Siamo nel 2017 e ci troviamo in Tibet, nei cento giorni più freddi dell’anno. È in questo periodo che le monache più forti del monastero Yarchen sono tenute a vivere a più stretto contatto con la montagna, in solitudine, sparpagliate in piccolissime casette di legno, in silenziosa meditazione accompagnate dal suono di piccoli tamburi e campanelle. Le loro casette non più grandi di tre metri sono disposte lungo il promontorio, che la sera si illumina tutto alla luce delle torce e delle candele come un’unica grande casa dalle molte finestre, illuminata sotto la neve e il gelo. Per cercare di ripararsi dal freddo nei momenti comuni di preghiera all’aperto, le monache sopra le tonache rosse si coprono di sacchi di plastica trasparente. Ci sono per tutti i controlli medici più tradizionali, ma anche le flebo e le medicine. Ci sono coperte più pesanti e abiti più coprenti, ma i 100 giorni rimangono un momento di spiritualità molto duro. Alcune delle più fragili muoiono e negli stessi sacchi di plastica sono disposte in una zona comune simile a un altare, dove il loro corpo può tornare alla natura divorato degli uccelli (ricordiamo questo rituale raccontato nel film Le otto montagne), mentre alcune consorelle assistono e pregano per loro. I cibi vengono portati di casetta in casetta attraverso secchi di metallo che arrivano dalla grande cucina centrale. Qui almeno trenta persone tutto il tempo impastano a mano tagliolini che vengono poi cotti in brodo acqua calda in pentoloni grandi come delle vasche, riscaldati da una fumosa stanza sottostante che funge da enorme forno a legna. Ogni tanto questo piccolo popolo torna al monastero per le preghiere comuni nella grande sala centrale, accompagnate dai canti, gli strumenti musicali e i tamburi rituali. Dopo le grandi cerimonie si mettono ordinatamente in fila davanti alle guide spirituali, per ricevere un incontro personale per raccontare come stanno vivendo la loro fede e il loro percorso di vita. C’è chi ringrazia, riporta i suoi problemi di salute e chiede conferma sul fatto che stia vivendo la sua fede nel modo più corretto. C’è chi è parecchio confusa sulla dottrina, chi troppo taciturna o chi solo un po’ spaesata, ma ognuna di loro viene spronata con delle caramelle e un sorriso nel fare meglio i compiti, credere in se stessa e nella fede e non scoraggiarsi. Ci sono le anziane che chiedono il permesso per ricevere un rosario o due per la loro famiglia: magari “otto” se ce ne sono, per aiutare più persone possibili. C’è chi vuole pregare per chi ha fatto loro del male e allontanare sentimenti come la rabbia e vendetta, chiedendo il permesso per realizzare dei riti di purificazione. Le guide assecondano, confortano, qualche volta bonariamente sgridano ma tengono con tutte le donne un dialogo intimo e affettuoso, dalla mattina alla sera. Finiti i 100 giorni dell’isolamento le casette in legno vengono piegate e smantellate, la città ritorna a vivere con i suoi riti e giungono le feste della primavera fatte di balli, canti, preghiere e decorazioni colorate. Le attività di studio si fanno più intense, con le monache più giovani che vengono messe davanti a una specie di microfono per raccontare a degli uditori la loro conoscenze e il loro entusiasmo nell’affrontare il loro cammino spirituale. C’è chi è impacciata e perde il filo, chi mastica troppe parole difficili e si incespica, chi parla troppo veloce o esagera con i dettagli: ma la voglia di apprendere è molta e nessuna vuole tornare a una casa che neanche più si ricorda com'era. Una casa che forse dopo l’arrivo della Cina non c’è più. Si sta avvicinando di nuovo il periodo dei 100 giorni ma le cose non saranno più come prima. Le attività del monastero, per legge, sono ora tenute a ridursi e le luci che illuminavano la montagna come una grande casa sono ora molte di meno.
C’era una volta il Tibet e negli ultimi anni, per volere della Cina, sta scomparendo. Tra paesaggi naturali fuori dal tempo che hanno da sempre affascinato amanti della montagna, della cultura e dello studio delle religioni, compaiono oggi enormi cartelloni che inneggiano alla “nuova grande nazione che unita avanza”. I monasteri vengono letteralmente schiacciati dalle ruspe (non dissimile dalle “ruspe della modernità” del capolavoro Terra e Polvere di Rui Jiun Li), uno dopo l’altro, con le monache costrette forzosamente a essere “ricollocate nella società”, per lo più in attività agresti, con l’obbligo di sposarsi e “dimenticare”. È in questo mondo che c’è stato da sempre e oggi quasi non c’è più esiste anche il grande monastero di Yarchen, che ospitava al suo interno 10.000 monache, già ridotte per legge a meno di 4000. Un luogo misterioso tra la foresta e la montagna dove le donne arrivavano bambine con i capelli rasati, gli zainetti e le scarpine da ginnastica rosa per pregare Buddha e rimanervi fino alla fine, con il loro corpo ormai immobile offerto infine alla natura e agli uccelli (dei condor enormi), in un infinito riequilibrio tra uomo e natura. Il regista Jin Huaqing ha cercato per anni “le chiavi” per accedere a questo mondo e a queste persone (si dice dal 2014), per raccontarlo con il dovuto rispetto, umanità e amore delle tradizioni. Ma tristemente arriva con questa pellicola solo a testimoniarne gli ultimi giorni, quando le monache più giovani vengono costrette ad abbandonarlo di fatto decretandone lo smantellamento, con le più anziane che rimangono sempre più sole e isolate in questa grande città/università/santuario ormai vuoto, in attesa della definitiva demolizione o del “miracolo”: dell’intervento delle Nazioni Unite e dei Diritti Umani. È in questo senso interessante che la produzione della pellicola sia cinese, come a testimoniare oltre alla scomparsa di questo piccolo mondo antico anche la volontà di parte della stessa Cina di “fermarsi”: di ragionare su quale effettiva minaccia queste suore che vivono sulle montagne oggi davvero esercitino, per la loro unità nazionale.
Il film di Jin Huaqing racconta le piccole storie di questo piccolo popolo di monache, non troppo diverso da quello che si trova in altri monasteri della zona che stanno vivendo uno stesso tipo di decimazione. Persone pacifiche che vivono tra paesaggi, suoni e riti davvero unici, affascinanti, quasi da favola. La grande cucina sembra uscire dalla Città Incantata di Hayao Miyazaki. La descrizione di una quotidianità scandita dal trascorrere delle stagioni riporta a Kim Ki-Duk e al suo Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera. C’è la maestosità delle più alte e celebrate montagne al mondo, ci sono i suoni della natura che si intrecciano ai corni e ai tamburi in un modo che sarebbe piaciuto anche a Battiato, grande estimatore di quei luoghi. Ci si affeziona presto alle piccole storie di queste donne sorridenti anche sotto il gelo e coperte di plastica. Donne profondamente umili nel loro raccontarsi, gentili nel prendersi cura le une delle altre fino alla fine, rispettose e in assoluta armonia con la natura che le circonda mentre lavorano la terra, pregano e allevano animali. L’esempio perfetto di come dovrebbe essere una comunità pacifica e virtuosa dei giorni nostri: non a caso un posto che amaramente andrà distrutto a breve.
Il film di Jin Huaqing ci porta in un mondo che molti occidentali non pensavano esistesse e che infatti potrebbe scomparire di colpo. Jin Huaqing confeziona un film bellissimo, fatto di luoghi, persone, suoni e colori unici. Una pellicola realizzata con tanto amore e impegno civile, in grado di far riflettere, commuovere e magari, tra tanta bellezza, trovare l’armonia interiore.
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