(la verità è un’illusione, gli incubi sono reali)
(Sinossi) Siamo alle porte della seconda
guerra mondiale, in una provincia americana umida e rurale concreta e
disincantata che staziona nei pressi della ruota panoramica di una fiera
itinerante con annesso “freak show”. Arriva da lontano con il viso nascosto
sotto un capello, è avvolto in un lungo impermeabile e ha l’aria di uno in
fuga. Ha spalle grosse, fisico asciutto e occhi azzurri, lo straniero da poco
arrivato sotto i tendoni del circo in cerca di lavoro che si fa chiamare
“Stan” (Bradley Cooper). Non è “forzuto” come il capo della
baracca, Bruno (Ron Perlman), o carismatico quanto “Major Mosquito” (Mark
Povinelli), l’uomo-mosca più piccolo del mondo. Non è un ballerino
snodato quanto l’uomo-serpente e non ha certo la verve della donna ragno o il
fascino misterioso della creatura infante a tre occhi rinchiusa in un barattolo
di nome Enoch. Ma lo straniero riesce subito ad affascinare tutti, compresa la
sensuale chiromante Zeena (Tony Collette) che immediatamente si prodiga
per offrirgli un bagno caldo a 10centesimi (in una scena che farà felice il
pubblico femminile più birichino). Stan accetta come accetterebbe ogni uomo
sulla terra in quelle circostanze, però non è troppo preso dalle dolci
attenzioni della donna. Rincorre piuttosto il sorriso triste e il fare
impacciato dalla timida donna-elettrica Molly (Rooney Mara). Ama passare
ore e ore ad ascoltare e imparare dal mentalista Pete (David Strathairn) e soprattutto non si tira indietro quando c’è da entrare in azione per il bene
di tutto il gruppo, se capita di inseguire nella casa degli orrori il
pericoloso uomo-bestia (il Geek), evaso dalla sua gabbia di ferro, paglia e
polli vivi. Stan è un uomo curioso, ricettivo, ambizioso e sembra davvero
credere a tutta la “magia” che scaturisce da quel piccolo rifugio al di fuori
del mondo, abitato da donne barbute, ladri matti e disperati. Giorno dopo
giorno scopre di poter somigliare ancora di più a loro, essendo in qualche modo
portato per diventare anche lui un mago. È una vera svolta, ma l’uomo si fa
presto sedurre fatalmente dalla possibilità di usare le tecniche apprese dal
libro di Pete per ingannare il prossimo, inscenando degli spettacoli di
spiritismo. In preda dell’ambizione, Stan lascerà tutto alle spalle, diventerà
un veggente famoso e troverà sulla sua strada una bionda dark lady (Cate
Blanchett), di professione psicologa, che presto sarà sua complice e lo
condurrà in una tortuosa spirale di potere ed ebbrezza. A un passo dalla
grandezza come dall’autodistruzione.
(Dal libro al film una diversa idea di “magia”) Il noir con venature “magiche” La fiera delle illusioni, scritto nel 1946 da William Lindsey Gresham e che potete leggere oggi in italiano grazie alla Sellerio, ricevette subito un enorme successo in patria e subito una trasposizione cinematografica. L’autore nel suo libro mette in scena una storia abbastanza classica per il genere a base di truffe, manipolazioni e mentalismo, ma più volte sposta la nostra attenzione sul mistero, raccontandoci lo stupore con cui un uomo comune scopre la possibilità di percepire il mondo e le persone in modo più ampio. C’è il mondo del circo con i suoi rituali e segreti, ma anche con la sua profonda umanità. C’è un aldilà muto, da cui le persone più impensabili sono disposte a pagare pur di avere delle risposte. C’è il mondo interiore di ognuno, che può essere messo a nudo dalla psicologia quanto, drammaticamente, da delle banali ricerche statistiche/probabilistiche che poi diventano il pane per manipolare le persone. Sono tre mondi vicini al reale ma per il nostro protagonista nuovi, seppur tutti dipendenti da un mondo ulteriore, il “destino”, che in ogni noir e poliziesco che si rispetti sembra seguire la massima legge di Murphy: “se qualcosa deve andare male, ci andrà”.
Guillermo del Toro è forse uno dei massimi cantori cinematografici dell’immaginario narrativo di Lovecraft, al pari di John Carpenter e del compianto Stuart Gordon. C’è l’inconfondibile ombra del genio di Providence nella sua trasposizione cinematografica dell’Hellboy di Mignola, come tra i mostri abissali di Pacific Rim e gli uomini-anfibi de La forma dell’acqua. Lovecraft, nei suoi racconti, immaginava non solo “mondi”, ma interi universi “oltre il reale e il comprensibile”, mettendo in scena soprattutto il tormento ed estasi di non poter mai decifrare fino in fondo la realtà. Lovecraft non scovava dietro la magia (solo) un “trucco”, quanto una consapevolezza non ancora alla portata della ragione. Per questo motivo, quando ci approcciamo di solito a un nuovo film di Del Toro, in qualche modo pregustiamo il dischiudersi di una precisa finestra sul fantastico, dietro cui ci possiamo aspettare folletti, fantasmi, diavoli senza occhi e creature gigantesche dagli infiniti tentacoli. Creature da sogno e da incubo che proprio per il loro essere “oltre il reale”, spesso trovano cittadinanza in un vicino mondo parallelo: interiore, emotivo oppure onirico. Un luogo di confine “conosciuto e condiviso” anche dalla Fiera delle illusioni Gresham, dove forse non è sempre possibile una via di fuga dalle molte prigioni esistenziali del “reale” (come quelle de Il labirinto del Fauno), ma da cui si può forse ottenere delle risposte più poetiche sul “perché stiamo al mondo”. Non occorre che i mostri siano “mostri reali”, perché non ci sono diverse realtà in contrapposizione. C’è nel libro di Gresham una “boccata di magia” in senso positivo, ma questa si avverte solo all’inizio, al primo contatto di Stan con le tecniche mentaliste, prima che si riveli il “trucco” e su questo aspetto Del Toro cerca di sparigliare il romanzo e farlo suo.
Il regista non è molto interessato alle fughe e inseguimenti con cui
si sviluppa in divenire il libro di Gresham, preferisce legare la pellicola a
doppia corda tanto con la sua idea di “magico lovecraftiano” che alla sua
passione per il romanticismo gotico (visto anche di recente in Crimson
Peak). Del Toro certo esprime un particolare occhio di riguardo anche per
il lavoro di pregio svolto nel primo adattamento dell’opera al cinema, quello
con la regia di Edmund Goulding, realizzato nel 1947 a solo un anno dal
libro. Era anche quello una semplificazione del lavoro di Gresham, di certo
dall’aria più “accomodante” del lavoro di Del Toro, ma si faceva soprattutto
notare per una rappresentazione del mondo circense apprezzata da alcuni critici
come sullo stesso livello del classico Freak di Tod Browning. Sul piano
estetico Del Toro punta a ricreare una simile impostazione visiva,
vintage fin nella scelta di una fotografia pensata per avere fascino anche alla
proiezione della pellicola in bianco e nero (evento per ora solo previsto
in America in un piccolo circuito). Sul piano poi della caratterizzazione dei
personaggi, Del Toro dona allo Stan di Bradley Cooper l’eleganza, la canottiera
che mostra i muscoli e la sigaretta sempre in bocca, da vero “duro”, di Tyron
Power. Fa sì che la diva Cate Blanchett abbia lo stesso charme della diva Helen
Walker. Coerentemente come nei film del passato e in contrapposizione alle
regole moderne, che per questo chiedono delle restrizioni di pubblico, nella
Fiera delle Illusioni “tutti fumano”, continuamente, in qualche modo per
alimentare (come l’espediente originale si imponeva nei noir classici) l’alone
di mistero e “vizio” dei personaggi. Per caratterizzare lo Stan di Cooper, Del
Toro sceglie poi di “giocare in casa”, facendo convivere in lui i tratti del
personaggio interpretato da Rupert Evans nel suo primo Hellboy, quanto i tratti
del Michael Shannon de La forma dell’acqua. Il personaggio di Evans era il
“pesce fuor d’acqua”, l’uomo razionale che scopre di colpo che nel mondo esiste
il “magico” e cerca di adattarsi. Il personaggio di Shannon era l’uomo senza
scrupoli che cercava di controllare l’elemento magico per il proprio interesse,
in modo cinico, a costo di distruggerlo. Del Toro sceglie di far vivere il
personaggio di Bradley Cooper tra questi due estremi e per questo cambia la
struttura del libro per mettere in scena uno spettacolo di stampo più
“contemplativo/esistenziale”. Lo rimodella in una struttura in due atti
più un breve finale e sacrifica tutta la meccanica “dai risvolti action” (oggi
diremmo alla Final Destination) legata a come la lettura dei tarocchi potesse
aiutare a predire il futuro aiutando il protagonista nella sua lunga
fuga.
(La messa in scene)
La fiera delle illusioni è un film
visivamente affascinate, che per molti versi nella sua prima parte non si
discosta dalla tavolozza di colori che Guillermo Del Toro predilige per molte
delle suo opere.
La prima parte del film è quasi
“zen”: parla della coesistenza di Stan con il piccolo mondo degli artisti dei
tendoni, alla ricerca di un nuovo equilibrio tra se stesso e il mondo che lo
circonda. Qui Del Toro ha afflati vicini al malinconico Il più grande
spettacolo dei mondo di Cecil B. DeMille. Trovando poi perno nell’amorevole
burbero di Ron Perlman e nel solare e fragile personaggio interpretato da
Rooney Mara, il regista sembra strizzare l’occhio anche a La Strada di Fellini.
Al di fuori di questi possibili omaggi, c’è “puro Del Toro” nelle scene che descrivono
la vita quotidiana tra i tendoni dei freak. Sia sul lato delle atmosfere
“quotidiane” del mercato dei mostri di Hellboy - The golden Army, quanto della
rappresentazione di un degrado umano (nella figura del Geek) che si sviluppa
in un modo non dissimile dall’ultima pellicola prodotta da Del Toro,
Antlers.
La seconda parte del film ci mostra un
luogo diverso e uno Stan diverso, che baratta la canottiera per i completi
firmati e dei baffetti curati alla Clarke Gable. La pellicola diventa a tutti
gli effetti un film noir dai contorni psicologici, pieno di ricconi
eccentrici, delitti e inseguimenti e con una femme fatale, interpretata
magistralmente da Cate Blanchett, che diviene speculare alle ambizioni
del protagonista: un personaggio come lui fragile e irrisolto, con cui
competere “nell’ebbrezza”.
Visivamente siamo lontani anni luce dai
colori del circo e sembra quasi di trovarsi in una detective story di stampo
molto classico, particolarmente carica di dialoghi e atmosfere rarefatte. Il
ritmo cambia, cambiano i personaggi in scena e quasi per un istante il film si
ferma. In un momento quasi “dissacrante”, ma sublime, che apre al finale. La
storia assume contorni molto meno favolistici, ma grazie alla mano di Del Toro
c’è sempre un alone di soprannaturale a permeare il tutto.
Le due metà della pellicola rimangono
così in tensione tra di loro, al pari della lotta interiore di Stan per
la sua identità, conteso tra due destini e due donne, in un ciclo continuo di
stupore e delusione, manipolazione e contro-manipolazione, “magia” e “trucco”,
cartomanzia/mentalismo e psicanalisi. Nella seconda parte lo stupore e il
“dolore” del perdersi nel fantastico, come ne Il Labirinto del Fauno, offrono
sensazioni particolarmente forti, che riescono a sposarsi con un certo gusto
per il grottesco che pervade in tutte le “imprese” di cui si fa protagonista il
torbido personaggio (secondario ma non troppo) interpretato da Willem
Dafoe.
(Finale)
La pellicola parte travolgente, con una
narrazione corale avvolgente che deve molto al personaggio di Tony Collette
(che per qualcuno potrebbe anche omaggiare un simile personaggio presente in
Fun House di Tobe Hooper). La seconda parte è stimolante anche se si presenta
forse un po’ lunga, ma il film riesce a riprendersi e armonizzarsi nella
parte finale. Molto dolce il personaggio di Rooney Mana, complessa e altera
Cate Blanchett. Bradley Cooper dà corpo a un antieroe tragico quanto sensuale,
che fin dalle prime scene riesce a infiammare il pubblico femminile in una
scena dall’alto tasso erotico.
Nightmare Alley è una pellicola molto
ben costruita, tanto sul piano visivo che narrativo, probabilmente destinata a
fare incetta di premi e riconoscimenti in giro per il mondo a partire dal suo
affascinate reparto artistico, tra la fotografia a luci soffuse di Dan Laustsen
alle musiche di Nathan Johnson (alla sua prima collaborazione con Del Toro) ai
costumi di Luis Sequeira. Quando il “tocco magico“ di Del Toro trasporta questo
noir nel territorio della favola, seppur centellinando questi passaggi, il film
riesce a stupire e qualche volta davvero a incantare.
Le due ore e mezza di durata passano velocemente, anche se si può riscontrare un calo del ritmo nella seconda parte. Un nuovo grande film da gustare al cinema, con lo charme dei grandi classici del passato. Dopo Freaks Out di Mainetti, presto in home video, un tendone del circo dei primi del ‘900 e il suo mondo di donne barbute, maghi e forzuti, tornano ad essere lo scenario ideale per ritornare a contatto con la sala cinematografica dopo il triste periodo del covid 19.
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