare l’arte cercando di accedere alle persone e alla loro psicologia, al di là di un elenco di mostre e riconoscimenti come troppi film biografici continuano ancora  a fare.

Daliland è un film che in breve tempo conquista grazie alla sfarzosa quanto accurata messa in scena, la straordinaria interpretazione di Kingsley e della Sukowa, un ritmo travolgente e una storia raccontata in modo affascinante, tra l’epica, la religione, l’arte  e la psicanalisi. È il film ideale per approcciarsi alle opere di Dalì ma anche un’opera a tutto tondo, complessa quanto intrigante. Sullo stesso ideale solco di Amadeus, un ottimo modo per raccontare l’arte al cinema. 

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