Il giornalista radiofonico Johnny (Joaquin Phoenix) gira l’America per intervistare bambini e ragazzi sulle
sensazioni che hanno in merito al futuro. Tra le tappe principali del
viaggio, ci sono tre metropoli per Johnny dall’alto contenuto simbolico.
La città del “futuro deluso”: una Detroit che dopo il boom dell’industria
automobilistica è calata nella povertà e degrado. La città del “futuro
sognato”: una New York che ha accolto da secoli e ancora accoglie i migranti del
mondo. La città del “nuovo futuro”: una New Orleans che offre spesso la
possibilità di ricominciare una vita, ma si sta con il tempo trasformando in
una sequenza infinta di Bed and breakfast. Attraverso le voci e l’energia
positiva dei bambini che vivono in questi luoghi, spesso in contesti carichi di
degrado, bullismo e malattia, Johnny spera di superare il terribile lutto della
recente scomparsa di suo figlio. In questo viaggio sarà presto accompagnato da
Jesse (Woody Norman), un ragazzino che un po’ per caso e un po’ per sfortuna
gli viene affidato e che inizierà ad affezionarsi a lui, assistendolo nelle
interviste.
Come vede un adulto il futuro, oggi?
Una volta, pensando per esempio al
cinema di fantascienza, immaginavamo in positivo astronavi che ci portavano
su nuovi pianeti, città in pace e pieno di grattacieli, l’energia pulita, i
robot protocollari. Qualche volta immaginavamo pure in negativo, con il mondo
mezzo distrutto dalle bombe atomiche e dalla fine delle materie prime. Oppure
un mondo con l’umanità ai margini, dove l’empatia si era trasferita sui robot
che piangevano per la loro data di scadenza accarezzando colombe. Ogni tanto
sognavamo di miniaturizzarci finendo vittime di insetti giganti, ogni tanto
sognavamo di tornare indietro nel tempo senza essere in grado di cambiare il
mondo in meglio. Oggi non sogniamo più niente attraverso la fantascienza, se non la fuga in qualche mondo fantasy o supereroistico virtuale, da
vivere attaccati costantemente ad una macchina che ci fa da catena/cordone ombelicale:
lo specchio di come stiamo attaccati al cellulare già ora, incapaci di
spegnerlo anche se siamo davanti a qualcuno con cui stiamo parlando o stiamo
giocando a pallone. A questo “chiudersi in se stessi”, tra le braccia della
tecnologia o tra le braccia virili di qualche supereroe, può corrispondere una
paura davvero maledetta e infinita del domani. Qualcosa di annichilente. È come
se il domani per colpa nostra “non ci fosse più” e non possiamo che cullarci con i
sogni del passato, come quello di un pianeta di sabbia già immaginato una
cinquantina di anni fa. Se avessimo agito diversamente, senza troppo delegato
ad altri, forse quello di oggi sarebbe un mondo meno povero, inquinato,
violento. Ma questo alla fine è solo un circolo vizioso, un infinito rimpianto
che non riusciamo a colmare che ci rende immobili nel presente, pronti solo a
piangerci addosso all’idea di mondo che consegniamo ai nostri figli in
condizioni davvero impresentabili. Mike Mills con questo suo piccolo ma grande
film è come se “resetti” il cinema, riportandolo al bianco e nero, tra luce e
buio, tra sogno e stupore. Mette al centro della sua narrazione la
possibilità di “sognare il futuro” in modo semplice quanto concreto,
scientifico quanto dimostrabile, attraverso l’occhio clinico e disincantato
del documentario. Un documentario costituito da una serie di interviste vere
realizzate da Phoenix stesso insieme a dei bambini comuni, dove il dato
confortante, che traspare fin dalle prime battute del film, è che i più
piccoli, i “bambini”, seppur fragili in quanto figli di realtà familiari e
territoriali difficili, sanno incredibilmente pensare ancora in positivo al
futuro. È forse una questione di genetica, ciò che fa scorrere più endorfina
nei più piccoli. Oppure è una questione legata a una “giravolta” del processo
psicologico di accudimento, in ragione del quale oggi sempre più i figli si
fanno “genitori dei loro genitori” per poter sopravvivere. Oppure questa
“sorpresa positiva” sul punto di vista dei bambini è la triste conseguenza
sociale del fatto che “non ce ne siamo mai accorti”. Perché non dedichiamo
abbastanza tempo all’ascolto dei più piccoli e seguendo l’ossessione di essere
“bravi genitori” li riempiamo di impegni, compiti e saggi di judo senza curarci
di quello che loro davvero pensino o vogliano fare.
Sta di fatto che è quasi l’uovo d
Colombo il fatto di scoprire, in un mondo di adulti pessimisti,
malinconici e sordi, che i bambini sono davvero gli unici, oggi, ancora in
grado di sognare e di non mollare. Questo cinema che si veste di “indagine sociale sul territorio”, ci mette davanti alla richiesta concreta
delle nuove generazioni di superare le prigioni mentali invalicabili dei
troppi “bla bla bla” degli adulti (come dicono nel film è come direbbe Greta) e
rispondere alle paranoie con uno spiccio “c’mon, c’mon!!!”, che possiamo
tradurre come un incitamento quanto un sollecito. Un “forza, andiamo
avanti nonostante tutto!!”. Quando a una ragazzina delle intervistate si
chiede “quale superpotere vorrebbe avere per vivere meglio”, rispondendo alla
moda del momento dei film sui supereroi (e dei quarantenni bambinoni e un po’
nerd), questa risponde “io sono il mio superpotere! Io farò sentire la mia
voce!”.
Mills dà forma a una pellicola che coniuga questa potente struttura documentaristica a un impianto drammatico che non sembra meno autentico, per la grande bravura degli interpreti, raccontandoci l’incontro tra un adulto e un bambino alla pari, da amici e non legati da un rapporto “padre e figlio”. Phoenix ha lo sguardo triste e assonnato di un uomo devastato dal dolore e dal senso di colpa, che per lui è frutto di un tragico “passato” che lo rende incapace di vedere una qualsiasi forma di futuro. Woody Norman è un bambino che sta in costante movimento, parla senza sosta e viene da una situazione famigliare complessa, ad un passo dall’affidamento e quindi con un enorme problema legato al “presente”. Ma nonostante tutto Jesse è in grado di sostenere e motivare l’adulto più di quanto quest’ultimo immagini, donandogli di riflesso un po’ di quella luce positiva che ha forse perso negli anni. Il bambino deve sostenere l’adulto per sopravvivere nel presente e nel futuro. L’adulto deve spostare la sua attenzione dal passato al presente per riuscire a credere nel futuro, rinunciando al suo eterno rimuginare e compiangersi, per garantire la sopravvivenza del bambino. È una specie di legame “simbiotico-generazionale” creato da una situazione di emergenza, che si sviluppa con naturalezza e complicità, sotto la spinta di diecimila domande concrete e diecimila risposte evasive. In un rapporto carico di piedi in faccia, spazzolini per i denti musicali fastidiosissimi, suoni ambientali carpiti con un microfono (come ne Il Postino di Troisi), favole raccontate prima di dormire e una voglia infinita di conoscersi e capirsi reciprocamente. Prove di una reale vicinanza, segno di un sostegno che appare autentico grazie alla “magia del cinema” fatto bene. Un cinema che si presenta forse in una cornice un po’ fredda, tra il bianco e nero e l’accompagnamento sonoro di stampo sinfonico, ma che sa rendere al meglio il cuore emotivo di una storia che potremmo dire universale, attuale quanto urgente. C’mon C’mon è un’opera che se somministrata a una particolare fascia di pubblico, come una medicina, può far “stare bene”. Un film che può valere più di sei ore di un percorso per riprendersi dalla depressione e che per questo oggi è oltremodo positivo che si trovi in sala. Tra il sacrosanto circo escapista di Jackass e un “revival wannabe” di Bud Spencer e Terence Hill, per farci ancora pensare a quella faccenda un po’ dimenticata del poter sognare un futuro che sia anche per i bambini e insieme ai bambini. Così che in futuro qualcuno riuscirà a immaginare un “dopo”, alla storia dell’uomo dell’era digitale e al suo unico e sterile legame ossessivo/compulsivo con una macchina che lo fa accedere a dei social. C’mon C’mon è un buon motivo per andare al cinema per sentirci parlare dell’importanza di essere umani.
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