(Premessa) oggi parliamo di un film
pieno di satira e dark humor, ma anche molto forte a livello visivo ed emotivo.
Per questo giustamente sconsigliato a un pubblico di età inferiore ai 18 anni.
Se siete persone facilmente impressionabili o minorenni la visione è
sconsigliata, anche se dalla nostra recensione può sembrarvi intrigante.
(Essere donna oggi) Belle persone i
Cleek, l’immagine stessa della famiglia americana moderna del Maine. Tutti
sorridenti, in forma, amatissimi, con passione e impegno civico che sprizzano
da tutti i pori. Una casetta nel verde con prato inglese e infiniti pomeriggi
domenicali a base di barbecue, cui è invitato sovente l’intero vicinato, con
salsicce e birra gratis per tutti. Chris Cleek (Sean Bridges) è un atletico
quarantenne, avvocato di successo e grande appassionato di caccia. Un giorno
mentre è intento nel suo hobby preferito scopre qualcosa di interessante e subito
dopo decide di fare una grande sorpresa alla sua famiglia. Certo prima di
scartare la sorpresa serve un po’ di preparazione, occorre fare spazio in
cantina, pulire e spostare mobili, magari preparare delle attrezzature e
vestiario dedicato, ma ne vale la pena! Perché Chris, marito devoto, padre
encomiabile, avvocato onesto, cacciatore provetto e cittadino modello, ha
scoperto nel bosco e portato a casa il regalo definitivo: una donna
selvaggia (Pollyanna McIntosh)! Una donna da vestire, educare e rendere
civilizzata per la felicità di tutta la famiglia, che subito la accoglie con
gioia! Una specie di volontariato spontaneo, potremmo dire. Certo Chris l’ha
notata un pomeriggio dove invece di dedicarsi ai cervi del boschetto di Dead
River si è soffermato a lungo a guardare questa creatura farsi il bagno nel
fango, con il mirino telescopico da guardone. Ma nonostante il rischio di avere
certe “pulsioni” nei suoi riguardi, rimane importante per l’avvocato
“salvare” la povera donna dal complesso di Tarzan, catturandola con una
rete e legandola poi con dei cavi d’acciaio nel sottoscala di casa fino a una
“civilizzazione avvenuta”, cui dovrà ovviamente contribuire attivamente e
volenterosamente tutto il suo nucleo famigliare. Certo non dovrà saperlo
nessuno fuori di casa, perché anche se questo si sta facendo per un bene
superiore, è una cosa bella e giusta eccetera, molti “non capirebbero”. La
grigia, evanescente e dimessa moglie Belle (Angela Bettis), è
decisamente la meno entusiasta della novità. Sulle prime cerca di far
ragionare Chris, chiedendogli gentilmente e dubbiosa: “Dobbiamo tenerla
davvero noi, qui in cantina? Ma è legale? Non è che possiamo invece chiamare
qualcuno, tipo i servizi sociali?”. Dopo il primo ceffone Belle viene subito
rimessa al suo posto, anche perché la sua fragilità emotiva è già conosciuta da
tutta la famiglia come conseguenza della anoftalmia di cui soffre (leggere su
Wikipedia cos’è dopo la visione o vi perdete un colpo di scena
interessante) e che le impedisce una percezione chiara del mondo circostante.
Normale che la moglie ogni tanto dica cosa fuori di testa. Mentre Belle viene
mandata con indulgenza a confezionare per la donna selvaggia vestiti facilmente
sbottonabili senza doverla slegare, il marito inizia a fare su e giù nel
sottoscala ogni notte, per un corso rieducativo intenso. In poco tempo pure il
figlio adolescente Brian (Zack Rand), copia carbone del padre con stessi
complessi da maschio alfa e crudeltà, inizia a fantasticare sulle infinite
possibilità di avere una donna sexy e legata sotto casa sua. Così a un certo
punto decidere pure lui per il su e giù rieducativo. La figlia adolescente
Peggy (Lauren Ashley Carter) che non si oppone ma non collabora alla
rieducazione, ogni notte ha gli incubi e pensa a come negli anni il suo
amorevole padre Chris abbia prima zittito sua madre a suon di botte, oggi
non si faccia problemi a tenere al guinzaglio come un cane una donna selvaggia
e forse in futuro potrebbe pure scegliere lei o il bambino che porta in grembo,
come vittime delle sue “attenzioni”. La piccola bimba di casa, Darlin' (Shyla
Molhusen), non è che capisca molto di quello che sta succedendo ai “grandi”. Ma
pensa che la signora in cantina sia triste e cerca di allietarla con le musiche
del suo registratorino portatile o offrendole ogni tanto un paio di biscotti a
forma di omino. I piani di reinserimento della donna richiedono costante
acquisto e utilizzo di sapone, per scrollarle di dosso una terra marcia che
sembra quasi essersi tatuata (in stile Rambo, usando un idrante), nonché la
somministrazione prudente di cibo “dalla distanza”, perché, ehi, lei morde! Di
questa particolarità della donna ha fatto le spese per primo l’anulare sinistro
di Chris, reciso di netto insieme alla fede nuziale (momento
erotico/simbolico), mentre la donna lo guardava avvicinarsi un po’ seduttivo e
un po’ laido. Il morso ha portato al nostro eroe un misto di rabbia, ferocia e
disperazione che come avvocato di provincia/maschio alfa non aveva mai scorto
in nessuno. O almeno, in nessuna delle donne della sua vita. Puro girl power.
Ma c’è un’altra donna che potrebbe forse sempre in nome del girl power mettersi
contro all’opera rieducativa di Chris, ossia miss Raton (Carlee Baker),
l’insegnante di Peggy. Una donna che sta vedendo troppo da vicino, giorno dopo
giorno, il disagio in cui vive la sua alunna. Dalla voglia di fare qualcosa per
aiutarla, potrebbe nascere una sorta di “solidarietà femminile“ in grado di far
fronte alle situazione?
(Donne du du du, in cerca di guai) The
Woman è il classico film a tesi. L’ipotesi sociologica da cui pende le mosse
guarda a come un modello culturale di “famiglia americana di provincia anni
‘50“, patriarcale, ultra-bigotta e autoreferenziale, possa esprimere una
condizione della donna più deprecabile e meno evoluta di una civiltà delle
caverne tipo nehandertal. La “tesi filminca”, che conferma l’horror come genere
prediletto per smascherare i problemi sociali e psicologici odierni, è
che nonostante le molte battaglie dei movimenti per la parità di genere, certi
modi di pensare sono pervicacemente sopravvissuti pure ai giorni nostri. Le
perfette “mogliettine/figlie/segretarie da Happy Days” sono in certi contesti
considerate così inferiori, fragili emotivamente, deboli nel fisico e
pericolose, da convincere se stesse di meritarsi insulti, angherie a condiscendenza, alimentando la follia misogina di maschietti di casa che non esistano a
trattarle come “mostri”. Come ha ripetuto per anni Tiziano Sclavi, in centinaia
di storie a fumetti meravigliose, quelli che vengono chiamati “mostri” o
“diversi” non sono necessariamente i veri “oppressori“ della libertà e felicità.
Inoltre, come disse una volta Evelyn Cunningham, voce del primo movimento
americano per i diritti civili: “Le donne sono l’unico gruppo oppresso, nella
nostra società, a condividere la vita con i loro oppressori”. Un rapporto
capo-suddito, con qualche influsso dall’epoca dello schiavismo, retto da un
ferreo auto convincimento di quelli che il sociologo Talcott Parsons definiva
i rispettivi “ruoli sociali” di un modello familiare. The Woman,
opera centrale anche se autonoma all’interno della Dead River Saga di Jack
Ketchum, usa il mito del buon selvaggio “”cannibale“” per cercare di ribaltare
questo rapporti di forza basato sul genere e “vedere cosa succede”. Questo modello,
dal sopra citato sociologo Talcott Parsons identificato nella famiglia
americana perfetta delle pubblicità anni ‘60, riporta di fatto per gli analisti
del settore già 20 anni dopo un’immagine non accurata, in ragione di
importanti mutamenti sociali e culturali che hanno presto sancito la sua
(de)composizione. Il diritto allo studio è cambiato, come l’accesso alle
professioni e allo strumento del divorzio, come si sono ampliati i
diritti riconosciuti alle minoranze e i servizi volti alla tutela contro le
violenze domestiche. Il “pacchetto Happy Days” con marito lavoratore e capo
della sfera finanziaria, donna regina della casa e capo della sfera emotiva,
figlia devota e vergine fino al matrimonio e figlio giocatore di football con
borsa di studio (giusto per semplificare), semplicemente non esiste più
nella realtà storica, se non che si dubita sia mai esistito, se non come
“aspirazione ideale” o attraverso “accomodamenti relazionali” non sempre felici.
Accomodamenti di cui ha prevalentemente patito la sfera femminile. Si può solo
immaginare il numero delle guerre, combattute tra le mura domestiche e luoghi
di lavoro, che questo disequilibrio ha comportato. I dati rilevati da chi opera
nel settore del sociale sono abbastanza sconfortanti .
(Tanto rape ma anche molto revenge -
capitoletto un po’ lungo, se vi annoia a morte potere saltare tutto e leggere
la “sintesi” nel seguente capitoletto). Il genere horror ogni tanto fa cose
audaci e scorrettissime per farci ragionare, anche positivamente, su tematiche
sociali. C’è stato un tempo, nei magici anni ‘70 con il loro “mondo delle
repliche” e “titoli tradotti ad effetto” in cui in sala ti trovavi il Fulciano
Non si sevizia un paperino (1972), con nella sala a fianco Non aprite quella
porta di Hooper (1974) con nella sala vicina un altrettanto emblematico Non
violentate Jennifer di Zarchi (1978). Tre horror fortemente a valenza
“antropologica”: sul valore deviato dell’educazione dei giovani, sul
decadimento umano delle zone rurali, sulla oggettificazione della donna in
certi contesto. Tutti in cartellone con quel “Non” imperativo, che era titolo
del film quanto il “comando morale” di dissociarsi da quello che vi era
rappresentato. Era a tutti gli effetti una visione “italiana” del cinema (perché i film importati non avevano per esempio il “non” nel titolo
originale) che lo voleva come strumento diretto di contrasto “possibile” ai
comportamenti umani più devianti. Un modo di intendere la settima arte che
qualche volta è un po’ bigotto e un po’ fuorviante, al punto da prodotto anche
dei danni. Un modo di fare “giudicante”, qualche volta davvero “manicheo”, oggi
scomparso ma che ogni tanto prova ancora a fare capolino. C’è effettivamente
poi un cortocircuito morale interessante, dal punto di vista dello spettatore,
proprio all’interno del sotto- genere “Rape and Revenge”, ossia quanto accomuna
The Woman proprio a Non violentate Jennifer. Questi sono film, spesso bipartiti
in due tronchi narrativi, in cui da una situazione di violenza spesso sessuale,
da cui il “rape”, segue una violenza vendicativa della vittima sugli
aggressori, da cui la “revenge”. A livello di catarsi lo spettatore, specie
maschietto, è in genere in queste pellicole prima attirato da una
componente vouieristica che gli permette sovente di soffermarsi su “belle
ragazze svestite”, poi prova repulsione/confusione per la violenza
“ingiusta” subita dalla vittima, infine viene appagato in modo liberatorio
da una vendetta sugli aguzzini, violenta ma percepita come “giusta”. Il
fulcro del disagio “morale” che vive lo spettatore è figlio di tutta
la componente sessuale che pervade queste pellicole. La nudità femminile può
eccitare lo sguardo anche nei momenti più “inopportuni”, facendo sentire chi è
spettatore quasi alla stregua di un complice degli aguzzini, colpevole di
una condivisa anche se pur tacita e superficiale “oggettificazione” della
figura femminile. Ci si sente a disagio a guardare in sintesi, con
l’impostazione della pellicola che lancia una chiarissima susseguente condanna
morale. Una condanna che con il tempo, con la progressiva codificazione del
genere slasher, grazie anche ad Halloween di Carpenter (1978), è stata sempre più
sfumata. Al punto che la componente sessuale diventava quasi imprescindibile,
specie in Venerdì 13, come nella commedia sexy all’italiana.
Negli anni ‘80 poi si è riusciti
ulteriormente a includere una nota di ironia e satira anche negli horror a
tematica “socialmente scomoda”. Grazie a Craven, che aveva iniziato la sua
carriera proprio con un rape and revenge come L’ultima casa a sinistra del 1972 e che ora con Nightmare del 1984 torna a mettere al centro del
discorso la (mal)educazione degli adolescenti, di cui sono principali artefici
i genitori (che ci fa quasi parteggiare per il “cattivo”). Con Carpenter, che
con Essi vivono, sulla manipolazione della realtà operata da chi occultamente
comanda, non lesina in satira e momenti divertenti. Il tema “moralmente
inaccettabile” si è quindi con il tempo ingegnerizzato nel genere e il tocco
satirico di Lucky McKee, co-sceneggiatore e regista di The Woman, si pone sul
solco di questa tradizione, innovandolo. Con McKee, grande conoscitore e amante
del pop-horror, il testo di Ketchum, appartenente tanto ai rape and
revenge che al genere piuttosto crudo, disincantato e “nostrano” degli horror
con i cannibali, riesce così a stemperarsi, rendersi “nel grottesco” più
accettabile dell’adattamento del precedente lavoro cinematografico di
Ketchum, Offspring, colorandosi di “camp”. L’esito felice di questa
impostazione è che se un’opera come Non violentate Jennifer negli anni ‘70
rimaneva appannaggio di una nicchia di cultori dell’horror percepiti un po’
matti e amanti dell’estremo, The Woman, con il suo approccio apparentemente
leggero (ma che non lesina lo splatter grandguignolesco ed esagerato stile Dal tramonto all’alba nell’ultima parte), è invece un’opera che può
raggiungere un pubblico più ampio, anche con il passaparola, riuscendo a espandere la platea di chi può ascoltare, riflettere e dibattere
sull’interrogativo sociale “horror” che muove. Possiede un linguaggio e ironia
non distante dai cartoni animati per adulti tipo I Griffin, pur in un contesto
narrativo realistico. È divertente almeno quanto è inquietante, come molti
horror di successo. Se Offspring era un film dal taglio quasi
documentaristico che trovava nello splatter una lettura più brutale del reale,
McKee vola glorioso e leggero verso i lidi della metafora socio/politica, con
una decisa “presa di posizione” che si afferma tra personaggi volutamente
caricaturali (ma in questo non meno spietati) e immense e parossistiche fontane
di sangue.
(Tanto rape ma anche molto revenge: in
sintesi) Ho già detto che è una pellicola non adatta ai minori di 18 anni,
vero? Provo quindi ad annodare i fili del discorso: attraverso l’efferatezza
grafica e la cattiveria satirica, proprie di una buona commistione dell’horror
sociale di denuncia del passato e dell’ horror moderno di cui McKee è una delle
voci più interessati, viene denunciata con The Woman la violenza fisica e
morale, tuttora esistente in certi ambiti, di considerare le donne come oggetti
di carne, muti e volti per lo più alla cura della casa, alla procreazione e al
sesso. E questo riesce ad essere più di impatto di molte spente biografia di
eroine del femminismo o di molti dibattiti da salotto. Pertanto a mio
parere il film di McKee, sebbene molto forte per temi e immagini, raggiunge
proprio per questa forma estrema l’obiettivo di muovere una lodevole critica
sociale, in grado di essere proficuamente sviscerata nel dibattito.
(Siamo donne, oltre alle gambe c’è di
più) The Woman offre una vera e propria “anamnesi horror” di una donna
“schiacciata dal potere maschile”, scomponendo e dividendone le caratteristiche
emotive tra più personaggi femminili, di età e psicologie diverse, quasi tutte disfunzionali. Laddove le figure maschili autoritarie rimangono
monolitiche e tetre, indifferenti ai cambi di età, per “le donne” esistono
diverse “strategie“ volte più alla sopravvivenza (im)possibile che a un
contrattacco nei confronti delle angherie che mette in atto soprattutto
il personaggio del “padre”. È una dinamica non banale. Se la donna delle
caverne e la bambina sono abbastanza libere da compiere delle scelte autonome,
le altre donne muovono tutte dalla speranza di ricevere benevolenza o al più
indifferenza da parte dell’uomo, intavolando contrattazioni infinite con un
interlocutore responsivo quanto un muro di mattoni. Un muro pure sadico. È in
questo dialogo sordo che le idee più folli e sarcastiche di McKee prendono
forma, percorrendo ogni tanto la stessa strada del grottesco dello zombesco
Fido di Andrew Currie, con intuizioni ambientali derivate dalla Moglie Perfetta
di Frank Oz. Molto bravi gli attori, tra cui spicca la McIntosh. Sean Bridgers
ricorda molto Richard Burgi in Hostel, parte 2. La giovane Lauren Ashley Carter
è amabilmente spaesata e Angela Bettis conferma il talento mostrato in May,
dove era diretta sempre da Lucky McKee. Bella fotografia e le location,
che prediligono gli inquietanti colori pastello sullo stile della piccola è
pericolosissima cittadina di Edward Mani di forbice. Molto ispirata la colonna
sonora, che riesce a svolgere a livello emozionale un ruolo attivo nella
narrazione.
(Donne con le gonne) The Woman è un film intelligente, divertente, spietato, pieno di situazioni così al limite dell’assurdo da farci pensare che possa essere una storia vera. È probabilmente il miglior film di Lucky McKee, uno dei più promettenti registi horror degli ultimi anni. È ben recitato, ben ritmato, pieno di fascino e mistero. È anche un vero e proprio manifesto horror del femminismo, una pellicola che può essere usata per approfondire e dibattere le molte criticità che ancora oggi affliggono la parità di genere. Ovviamente, ve lo stra-consiglio.
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