Il motel dei Gufi Notturni, sulla
statale 55 a due passi da Las Vegas, è il luogo di incontro ideale se si cerca
amore clandestino con donne corpulente o incontri allucinati con cattivissime
mistress bisessuali amanti di frustini. Con camere isolate e abbastanza pulite,
parcheggio interno accessibile anche ai camion e una bella piscina esterna con
annesse sdraio, è il posto migliore per appartarsi e c’è pure un piccolo extra
per chi gestisce la baracca. Una comoda ed ergonomica postazione per guardoni
dietro lo specchio della stanza numero 10, nascosta tra le tubature sopra il
magazzino. Un luogo che il vecchio gestore sosteneva di aver ricavato per
“esperimenti sociali” nello studio delle relazioni delle coppiette clandestine,
senza essere però mai riuscito a divulgare un testo scientifico
sull’argomento.
Lo sceriffo locale, Howard (Marc
Blucas), è un tipo abbastanza invadente che gira per il motel come un
calabrone, pretende di avere caffè gratis alle sei di mattina e di essere
intrattenuto h24 mentre racconta storie truci. Lo staff della attigua officina
sembra particolarmente sinistro e mai effettivamente al lavoro, con meccanici
dai tratti lombrosiani che preferiscono in ogni momento fissare la strada e il
motel in modo ossessivo con ghigni malefici. La donna delle pulizie, Eva, fa
entrare dentro chiunque e conosce solo una parola con cui gestisce ogni tipo di
conversazione: “bueno”. Il vecchio proprietario, l’anziano “scienziato
sociale” Ben (Bill Bolender), ha venduto la proprietà di colpo, con un
annuncio su una rivista, ed è subito sparito in modo misterioso, risultando
rintracciabile solo in modo complicato in luoghi ameni del deserto attraverso
dei giri di telefonate. Ma nonostante tutte queste cose e una clientela
effettivamente non proprio di lusso, i Gufi Notturni potrebbe essere il
perfetto luogo tranquillo in cui una coppia in crisi dopo un lutto
inaspettato, Ray (Nicolas Cage) e Maggie (Robin Tunney), può pensare di “ricominciare”.
Un nuovo lavoro e forse una nuova vita. Lui è occhialuto, malandato,
scazzato ma lavoratore. Un tuttofare un po’ misogino ma che si può svegliare
all’alba e tirare le due di notte. Lei è attiva nel gestire le scartoffie ma
una totale Rompipalle. Insieme si completano e “tengono botta”. Almeno fino a
quando una notte Ray trova nella piscina esterna, per l’occasione grondante
sangue, un maiale squartato e “farcito” con un biglietto di carta con
sopra scritto solo un nome misterioso: Crissy. Chi è o era Crissy? Ha a che
fare con la veloce sparizione dello scienziato sociale? È il nome della
mistress che dispensa frustate o del donnone corpulento che allieta i
camionisti locali? È tutto uno scherzo di quei mattacchioni psicopatici della
rimessa d’auto? Non sarà una scusa per lo sceriffo di iniziare delle indagini e
non andare mai più via dall’hotel? Sia come sia, “Crissy“ dà comunque inizio a una escalation di fatti strani e inaspettati “più del solito”, scoprendosi
essere il nome di una donna che sembra essere stata trovata morta proprio in
quella piscina, alcuni mesi prima. Ma è anche l’inizio di una nuova crisi di
coppia, visto che Ray è sempre più attratto e attivo nello spiare la vita
delle altre persone da dietro quel sordido vetro misterioso, nascosto tra i
tubi, di cui la moglie è del tutto all’oscuro. Chissà che proprio quella
stanza segreta potrà essere la chiave per risolvere ogni problema. Ma
probabilmente finirà malissimo.
Musica Cronenberghiana, paesaggi notturni illuminati al neon, le anonime camere di un motel tutte uguali e fatiscenti e un’atmosfera malsana, sensuale quanto pericolosa, in cui tutti si sentono osservati da qualcuno, genericamente pazzo. Sono questi gli elementi alla base di questo piccolo, piccolissimo thriller, che strizza l’occhio a La finestra sul cortile con James Stewart (mi scuso con gli eredi di Hichcock per averlo tirato in causa) e in qualche modo “ri-specchia” il meccanismo narrativo alla base di un’altra celebre pellicola dello stesso anno: 7 sconosciuti a El Royal di Drew Goddard (mi scuso con lui e famigliari per averlo tirato in causa). C’è un po’ di giallo e mistero venato di una leggerissima e timidissima aura “trasgressiva” in questo senso. Più che sugli abbastanza artificiali e poco “spiati” show a base di frustini, la pellicola sembra focalizzarsi sulle chiappone tristi amate da un malinconico camionista che amerebbe Elim Kusturica (mi scuso con Emil, famiglia e popolo balcanico per averli tirati in ballo). C’è un po’ la voglia di giocare con l’assurdo urbano che tanto ama Lynch (mi scuso con Lynch per averlo tirato in ballo). C’è in questo magari un po’ di quello straniamento del dover “vivere in un non-luogo fatiscente” che ci riporta a Barton Fink dei Cohen (mi scuso con i fratelli Cohen e con la moglie di uno di loro, Francis McDormand che potrebbe offendersi per il paragone), con quel giovane John Turturro (mi scuso con il grande attore per averlo citato) che continua a re-incollare la carta da parati che si scolla mentre John Goodman (mi scuso con questo altro grande attore per averlo citato) lo fa impazzire. Cage si sente molto Barton Fink qui e Blucas con il suo sorriso, presenza inquietante e brocca di caffè sempre in mano è il suo Goodman. Lui ha la brocca e Cage prima o poi “sbrocca”, come da tradizione dei suoi personaggi cinematografici più amati. È chiamato a incarnare qui il più classico degli everyman alla John Cusack (Cusack che nella sua carriera “non farà il Cusack” nel Cacciatore di Donne, proprio con a fianco Cage, sarà il destino? ), il bravo ragazzone di famiglia trascinato dal caso in una realtà kafkiana (mi scuso con gli eredi di Kafka per il paragone) carica di tragici matti e sinistri predatori in agguato, ma Cage si inventa un film tutto suo. Il suo Ray è spettinato, ha sempre l’aria di uno che ha dormito poco e non è particolarmente “buffo”, prenderebbe a calci dei ragazzini. Si comporta con gli avventori con un misto di supponenza e fastidio, si arrabbia con i poliziotti e con chi lo guarda storto, si fa subito sgamare dalla mistress, è fumantino perché non scopa. È losco e umanamente antipatico e forse anche per questo più interessante della media dei protagonisti che ci si aspetta da una pellicola del genere. Ci si affeziona a questa sua imprevedibilità e lo si segue nelle “umane disgrazie” che lo portano ad avvicinarsi fantozzianamente ad un mondo proibito che presto lo soverchia, lo ribalta e gli fa abbassare la cresta. Di certo il nostro eroe non viene quasi in nulla compreso o assecondato da una moglie monolitica. Una Robin Tunney vista in The mentalist che qui si cuce addosso un personaggio un po’ monocorde e petulante, acidino e poco propenso all’intimità, ma che alla fine è l’unico personaggio davvero risoluto e risolutivo della vicenda. Non c’è intesa tra loro e va bene così. Con Ray che non tromba e va a sublimare costruendo oggetti in legno nel magazzino, prima di scoprire il posto per le “ricerche sociologiche”.
Marc Blucas esce da Braw in The cell 99 con Vince Vaughn e arriva il Looking Glass con la stessa grinta, schiantandosi contro un Cage che a poco lo ignora e va bene così, perché il film è tutto matto. Il regista Tim Hunter, con alle spalle molti episodi di Breaking Bad, Carnivale e Law & Order, non dirige molte pellicole (se sono tutte così ci sarà un motivo), ma ha mestiere (almeno quello). La storiella scritta da Jerry Rapp è forse il vero tallone d’Achille di Looking Glass, insieme a una produzione poco lungimirante che punta al filmetto del pomeriggio mentre avrebbe fatto faville con Tinto Brass (mi scuso con Tinto Brass per averlo tirato in ballo nella recensione di questo filmetto). Questo è Looking Glass, spogliato delle buone intenzioni. È un thriller potenzialmente erotico che non vuole essere troppo thriller erotico. È una storia surreale-esistenziale che non vuole essere troppo surreale. È come un motel sull’autostrada che guardiamo di sfuggita certi di non doverci fermare e di cui poi ci dimentichiamo puntando al Camogli del primo autogrill. È un peccato perché Cage e Blucas sono in forma e Hunter ha tanta voglia di girare lucine soffuse e stanze di albergo sinistre, strapiene di personaggi matti alla Lynch (mi scuso di nuovo con il signor Lynch e famiglia per averlo citato nuovamente). Ma non ce ne è abbastanza, è mancato qualcosa, è tutto troppo trattenuto. Servivano più tette, più maiali in piscina e nelle stanze del motel, più carte da parati che si sciolgono, più donne delle pulizie che dicono “bueno” (cosa farebbe Tarantino con un personaggio come Eva? La nuova Jacky Brown forse… e mi scuso anche con Tarantino ecc. ecc..) e più camionisti affascinati dai sederi corpulenti. Qualche volta anche Cage non ce la fa. È una cosa con cui dobbiamo fare i conti ma che non ci fa desistere dall’adorare Cage comunque. Ci sarà sempre un altro film all’orizzonte con lui protagonista e potrebbe essere un capolavoro dell’assurdo. Looking glass è troppo normale.
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