mercoledì 28 aprile 2021

The Woman - la nostra recensione “molto” post 8 marzo dell’horror psicologico di Lucky McKee, ora disponibile su Amazon Prime

 


(Premessa) oggi parliamo di un film pieno di satira e dark humor, ma anche molto forte a livello visivo ed emotivo. Per questo giustamente sconsigliato a un pubblico di età inferiore ai 18 anni. Se siete persone facilmente impressionabili o minorenni la visione è sconsigliata, anche se dalla nostra recensione può sembrarvi intrigante. 

(Essere donna oggi) Belle persone i Cleek, l’immagine stessa della famiglia americana moderna del Maine. Tutti sorridenti, in forma, amatissimi, con passione e impegno civico che sprizzano da tutti i pori. Una casetta nel verde con prato inglese e infiniti pomeriggi domenicali a base di barbecue, cui è invitato sovente l’intero vicinato, con salsicce e birra gratis per tutti. Chris Cleek (Sean Bridges) è un atletico quarantenne, avvocato di successo e grande appassionato di caccia. Un giorno mentre è intento nel suo hobby preferito scopre qualcosa di interessante e subito dopo decide di fare una grande sorpresa alla sua famiglia. Certo prima di scartare la sorpresa serve un po’ di preparazione, occorre fare spazio in cantina, pulire e spostare mobili, magari preparare delle attrezzature e vestiario dedicato, ma ne vale la pena! Perché Chris, marito devoto, padre encomiabile, avvocato onesto, cacciatore provetto e cittadino modello, ha scoperto nel bosco e portato a casa il regalo definitivo: una donna selvaggia (Pollyanna McIntosh)! Una donna da vestire, educare e rendere civilizzata per la felicità di tutta la famiglia, che subito la accoglie con gioia! Una specie di volontariato spontaneo, potremmo dire. Certo Chris l’ha notata un pomeriggio dove invece di dedicarsi ai cervi del boschetto di Dead River si è soffermato a lungo a guardare questa creatura farsi il bagno nel fango, con il mirino telescopico da guardone. Ma nonostante il rischio di avere certe “pulsioni” nei suoi riguardi, rimane importante per l’avvocato “salvare” la povera donna dal complesso di Tarzan, catturandola con una rete e legandola poi con dei cavi d’acciaio nel sottoscala di casa fino a una “civilizzazione avvenuta”, cui dovrà ovviamente contribuire attivamente e volenterosamente tutto il suo nucleo famigliare. Certo non dovrà saperlo nessuno fuori di casa, perché anche se questo si sta facendo per un bene superiore, è una cosa bella e giusta eccetera, molti “non capirebbero”. La grigia, evanescente e dimessa moglie Belle (Angela Bettis), è decisamente la meno entusiasta della novità. Sulle prime cerca di far ragionare Chris, chiedendogli gentilmente e dubbiosa: “Dobbiamo tenerla davvero noi, qui in cantina? Ma è legale? Non è che possiamo invece chiamare qualcuno, tipo i servizi sociali?”. Dopo il primo ceffone Belle viene subito rimessa al suo posto, anche perché la sua fragilità emotiva è già conosciuta da tutta la famiglia come conseguenza della anoftalmia di cui soffre (leggere su Wikipedia cos’è dopo la visione o vi perdete un colpo di scena interessante) e che le impedisce una percezione chiara del mondo circostante. Normale che la moglie ogni tanto dica cosa fuori di testa. Mentre Belle viene mandata con indulgenza a confezionare per la donna selvaggia vestiti facilmente sbottonabili senza doverla slegare, il marito inizia a fare su e giù nel sottoscala ogni notte, per un corso rieducativo intenso. In poco tempo pure il figlio adolescente Brian (Zack Rand), copia carbone del padre con stessi complessi da maschio alfa e crudeltà, inizia a fantasticare sulle infinite possibilità di avere una donna sexy e legata sotto casa sua. Così a un certo punto decidere pure lui per il su e giù rieducativo. La figlia adolescente Peggy (Lauren Ashley Carter) che non si oppone ma non collabora alla rieducazione, ogni notte ha gli incubi e pensa a come negli anni il suo amorevole padre Chris abbia prima zittito sua madre a suon di botte, oggi non si faccia problemi a tenere al guinzaglio come un cane una donna selvaggia e forse in futuro potrebbe pure scegliere lei o il bambino che porta in grembo, come vittime delle sue “attenzioni”. La piccola bimba di casa, Darlin' (Shyla Molhusen), non è che capisca molto di quello che sta succedendo ai “grandi”. Ma pensa che la signora in cantina sia triste e cerca di allietarla con le musiche del suo registratorino portatile o offrendole ogni tanto un paio di biscotti a forma di omino. I piani di reinserimento della donna richiedono costante acquisto e utilizzo di sapone, per scrollarle di dosso una terra marcia che sembra quasi essersi tatuata (in stile Rambo, usando un idrante), nonché la somministrazione prudente di cibo “dalla distanza”, perché, ehi, lei morde! Di questa particolarità della donna ha fatto le spese per primo l’anulare sinistro di Chris, reciso di netto insieme alla fede nuziale (momento erotico/simbolico), mentre la donna lo guardava avvicinarsi un po’ seduttivo e un po’ laido. Il morso ha portato al nostro eroe un misto di rabbia, ferocia e disperazione che come avvocato di provincia/maschio alfa non aveva mai scorto in nessuno. O almeno, in nessuna delle donne della sua vita. Puro girl power. Ma c’è un’altra donna che potrebbe forse sempre in nome del girl power mettersi contro all’opera rieducativa di Chris, ossia miss Raton (Carlee Baker), l’insegnante di Peggy. Una donna che sta vedendo troppo da vicino, giorno dopo giorno, il disagio in cui vive la sua alunna. Dalla voglia di fare qualcosa per aiutarla, potrebbe nascere una sorta di “solidarietà femminile“ in grado di far fronte alle situazione? 



(Donne du du du, in cerca di guai) The Woman è il classico film a tesi. L’ipotesi sociologica da cui pende le mosse guarda a come un modello culturale di “famiglia americana di provincia anni ‘50“, patriarcale, ultra-bigotta e autoreferenziale, possa esprimere una condizione della donna più deprecabile e meno evoluta di una civiltà delle caverne tipo nehandertal. La “tesi filminca”, che conferma l’horror come genere prediletto per smascherare i problemi sociali e psicologici odierni, è che nonostante le molte battaglie dei movimenti per la parità di genere, certi modi di pensare sono pervicacemente sopravvissuti pure ai giorni nostri. Le perfette “mogliettine/figlie/segretarie da Happy Days” sono in certi contesti considerate così  inferiori, fragili emotivamente, deboli nel fisico e pericolose, da convincere se stesse di meritarsi insulti, angherie a condiscendenza, alimentando la follia misogina di maschietti di casa che non esistano a trattarle come “mostri”. Come ha ripetuto per anni Tiziano Sclavi, in centinaia di storie a fumetti meravigliose, quelli che vengono chiamati “mostri” o “diversi” non sono necessariamente i veri “oppressori“ della libertà e felicità. Inoltre, come disse una volta Evelyn Cunningham, voce del primo movimento americano per i diritti civili: “Le donne sono l’unico gruppo oppresso, nella nostra società, a condividere la vita con i loro oppressori”. Un rapporto capo-suddito, con qualche influsso dall’epoca dello schiavismo, retto da un ferreo auto convincimento di quelli che il sociologo Talcott Parsons definiva i  rispettivi “ruoli sociali” di un modello familiare. The  Woman, opera centrale anche se autonoma all’interno della Dead River Saga di Jack Ketchum, usa il mito del buon selvaggio “”cannibale“” per cercare di ribaltare questo rapporti di forza basato sul genere e “vedere cosa succede”. Questo modello, dal sopra citato sociologo Talcott Parsons identificato nella famiglia americana perfetta delle pubblicità anni ‘60, riporta di fatto per gli analisti del settore già 20 anni dopo un’immagine non accurata, in ragione di importanti mutamenti sociali e culturali che hanno presto sancito la sua (de)composizione. Il diritto allo studio è cambiato, come l’accesso alle professioni e allo strumento del divorzio, come si sono ampliati  i diritti riconosciuti alle minoranze e i servizi volti alla tutela contro le violenze domestiche. Il “pacchetto Happy Days” con marito lavoratore e capo della sfera finanziaria, donna regina della casa e capo della sfera emotiva, figlia devota e vergine fino al matrimonio e figlio giocatore di football con borsa di studio (giusto per semplificare), semplicemente non esiste più nella realtà storica, se non che si dubita sia mai esistito, se non come “aspirazione ideale” o attraverso “accomodamenti relazionali” non sempre felici. Accomodamenti di cui ha prevalentemente patito la sfera femminile. Si può solo immaginare il numero delle guerre, combattute tra le mura domestiche e luoghi di lavoro, che questo disequilibrio ha comportato. I dati rilevati da chi opera nel settore del sociale sono abbastanza sconfortanti . 



(Tanto rape ma anche molto revenge - capitoletto un po’ lungo, se vi annoia a morte potere saltare tutto e leggere la “sintesi” nel seguente capitoletto). Il genere horror ogni tanto fa cose audaci e scorrettissime per farci ragionare, anche positivamente, su tematiche sociali. C’è stato un tempo, nei magici anni ‘70 con il loro “mondo delle repliche” e “titoli tradotti ad effetto” in cui in sala ti trovavi il Fulciano Non si sevizia un paperino (1972), con nella sala a fianco Non aprite quella porta di Hooper (1974) con nella sala vicina un altrettanto emblematico Non violentate Jennifer di Zarchi (1978). Tre horror fortemente a valenza “antropologica”: sul valore deviato dell’educazione dei giovani, sul decadimento umano delle zone rurali, sulla oggettificazione della donna in certi contesto. Tutti in cartellone con quel “Non” imperativo, che era titolo del film quanto il “comando morale” di dissociarsi da quello che vi era rappresentato. Era a tutti gli effetti una visione “italiana” del cinema (perché i film importati non avevano per esempio il “non” nel titolo originale) che lo voleva come strumento diretto di contrasto “possibile” ai comportamenti umani più devianti. Un modo di intendere la settima arte che qualche volta è un po’ bigotto e un po’ fuorviante, al punto da prodotto anche dei danni. Un modo di fare “giudicante”, qualche volta davvero “manicheo”, oggi scomparso ma che ogni tanto prova ancora a fare capolino. C’è effettivamente poi un cortocircuito morale interessante, dal punto di vista dello spettatore, proprio all’interno del sotto- genere “Rape and Revenge”, ossia quanto accomuna The Woman proprio a Non violentate Jennifer. Questi sono film, spesso bipartiti in due tronchi narrativi, in cui da una situazione di violenza spesso sessuale, da cui il “rape”, segue una violenza vendicativa della vittima sugli aggressori, da cui la “revenge”. A livello di catarsi lo spettatore, specie maschietto, è in genere in queste pellicole prima attirato da una componente vouieristica che gli permette sovente di soffermarsi su “belle ragazze svestite”, poi prova repulsione/confusione  per la violenza “ingiusta” subita dalla vittima, infine viene appagato in modo liberatorio da una vendetta sugli aguzzini, violenta ma percepita come “giusta”.  Il fulcro del disagio “morale” che vive lo spettatore è figlio di  tutta la componente sessuale che pervade queste pellicole. La nudità femminile può eccitare lo sguardo anche nei momenti più “inopportuni”, facendo sentire chi è spettatore quasi alla stregua di un complice degli aguzzini, colpevole di una condivisa anche se pur tacita e superficiale “oggettificazione” della figura femminile. Ci si sente a disagio a guardare in sintesi, con l’impostazione della pellicola che lancia una chiarissima susseguente condanna morale. Una condanna che con il tempo, con la progressiva codificazione del genere slasher, grazie anche ad Halloween di Carpenter (1978), è stata sempre più sfumata. Al punto che la componente sessuale diventava quasi imprescindibile, specie in Venerdì 13, come nella commedia sexy all’italiana. 



Negli anni ‘80 poi si è riusciti ulteriormente a includere una nota di ironia e satira anche negli horror a tematica “socialmente scomoda”. Grazie a Craven, che aveva iniziato la sua carriera proprio con un rape and revenge come L’ultima casa a sinistra del 1972 e che ora con Nightmare del 1984 torna a mettere al centro del discorso la (mal)educazione degli adolescenti, di cui sono principali artefici i genitori (che ci fa quasi parteggiare per il “cattivo”). Con Carpenter, che con Essi vivono, sulla manipolazione della realtà operata da chi occultamente comanda, non lesina in satira e momenti divertenti. Il tema “moralmente inaccettabile” si è quindi con il tempo ingegnerizzato nel genere e il tocco satirico di Lucky McKee, co-sceneggiatore e regista di The Woman, si pone sul solco di questa tradizione, innovandolo. Con McKee, grande conoscitore e amante del pop-horror, il testo di Ketchum, appartenente tanto ai rape and revenge che al genere piuttosto crudo, disincantato e “nostrano” degli horror con i cannibali, riesce così a stemperarsi, rendersi “nel grottesco” più accettabile dell’adattamento del precedente lavoro cinematografico di Ketchum, Offspring, colorandosi di “camp”. L’esito felice di questa impostazione è che se un’opera come Non violentate Jennifer negli anni ‘70 rimaneva appannaggio di una nicchia di cultori dell’horror percepiti un po’ matti e amanti dell’estremo, The Woman, con il suo approccio apparentemente leggero (ma che non lesina lo splatter grandguignolesco ed esagerato stile Dal tramonto all’alba nell’ultima parte), è invece un’opera che può raggiungere un pubblico più ampio, anche con il passaparola, riuscendo a espandere la platea di chi può ascoltare, riflettere e dibattere sull’interrogativo sociale “horror” che muove. Possiede un linguaggio e ironia non distante dai cartoni animati per adulti tipo I Griffin, pur in un contesto narrativo realistico. È divertente almeno quanto è inquietante, come molti horror di successo. Se Offspring era un film dal taglio quasi documentaristico che trovava nello splatter una lettura più brutale del reale, McKee vola glorioso e leggero verso i lidi della metafora socio/politica, con una decisa “presa di posizione” che si afferma tra personaggi volutamente caricaturali (ma in questo non meno spietati) e immense e parossistiche fontane di sangue. 



(Tanto rape ma anche molto revenge: in sintesi) Ho già detto che è una pellicola non adatta ai minori di 18 anni, vero? Provo quindi ad annodare i fili del discorso: attraverso l’efferatezza grafica e la cattiveria satirica, proprie di una buona commistione dell’horror sociale di denuncia del passato e dell’ horror moderno di cui McKee è una delle voci più interessati, viene denunciata con The Woman la violenza fisica e morale, tuttora esistente in certi ambiti, di considerare le donne come oggetti di carne, muti e volti per lo più alla cura della casa, alla procreazione e al sesso. E questo riesce ad essere più di impatto di molte spente biografia di eroine del femminismo o di molti dibattiti da salotto. Pertanto a mio parere il film di McKee, sebbene molto forte per temi e immagini, raggiunge proprio per questa forma estrema l’obiettivo di muovere una lodevole critica sociale, in grado di essere proficuamente sviscerata nel dibattito.   

(Siamo donne, oltre alle gambe c’è di più) The Woman offre una vera e propria “anamnesi horror” di una donna “schiacciata dal potere maschile”, scomponendo e dividendone le caratteristiche emotive tra più personaggi femminili, di età e psicologie diverse, quasi tutte disfunzionali. Laddove le figure maschili autoritarie rimangono monolitiche e tetre, indifferenti ai cambi di età, per “le donne” esistono diverse “strategie“ volte più alla sopravvivenza (im)possibile che a un contrattacco nei confronti delle angherie che mette in atto soprattutto il personaggio del “padre”. È una dinamica non banale. Se la donna delle caverne e la bambina sono abbastanza libere da compiere delle scelte autonome, le altre donne muovono tutte dalla speranza di ricevere benevolenza o al più indifferenza da parte dell’uomo, intavolando contrattazioni infinite con un interlocutore responsivo quanto un muro di mattoni. Un muro pure sadico. È in questo dialogo sordo che le idee più folli e sarcastiche di McKee prendono forma, percorrendo ogni tanto la stessa strada del grottesco dello zombesco Fido di Andrew Currie, con intuizioni ambientali derivate dalla Moglie Perfetta di Frank Oz. Molto bravi gli attori, tra cui spicca la McIntosh. Sean Bridgers ricorda molto Richard Burgi in Hostel, parte 2. La giovane Lauren Ashley Carter è amabilmente spaesata e Angela Bettis conferma il talento mostrato in May, dove era diretta sempre da Lucky McKee. Bella fotografia e le location, che prediligono gli inquietanti colori pastello sullo stile della piccola è pericolosissima cittadina di Edward Mani di forbice. Molto ispirata la colonna sonora, che riesce a svolgere a livello emozionale un ruolo attivo nella narrazione. 



(Donne con le gonne) The Woman è un film intelligente, divertente, spietato, pieno di situazioni così al limite dell’assurdo da farci pensare che possa essere una storia vera. È probabilmente il miglior film di Lucky McKee, uno dei più promettenti registi horror degli ultimi anni. È ben recitato, ben ritmato, pieno di fascino e mistero. È anche un vero e proprio manifesto horror del femminismo, una pellicola che può essere usata per approfondire e dibattere le molte criticità che ancora oggi affliggono la parità di genere. Ovviamente, ve lo stra-consiglio. 

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