Siamo nella Colonia degli anni ‘70, in un appartamento del centro dalle pareti rosse, arredato con arazzi rinascimentali, poster cinematografici e mobili eccentrici, dove risuonano canzoni francesi deprimenti che raccontano di amori traditi e amanti ingrati. Il corpulento e baffuto Peter Von Kant (Denis Menochet), considerato un autentico genio della macchina da presa, si crogiola lì per la stragrande parte del tempo, a bere gin tonic, fumare e deprimersi. Si strugge per il destino infausto che ha allontanato da lui il suo ultimo grande ma “ampiamente sopravvalutato” amore, insultando in malo modo ogni essere umano che si avvicini a lui oltre tre metri. Come il suo inappuntabile cameriere/assistente/tuttofare Karl (Stefan Crepon), un giovane ometto baffuto che veste maglioni con ricami geometrici e fa fronte, con risoluzione e ossequioso silenzio, a ogni sua sempre sgarbata, perentoria quanto ripetuta richiesta. Verso mezzogiorno il grande artista si alza dal suo lettone rosa e cerca disperatamente di ritornare al successo dopo un periodo di “stanca”, inseguendo con lettere e comunicati vari produttori amici e attrici come Romy Shneider, rimaneggiando vecchie sceneggiature o riguardando i suoi vecchi successi su pellicola nella stanza che funge da studio e da cinema. In genere a chiamarlo al telefono è però solo la madre Rosemarie (Hanna Schygulla). Poi all’improvviso l’attrice che più di tutte gli è vicina e amata, Sidonie (Isabelle Adjani), anche se ovviamente pure lei è “ingrata e sopravvalutata”, si presenta a casa di Peter con un ragazzo sulla ventina, Amir (Khalil Ben Gharbia). È aitante e riccioluto, dal fascino mediorientale (quasi “pasolinano”) e gli occhi scuri. Bellissimo e misterioso, con un passato tragico e un sorriso sognante, zero esperienza da attore e tanta voglia di viaggiare e amare: la persona perfetta di cui innamorarsi e al contempo “rimodellare la vita attraverso l’arte”, aggrappandosi a tanto dolore, purezza e ricerca di un rifugio sicuro. Le cose sono così coinvolgenti e fulminanti che Peter sfoggia per lui tanti occhi languidi e le sue migliori giacchette in pelle. In breve tempo nell’appartamento appaiono su tutti i muri foto gigantesche del ragazzo e sue “reinterpretazioni artistiche, come un quadro sul celebre Martirio di San Sebastiano, con Amir che vi compare santo, nudo e ferito nel costato. È per Peter decisamente amore, con Karl che assiste a questa “fase felice” del suo principale con un pizzico di rammarico, essendo tenuto ad assistere pure alle effusioni dei due innamorati per poter elargire loro bicchieri di champagne a raffica. In breve tempo Amir diventa famosissimo come attore e la carriera di Peter riparte, ma la coppia presto non funziona. Il ragazzo lo comanda a bacchetta, diserta le lezioni di recitazione, è sempre “impegnato e altrove” e forse ha pure qualcun altro. Ferito e sempre più iracondo con il resto del mondo, Peter si appresta a celebrare il suo compleanno.
Arriva al cinema uno dei più riusciti e divertenti film di Francois Ozon, la seconda opera che il cineasta francese dedica all’adattamento di un lavoro del grande Rainer Werner Fassbinder. Un autore che è stato scrittore, drammaturgo e come regista uno dei massimi esponenti del “nuovo cinema tedesco” degli anni '70/'80. Peter Von Kant è liberamente tratto da Le lacrime amare di Petra Von Kant e mette al centro della scena un buffo, divertente e malinconico Denis Menochet che a tutti gli effetti ricorda tantissimo (e affettuosamente) Fassbinder stesso: per stazza, pose, abbigliamento e indole vulcanica quanto “ruvida”. Un uomo geniale e sensibile quanto tragicamente incapace di amare qualcuno, senza poterlo idealizzare e infine “possedere come un oggetto”. Un uomo che si sente solo anche quando circondato dai suoi affetti più cari, perché costantemente travolto da passioni passeggere quanto sfrenate, nei confronti di partner troppo giovani, bellissimi e impossibili da “contenere e addomesticare” come lui (inopinatamente) vorrebbe. Genio artistico e quotidiana sregolatezza che nel film spesso si confondono e sovrappongono, in un “one man show tragicomico”, con Peter assoluto primo attore e “unico sovrano del suo appartamento”, che cerca costantemente di rubare i riflettori agli altri personaggi sulla scena, in modo eccentrico e quasi dispettoso. L’arredo e lo stile dell’appartamento dove è ambientata la storia, che uno spettatore giovane potrebbe “”scambiare”” benissimo per lo scenario di un film di Wes Anderson, è di fatto per Peter tutto il suo mondo interiore, dove tutti gli altri sono ospiti, servitori o intrusi. Tutti ben etichettabili e funzionali alle sue aspettative. Il suo assistente tuttofare Karl, interpretato dall’ottimo Stefan Crepon, è un personaggio che per le complicate circostanze in cui si trova a lavorare preferisce essere “muto”. Si muove tra le stanze dell’appartamento-scenario con la grazia e compostezza di un mimo, con lo sguardo sempre attento e lo stile inappuntabile, lasciando trasparire dalle sue azioni (più precise o frettolose), quale sia il suo reale umore del momento. Finezze che l’occhio “passionale e distratto” di Peter non è mai in grado di cogliere, anche quando il disappunto è più evidente, con la posta che viene buttata in malo modo sul tavolo o le bottiglie servite riverse di lato su piatti d’argento. Amir, per contrasto, in quello stesso mondo è un personaggio totalmente libero di esprimersi, anche avversando in tutto il volere di Peter e facendo “i capricci”. È però un personaggio idealizzato, le cui asprezze di carattere sono accettabili in quanto fasi di un già accettato lungo processo di “arrivo all’idealizzazione”. Consegue che non c’è in Peter un vero interesse per le passioni e il carattere di Amir, che viene inteso più come una tela bianca da dipingere o marmo grezzo da scolpire. Quando Amir si ritrae a Peter, di fatto il regista sembra soffrirne in quanto perdita/furto di una sua espressione artistica. Amir può esercitare così il suo potere su Peter, magari facendo il bullo o girando nudo per casa. Sodonie è un personaggio percepito “non più di proprietà di Peter” e questo apre a dinamiche da principio strettamente utilitaristiche. Questa è se vogliamo la “base emotiva”, perché tutti i personaggi nel corso dell’opera evolvono, mettono in dubbio il loro punto di vista e diventano sempre più autonomi: alla ricerca di relazioni più (impossibilmente) paritarie. Ozon in Peter Von Kant usa un approccio quasi psicanalitico nella rappresentazione di ogni personaggio, molto sfaccettato ma al contempo sempre godibile, che apre a sfumature comiche quanto drammatiche. Allo spettacolo, grazie alle ottime interpretazioni e mimica di tutti gli attori, si accompagna anche una particolare leggerezza narrativa e un ritmo sempre interessante, che rimanda la sensazione positiva di essere arrivati ai titoli di coda quasi troppo in fretta: come se si volesse passare ancora un po’ di tempo con tutti i personaggi.
Peter Von Kant è una commedia godibile e ricca di interessanti sfumature. I personaggi grazie al lavoro di un ottimo cast di interpreti sono divertenti ma al contempo sanno diventare profondi, gioiosamente complicati e umani. La regia di Ozon è come sempre impeccabile e questo film possiamo di sicuro annoverarlo tra i suoi lavori più riusciti. Per i fan di Ozon e per tutti quelli che cercano un film divertente e ben recitato da gustare in sala.
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