mercoledì 29 dicembre 2021

Supereroi: la nostra recensione del nuovo film diretto da Paolo Genovese


 

Anna (Jasmine Trinca) e Marco (Alessandro Borghi) si incontrano un giorno a Milano, zona Navigli, sotto la pioggia, di sera, per caso. Si stanno inzuppando i vestiti davanti a un locale, in attesa che spiova, quando si scambiano la prima occhiata. È il momento perfetto per conoscersi, confrontarsi, riflettere sulla sfiga e  parlare della velocità di caduta della pioggia, come in un’opera romantica di Makoto Shinkai. Si piacciono subito, forse si amano, ma scelgono che sia il destino a decidere se si incontreranno di nuovo. Il destino risponde e ne fa presto una coppia  unità da ben 10 anni. 

Certo che restare insieme oggi, dopo 10 anni, è un’impresa difficile, quasi da supereroi. Ma Anna ,che per vivere disegna, si scopre presto avere il super-potere di leggere  il mondo “trasformandosi in Drusilla” (un po’ come la Lucrezia di Silvia Ziche), la protagonista di una striscia umoristica che diviene conosciutissima (il caporedattore è un Bebbe Severgnini in odore di santità) con cui affronta con ironia il quotidiano, conquistando anche uno spazio sulle scatole di cereali. Marco di contro è un super-scienziato alla Reed Richards, in grado di trovare per le sue lezioni di fisica dell’Università delle formula matematiche perfette per interpretare non solo il mondo, ma anche la vita delle persone. Come in Watchmen di Alan Moore, i nostri eroi dovranno cercare di sopravvivere al conto alla rovescia che scandirà la fine del loro “mondo di coppia”. Sarà difficile, anche perché la vita li metterà presto davanti ai più acerrimi nemici di una relazione di coppia: il lavoro di chi deve spostarsi per qualche tempo all’estero, la difficoltà ad avere figli, il confronto con i propri genitori (Anna ha per madre una “diabolica” attrice standup commedian anaffettiva interpretata da Elena Sofia Ricci), i vecchi amori che si ripresentato (come l’ex Pilar di Greta Scarano), la stanchezza. Riusciranno i nostri supereroi a sopravvivere?


Paolo Genovese dopo Perfetti Sconosciuti e The Place rimane sul territorio della sperimentazione e mette in scena una storia romantica e atipica sul fluire del tempo. Quasi alla Christopher Nolan ma anche alla Maurizio Nichetti, con un tocco di Shinkai. C’è la Milano romantica piena di fumetti di Ho fatto splash di Nichetti pur se aggiornata al 2022, al Cartoomics, ai cosplayers e alle riviste al femminile. Ci sono i personaggi che si confondono e sovrappongono ai cartoni animati come in Volere Volare. Ci sono i protagonisti principali che incontrano se stessi per strada, ma in diverse linee temporali, con età, abbigliamenti e acconciature diverse, un po’ come in Stefano QuanteStorie (e prima di Sliding Doors). È un mondo “nichettiano” pieno di colori e possibilità, ironia e malinconia. C’è invece l’influenza di  Nolan quando le leggi della fisica diventano dalla cattedra di Marco la  struttura e spiegazione narrativa delle relazioni di coppia. Azione e attrazione, decadimento e caduta, descritte in modo quasi scientifico, asettico, trasformando lo stesso mondo solare di prima in un luogo plumbeo, meccanico e senza uscita. L’amore è il bene che i “supereroi” possono preservare, la scienza il limite umano da combattere, il “villain” da sconfiggere. Ed è in questa tensione tra gli estremi che Genovese ci porta un un po’ anche dalle parti di Makoto Shinkai e al suo esuberante modo di leggere e farsi travolgere dall’amore. Ci sono echi degli scambi di vite di Your Name (dove la tragicità della vicenda è occultata come in un rebus per non diventare predominante), le riflessioni sulla distanza di 5cm al secondo (specie nella parentesi all’estero di Marco), la poetica delle affinità elettive che fioriscono di sorpresa, proprio nei giorni di pioggia, come nel Giardino delle Parole. È un mix intrigante la struttura di Supereroi, anche nel suo snodarsi piano piano, svelandosi a chi ha più cura nel seguirlo nei dettagli visivi e narrativi. Il film parte labirintico per poi iniziare a farci unire i tasselli del puzzle aguzzando lo sguardo, soffermandoci su barbe, soppalchi, vasi di terracotta. Sul finale tutto diventa più chiaro, ma la componente “enigmistica” è molto presente, è parte centrale del “gioco”, insieme alla poetica sui Supereroi che rimane sempre presente, quanto spesso sottotraccia. Non uno scontro alla Marvel o Dc, con i palazzi che si piegano sotto la magia e titani che appaiono dal cielo, quando un sincero omaggio all’uomo che può volare, come massimo simbolo di libertà e gioia, sovversione alle regole del “mondo”.

Molto brava Jasmine Trinca, che dà vita a una Anna piena di vita e di dubbi, che si butta nel mondo a testa bassa e per questo qualche volta si perde. Bravo ma non aiutato troppo dal make-up (ma può essere una “strategia voluta”) e dal personaggio “azimato” Alessandro Borghi, che sembra nelle varie fasi della storia dare corpo a figure troppo distanti, difficili da incastrare temporalmente (all’inizio sembrano quasi attori diversi). Nelle prime fasi il film può risultare in effetti un po’ complicato da seguire, quasi criptico, ma verso la fine e poi grazie a una seconda visione si “aggiusta tutto”. Il risultato finale, se non ci si perde troppo, rimane comunque appagante e qualche volta pure ci si commuove. 

Supereroi offre la conferma ulteriore del talento di Paolo Genovese nel saper raccontare vicende comuni con grande originalità e curiosità, facendo uso di linguaggi poco convenzionali. Una originalità di cui il cinema italiano ha tanto bisogno. 

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lunedì 27 dicembre 2021

West Side Stroy: la nostra recensione del nuovo adattamento di Steven Spielberg di uno dei più famosi musical di tutti i tempi


 

New York, metà degli anni ‘50. Siamo nell’Upper West Side, tra Central Park e il fiume Hudson. Mentre le palle demolitrici spazzano via un intero quartiere di palazzi fatiscenti in vista di una riqualificazione urbana che porterà i ricchi nelle periferie, tra la terra smossa e le macerie polverose, spavaldi e minacciosi come animali urbani, avanzano  i Jets. Si muovono in formazione, come colombi in planata e subito in picchiata, compiendo attacchi veloci e inesorabili ai passanti e ai negozianti, senza paura o rimorso. Non hanno niente da perdere perché non c’è più niente che sia “loro”. Sono gli ultimi “bianchi rimasti”, come li definisce il tenente Schrank (Corey Stoll), gli ultimi pervicacemente ancorati a un quartiere povero ora passato in mano ad altri: i “latini”. Nel West Side ogni cosa ormai è dei portoricani, dai ristoranti ai parrucchieri, e i Jets sentono il bisogno di “riprendersi da padroni”  un territorio che ora dovrebbe essere loro, la loro casa dove però non riescono a trovarsi un lavoro, sfogandosi con la violenza, eliminando le nuove insegne e imbrattando le nuove bandiere, alla ricerca di una restaurazione impossibile dello status quo attraverso la lotta di strada. Ma anche i portoricani hanno i loro guerrieri, gli Sharks, altrettanto tosti e pronti a menare le mani per difendere la loro gente, infilandosi in quel quartiere in demolizione carichi di coltelli e onore. La guerra tra bande sembra sul punto di deflagrare da un momento all’altro verso l’epilogo finale, partendo da un pretesto, una scusa qualsiasi. È necessaria una “fiammata forte”, perché la battaglia finale deve essere definitiva, anche se in fondo è una guerra tra poveri, dove il vincitore avrà al massimo l’onore di essere il gruppo che offrirà ai nuovi “padroni di città” le colf e i maggiordomi, gli operai e i facchini. Ma diventa una questione di principio, di “onore”. Riff (Mike Faist) il capo dei Jets, è teso e eccitato, si gioca il tutto per tutto e rivuole al suo fianco nella lotta il suo amico e uomo migliore, Tony (Ansel Elgort), anche se lui ha messo la testa a posto e riga dritto come commesso dell’alimentari gestito della latina Valentina (Rita Moreno). Anche il capo degli Sharks, il pugile Bernardo (David Alvarez) è sul piede di guerra e vuole combattere, anche se la sua ragazza Anita (Ariana DeBose) vorrebbe trattenerlo ed è imminente il fidanzamento di sua sorella Maria (Rachel Zegler) con il timido ma gentile Chino (Josh Andreas Rivera). Il pretesto per lanciare l’ultimo guanto di sfida è un ballo del liceo ed entrambi i gruppi sembrano determinati a non tornare sui loro passi, ma all’improvviso, per un imperscrutabile scherzo del destino, Tony e Maria, proprio a quel ballo scolastico, si incontrano e si innamorano. Riuscirà l’amore a fermare la guerra?


Il Romeo e Giulietta di Shakespeare rinasceva a grande musical nel 1956, scritto da  Arthur Laurents e Stephen Sondheim, con le musiche di Leonard Bernstein. Al posto della Verona medioevale, dei suoi castelli e delle ricche famiglie dei Montecchi e Capuleti, una New York della periferia degradata del periodo post bellico, tra palazzi popolari di mattoni scassati, con scale anti-incendio e panni stesi appesi alle finestre. Balli scolastici per l’integrazione razziale nella palestra di una scuola statale al posto di sfarzosi balli in maschera a corte per il carnevale. Campi di battaglia che si spostano dalla brughiera al deposito di sale per gli spazzaneve. Il cuore pulsante della vicenda è sempre Shakespeare anche se c’è un Riff al posto di un Mercuzio perché quella storia è ancora oggi attualissima e quindi ri-plasmabile, ri-modernizzabile come dimostrato negli anni novanta anche da Baz Luhrmann con Romeo + Juliet e la sua Verona Beach con i gangster dalle doppie pistole dorate e le camicie a fiori. 

Ma rimaniamo a West Side Story, che da musical “fa la storia” e diventa anche film, per la prima volta nel 1961. Un film che il piccolo Steven Spielberg ama, quasi venera. Nel cartone animato da lui prodotto con la regia di Don Bluth nel 1986, Fievel Sbarca in America, il piccolo topolino immigrato nel nuovo mondo canta “non ci son gatti in America” sulle stesse note del brano “America” di West Side Story e ci troviamo nello stesso clima, di speranza e “satira sull’integrazione” che trasuda dai brani di Bernstein. Spielberg culla a lungo il sogno di un suo West Side Story e quando oggi riesce a ultimarlo, liberandosi all’ultimo dalla produzione di un nuovo Indiana Jones, affronta la materia quasi con la stessa devozione filologica di Gus Van Sant per Psycho di Hitchcock. Sono poche le “innovazioni” narrative, ma chirurgiche. C’è una periferia “in demolizione e riqualificazione“, o se vogliamo essere tecnici in “gentrificazione”, usando un termine coniato da Ruth Glass nel 1964. Un luogo di ammasso di oggetti e sudore che diventa qui davvero molto simile alla periferia del futuro-presente dello Spielberghiano Ready Player One anche per merito delle monolitiche e quasi apocalittiche scenografie di Adam Stockhausen, che rileggono la storia ma la accentuano, ingrandiscono strade e innalzano i palazzi. Allo stesso modo la bellissima fotografia di Janusz Kaminski, con le sue notti plumbee ma anche le mattinate dai colori sgargianti, ci trasmette la doppia vita di queste “diverse cataste” ai margini dei quartieri dei ricchi: febbrilmente popolate, qualche volta grigie e pericolanti, ma cariche anche di ironia e autoironia, gentilezza e passione.  Non c’è come in Ready Player One una rete informatica che unisce le persone, ma ci sono comunque un’infinità di tralicci carichi di panni stesi che collegano umanamente ogni finestra e rendono quasi il cielo a strisce, “strisce di magliette appese”. Sempre come in Ready Player One, ogni  luogo accatastato è raggiungibile da una scala esterna di metallo, che parte dalle profondità, da sotto i tombini, alla maniera delle scale dei sottomarini, articolandosi su più piani con tutte queste scale sovrapposte che rendono poi quasi “a sbarre” ogni finestra che sovrastano, dando l’idea di una grande prigione urbana. La iconica “scala d’emergenza” di West Side Story del ‘61, a sua volta variazione del balcone di Giulietta di Shakespeare, assume qui un tragitto ancora più intricato e vertiginoso, sul vuoto. Tutto l’ambiente esterno però di punto in bianco si anima, attorciglia e corre grazie alla tecnica sontuosa con cui Spielberg dà vita ai suoi mondi. Tra droni, dolby, effetti speciali e telecamere a mano tutto il mondo balla e canta, dalle luci dei lampioni che allungano i corpi dei gangster in ombre minacciose e affilate  che si intersecano (magari un omaggio al Nightmare on Elm Street dello scomparso Craven) alle auto-van d’epoca che lanciano a tempo dei barili sulla strada, dalle palle demolitrici che girano su se stesse e colpiscono, alla stazione di polizia che diventa vittima di un “attacco d’arte” a base di schedari ribaltati. 


C’è poi narrativamente il nuovo personaggio di Valentina, interpretato da Rita Moreno, che era stata Anita nel film del 1961 e ora prende “spiritualmente” il posto del personaggio di Doc, la “figura paterna” che segue Tony sulla retta via. Valentina è una chiave narrativa struggente e il fatto che sia ancora la bravissima Rita Moreno a interpretarlo per i fan del musical ha un peso emotivo importante. Anche i “nuovi fan”, che guardano oggi la Anita della bravissima e bellissima Ariana DeBose dovrebbero fare caso a questo dettaglio perché queste “doppie Anita” si completano e quasi fondono, raccontando forse un personaggio unico, dal percorso “più lungo”, in grado “da sole” di dare voce alle mille difficoltà dei problemi di integrazione tuttora presenti in America.

Justin Peck coreografo e ballerino del New York City Ballett già premiato ai Tony Awards smussa qualche linea classica per un approccio più “urbano”, realizzando combattimenti-balletti più duri per le bande dei Jets e Sharks, ma trova la vera musa nella straordinaria e bellissima Anita della DeBose, interprete che sa essere nella danza prorompente quanto sensuale, atletica quanto aggraziata.  David Newman adatta con garbo assoluto le canzoni di Bernstein, quasi non toccando nulla, in punta di piedi; il quadro è completo, l’omaggio è compiuto. West Side Story di Spielberg è un film magnificamente confezionato sotto tutti gli aspetti, ma che rimane e vuole fieramente rimanere l’adattamento fedele di un classico del musical, realizzato da un regista del tutto devoto a quel mito. Sarebbe completo il giro se Spielberg provasse a portarlo poi a teatro, con la stessa ottima compagnia, trovando lì una diversa sintesi del suo talento visivo, magari giocando con immense scenografie mobili. Da amante dei musical farei carte false per vedere a teatro West Side Story con la regia di Spielberg. 


Come trovo cosa buona e giusta che in questo periodo storico disastrato in cui i teatri e i musical si sono dovuti fermare, il cinema abbia realizzato un così accorato e sentito omaggio a questo tipo di spettacoli. 

Nonostante il minutaggio poderoso, West Side Story di Steven Spielberg abbraccia e coccola ogni fan dello storico musical in uno spettacolo visivamente eccelso e che riesce al meglio a sfruttare la magia della sala cinematografica. Non farà cambiare di una virgola il parere di chi non ama i musical, perché sceglie di seguire in tutto e per tutto quel linguaggio e tipo di narrazione, ma per qualcuno questo West Side Story potrebbe essere anche la chiave per scoprire e appassionarsi ad un genere nuovo e che il cinema dovrebbe rappresentare di più.

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giovedì 23 dicembre 2021

Run - un travolgente thriller con Sarah Paulson



Chloe (Kiera Allen) è un'adolescente di 17 anni, molto malata, che vive da sempre su una sedia a rotelle, accudita amorevolmente dalla madre Diane (Sarah Paulson) nella loro casetta tra i boschi. Chloe studia a casa, è molto intelligente e portata per le materie scientifiche e presto dovrebbe arrivarle la tanto agognata lettera di ammissione a un college prestigioso, la prima occasione in cui finalmente potrà uscire di casa e vedere il mondo. Diane è l’insegnante, infermiera e madre di Chloe, cura un orto botanico dal quale ricava ogni verdura bio a chilometro zero per la figlia, va agli incontri con le madri con figli disabili, insegna al liceo, sorride sempre. C’è tanta calma e gioiosa complicità tra le mura domeniche, ma ultimamente la rete internet non funziona e lo stato di salute di Chloe non riesce a migliorare. Tutto il mondo sembra avercela con lei e alla sua idea di andare all’università, fino a che Chloe scopre nella borsa della spesa un misterioso boccetto con delle pillole per errore non prescritte per lei, ma per la madre. Sarà da quel momento che la vicenda inizierà ad avere senso nuovo.


Aneesh Chaganty scrive e dirige un horror/thriller psicologico “a due”, con in scena per quasi tutto il tempo due brava attrici cone Kiera Alien e Sarah Paulson. Inizia quasi come una piece teatrale sul rapporto madre e figlia, muta in un film di spazi e ricerca di stampo quasi investigativo, finisce quasi come un ottovolante ma non perde mai un colpo, non tradisce mai la sua struttura. La Paulson è una delle attrici più talentuose degli ultimi anni, vincitrice di un sacco di premi internazionali per ruoli drammatici ma che ama cimentarsi anche con generi meno “premiati”, come il thriller e l’horror. Come Anthony Hopkins “potrebbe recitare qualsiasi cosa”, ma si diverte un mondo nei ruoli da “cattiva”, riuscendo a portare in scena personaggi complessi quando “matti”. Personaggi in genere belli e pericolosi, come l’infermiera protagonista della recente serie Netflix Ratched, in grado di passare in un battito di ciglia da uno stato emotivo  amorevole ed empatico agli occhi  di ghiaccio e sorrisi tirati di una creatura maligna. Il personaggio di Diane come Mildred Ratched vive in un mondo emotivo distorto a cui cerca di dare un senso. Alla ricerca impossibile di una soluzione, muta camaleonticamente pelle e carattere in continuazione, si ripete dei mantra per restare calma, pur nei momenti più folli non riesce ad esternare sul viso l’odio. A modo suo è una madre amorevole e molto preoccupata per la salute della figlia. Una madre dolcissima e premurosa quanto a volte “meccanica e assente”, che quando compie azioni riprovevoli lo fa per lo più “fuori dalla scena”, come se il mostro che vive dentro di lei non sia autorizzato a rivelarsi in pubblico. Kiera Allen, giovane ma già bravissima, interpreta la dolce Chloe. Figlia modello di una madre modello, gentile e positiva. Ma con un carattere forte più di quello che si potrebbe immaginare, che ne fa all’occorrenza una straordinaria final girl, quando la pellicola inizia a seguire i topoi del genere home invasion. Arguta, lucida e piena di risorse, Chloe non può camminare da sola, è debole come uno scricciolo e sta perennemente male. Eppure tutto ciò che fa è logico, preciso e qualche volta addirittura eroico. Diane e Chloe danno luogo a uno scontro molto raffinato, intelligente.  La cinepresa ci fa stare spesso a contatto con Chloe tra i corridoi della casetta famigliare, mentre Diane agisce nell’ombra, comparendo all’improvviso con qualche sorriso tirato di troppo. Seguiamo Chloe dalla prospettiva della sua sedia a rotelle, che incede con una velocità più simile al triciclo di Shining di Kubrick quando alle moto-telecamere della Casa di Raimi. Nella costruzione delle scene d’azione tutte le barriere architettoniche e i limiti fisici di Chloe diventano elementi interessanti di realismo e tensione, in grado di contribuire al meglio a un'atmosfera claustrofobica, ostile. Il bello di Run è che è letteralmente un film con in scena due donne ambientato per lo più in una casetta, ma in cui non ci si annoia mai. Vengono gustosamente citate nelle meccaniche La finestra sul cortile quanto Misery non deve morire, ma il “cuore narrativo” mi ha ricordato soprattutto l’ottimo thriller italiano The Nest ( il Nido), dove una straordinaria Francesca  Cavallin dava voce ad un personaggio davvero simile a quello della Paulson. Se sul piano dell’horror “alla Psycho” tutto funziona in modo preciso, percorrendo le  “liturgie” che il genere impone, lo spettacolo rimane fresco e accattivante grazie soprattutto al meraviglioso e costante dialogo di due attrici che si incontrano, si scontrano, si separano e fondono fino a confluire in egual misura e contrappasso in un finale “identitario” che sconvolge, sulle prime sembra “giusto”, ma quando metabolizzato più in profondità sembra quasi struggente, quasi una perversa dichiarazione reciproca di amore. Davvero un bel film. 

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mercoledì 22 dicembre 2021

Death Shield volume 3 - la nostra recensione


(Riassunto delle puntate precedenti) Nella città di Shin si erge la Shield Tower, sede della più importante e prestigiosa società fornitrice di guardie del corpo, la Life Shield. Ma al di sotto della Shield Tower si cela una torre speculare, sede della misteriosa Death Shield. La Death Shield ha per clienti persone in genere potenti e pericolose, che vivono in modo molto rischioso e di conseguenza possono qui fare affidamento su agenti speciali dotati di un potere unico: la precognizione. I precognitivi hanno un istinto supersviluppato, simile a quello di certi animali feroci, che permette loro di anticipare di qualche secondo una minaccia mortale imminente. Se addestrati a dovere, questi rari e preziosi soggetti possono riuscire anche a contrattaccare e ribaltare le situazioni più disperate. I servigi della Death Shield sono costosi e riservati a pochi. Trovare un precognitivo e addestrarlo è un incarico difficile, anche perché le persone che hanno tutto questo potere spesso hanno un animo instabile. Il giovane Kaito, precognitivo a capo della sezione Death Shield, possiede metodi di ricerca e reclutamento spietati e spesso non ha la giusta calma per trattare con i nuovi membri. Incontra così un giorno il promettente precognitivo Kris con una ricerca sul territorio. Lo testa e lo recluta, gli instilla la determinazione per diventare uno degli agenti migliori. Ma si fa odiare da lui. Così Kris, che meno di quattro mesi prima era un ragazzo normale e sorridente, impacciato e in cerca di lavoro alla fine degli studi, diventa un assassino a sangue freddo. Un uomo capace di uccidere a ripetizione degli innocenti come fossero “oggetti”, pur di attirare l’attenzione di Kaito e vendicarsi su di lui. Compiuta la sua vendetta, Kris viene scelto a sorpresa come nuovo capo della Death Shield dal misterioso Magus. 


Il fumetto scritto da Luca “Mangaka96” Molinaro e disegnato da Giorgio Battisti partiva da un’ottima idea di base che ricordava in qualche modo il classico Il mio nome è Remo Williams (o i combattimenti di Sherlock Holmes di Guy Ritchie per i più giovani), mischiando in modo “filosofico” sparatorie e arti marziali. I disegni, che ricordavano un po’ lo stile sobrio degli anime anni ‘90 (stile la serie basata su Virtua Fighters) erano molto stilizzati nei fondali ma appropriati per la messa in scena di una trama dai risvolti “mistey/investigativi/introspettivi”, un po’ dalle parti di Death Note. Il ritmo narrativo era spigliato, la scelta di seguire il racconto dal punto di vista di un personaggio misterioso ma “amichevole” come Kris interessante e al contempo “spiazzante”, specie quando il ragazzo iniziava a sbarellare diventando un killer quasi inconsapevole, la vittima di un gioco di potere che gli aveva fatto il lavaggio del cervello e prosciugato ogni senso morale. Una vittima che per lo più vive isolata dagli altri e si commuove solo a guardare un cielo stellato, che arriva a riconoscere nell’esistenza umana solo una acritica scalata al potere, ben rappresentata dalla “torre da scalare”, dai piani interrati fino alla cima, in cui si svolgono gran parte degli eventi. Potere per potere. Donne-trofeo ideali oggetti del “sé glorioso” narcisistico. La visione utilitarista della vita altrui che arriva all’oggettivizzazione più totale, quando vengono uccise delle persone a caso perché fungano da “messaggio sms”. La più semplice quando perfetta immagine della deriva del pensiero liberista che avvolge da due secoli la società occidentale. Veniva davvero voglia di divorarlo, il fumetto. Capitolo dopo capitolo. Se tutto funzionava abbastanza bene nel primo numero, con il secondo, nonostante l’affiorare di alcuni “problemi”, la voglia di andare in fondo alla trama non calava. C’erano di fatto molte ingenuità, come descritto nel nostro precedente articolo legato al manga, causate in parte dalla giovane età degli autori, come dalla voglia di stupire a tutti i costi. Ma si avvertiva anche la sensazione del grande potenziale di crescita di entrambi gli autori, che aspettavamo di cogliere in questo terzo volume. 

Ed eccoci al volume 3.


(Death Shield volume 3 di 4 complessivi). Kaito, capo della Death Shield è caduto dalla cima del palazzo e viene dichiarato morto. Magus, capo della Life Shield e capo “di tutto”, offre a sorpresa a Kris il perdono assoluto da tutti i suoi misfatti e gli offre il posto di Kaito. Il ragazzo, ebbro di potere, accetta. 

Kris è il nuovo capo del Death Shield, la società ha un approccio più “amichevole” rispetto a quello che aveva adottato Kaido per il reclutamento, arrivano buoni risultati, il successo, il riconoscimento, donne e navi sulle quali fare feste faraoniche. Ma Kris non è felice e pensa che l’unico modo per esserlo sia andare ancora più in alto nella torre, alzare l’asticella del suo status, defenestrare Magnus e prendere il suo posto. Poi boh, magari non si accontenterà neanche di quello, ma per ora non pensa ad altro. Ma ecco che arriva una situazione alquanto surreale, buffa quanto illuminante. C’è qualcun altro che vuole far fuori Magnus e mettere a capo della baracca Kris e Kris è d’accordo! Ma quando questo gruppo decide di agire, Magnus ha deciso spontaneamente di cedere tutta la baracca a Kris, perché molto ammalato, perché lo stima e perché non vede nessun altro in quel ruolo. Di colpo la “foga di potere” di Kris si inclina, ma ed ecco che accade il “patatrac”. Un patatrac che ci fa nuovamente riflettere sulle capacità di Kris di prevedere gli eventi… Ma soprattutto che ci apre dubbi su quale sia il vero piano di Magnus. Perché questi ha accettato senza battere ciglio che Kris uccidesse Kaito per poi affidargli le chiavi del potere? 

Con il numero tre del manga, Mangaka96 si prepara a “chiudere la storia” con il prossimo capitolo, forse in modo troppo frettoloso. Abbandona così una trama orizzontale possibile e fatta di nuove missioni e nuovi personaggi e va al succo, all’intrigo di potere centrale all’intreccio. Il numero tre diventa così un thriller con solo una parte finale dedicata all’action e ai superpoteri. Viene aperta con poca convinzione una veloce linea narrativa sullo sfruttamento scientifico dei precognitivi, arriva un plot twist molto “prevedibile” e il “cast” dei personaggi viene sostanzialmente a ridursi a tre persone in croce, due secondari e alcune comparse senza volto. La questione della “scalata al potere” è così ripida che fagocita ogni altra linea narrativa ed evoluzione logica e psicologica, al punto che nel lettore-tipo possono insorgere le classiche domande “arrabbiate” di chi vede un mondo narrativo ridursi ad una linea retta. Domande tipo: “Irrompere in una torre fantascientifica piena di soldati con poteri precognitivi, armati ma in grado di uccidere anche a mani nude, può essere davvero più facile che entrare in una discoteca protetta da un buttafuori?. Oppure: “Tra telecamere di sorveglianza, agenti di ronda e un sistema gps sottocutaneo che di fatto monitora e rende impossibile la fuga di chi sta dentro, possono mancare anche solo 2 telecamere in bianco e nero che controllino il cancello all’ingresso come quelle che ha il mio vicino di casa?”. Oppure: “Possibile che si accorgano del casino seguente all’assalto, con tanto di elicotteri e sparatorie,  solo tre persone, quando invece dovrebbe partire un allarme generale? Possibile che nessuno dei precognitivi della torre, che sono centinaia, abbia la precognizione di un assalto e di conseguenza nessuno faccia qualcosa?”. Sembrano davvero  tutte domande la cui risposta avrebbe richiesto almeno altri tre numeri del fumetto. Numeri che  però forse gli autori non potevano o non potranno sviluppare per ragioni che non conosciamo. È un peccato che alla fine Death Shield, con un potenziale action alla “Matrix”, ci cali mestamente in un mondo “piccolo”, abitato letteralmente da tre persone. Un piccolo mondo abitato da persone con “superpoteri” che si palesano solo quando l’autore si ricorda. Un mondo in cui le persone precognitive perdono tempo a calcolare al millimetro la distanza di chi si trova in una stanza, per cercare una strategia o vie di fuga, e poi si espongono su un balcone all’aperto al mirino di cecchini di cui ignorano la reale intenzione. 



Tutto questo è “recuperabile” con il quarto volume? Scaturirà una riflessione sulle inspiegabili ingenuità di personaggi che l’autore vuole continuamente presentarci come super-intelligenti? 

Un po’ voglio crederlo. Un po’ voglio credere che Death Shield diventi una apologia sul potenziale sprecato per la troppa ambizione e una critica sociale a un mondo che sembra nutrirsi solo sull’ambizione di potere. 

Di fatto ci sono nel terzo volume anche aspetti positivi. Il personaggio di Kaido assume un senso più ampio e ci potrebbero essere ulteriori sorprese per il futuro. La ragione reale per cui Magnus agisce getta una nuova luce sui reali fini per cui potrebbe esistere la torre. La paranoia e la difficoltà di autocontrollo di Kris anche “a causa dei suoi poteri” ci rimandano ad alcune figure di newtype della saga di Gundam

Questo numero “taglia corto e semplifica”, forse anche per sopraggiunte esigenze editoriali, ma possiede comunque un buon ritmo narrativo. I disegni di Battisti sono più solidi e convincenti e  una trama fatta più di thriller che di azione si sposa maggiormente  al suo stile. Migliora la caratterizzazione grafica dei personaggi, compare a sorpresa un interessante mecha design, il lavoro sui fondali è più convincente. Le scene d’azione della parte finale sono concitate ma interessanti, davvero “fighe”. 

Meno convincente del primo volume, decisamente meglio del secondo, per ora sospendo il giudizio su questo volume tre in attesa della  lettura del numero finale, in attesa di una svolta che lo completi. Segnalo per ora come comunque il progetto risulti piacevole a una lettura non troppo analitica e ogni tanto sia davvero in grado di sorprendere in modo genuino. Se Death Shield è il primo banco di prova di questi giovani autori, la prossima opera potrà di certo volare più in alto. Correggendo al meglio le asprezze ora evidenti, mettendo più a fuoco i punti di forza. Stando più sui personaggi e il loro mondo e meno sul senso universale che l’opera dovrebbe avere. Ma sono quasi aspetti che si possono aggiustare perché gli autori li vedo abbastanza “vicini” a quell’esito.  Avanti così. 

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martedì 21 dicembre 2021

Il colore della libertà (Son of South): la nostra recensione del film prodotto da Spike Lee sull’attivista Bob Zellner

 

Siamo in America, stato di Alabama, presumibilmente intorno agli anni '50. Ai bambini si fanno credere le cose più strane. A Joanne (Lex Scott Davis) hanno raccontato che i capelli biondissimi dei ragazzi bianchi “sanno di pollo fritto”, quando vengono bagnati. A Bob (Lucas Till) hanno spiegato che non è igienico riempire la sua pistola d’acqua dal rubinetto pubblico destinato alle persone di colore. Poi i due ragazzi sono cresciuti, diventati adolescenti e hanno iniziato pure loro a provare sensazioni contrastanti, che li facevano sentire un po’ diversi da chi li circondava, forse “strani”. Bob si sentiva in colpa quando lo costringevano a tirare per strada dei sassi alle persone di colore, perché a differenza dei suoi amici non lo trovava un passatempo troppo divertente. Joanne era invece andata a vivere all’estero ed era confusa sul fatto di non ritenere i ragazzi francesi dei “ragazzi bianchi”, anche se la loro carnagione era indubbiamente caucasica. Di confusione in confusione, Bob un giorno finisce nei guai quando per una tesina sui diritti umani chiesta dal corso che frequenta prova ad interessarsi dell’opinione delle persone di colore che seguono il reverendo Abernathy (Cedric The Entertainer). Viene quasi espulso, manda quasi a monte la sua relazione con la bellissima Carol Ann (Lucy Hale) e sconforta tantissimo il nonno (Brian Dennehy), figura di spicco dei suprematisti bianchi dell’Alabama. Ma suo padre lo consola perché anche lui si era sentito strano, anni prima, quando aveva accompagnato all’estero un gruppo canoro di colore: quando era tornato a casa aveva provato la strana sensazione, per molto tempo di “non vedere più i colori” e forse è lui che ha attaccato al figlio “questa strana malattia”. Di confusione in confusione Johanna partecipa nel 1961 a una marcia pacifica per l’integrazione, i “freedom riders”, nello spirito della protesta non violenta di Ghandi, e finisce quasi picchiata a sangue, costretta a nascondersi in una biblioteca. Fino a che arriva a salvarla, portandola in braccio verso un riparo, un principe azzurro bianchissimo, proprio il nostro Bob. Forse è l’occasione per testare se quei capelli biondi bagnati sanno davvero di pollo fritto.



Credo che la giusta via per parlare dei problemi di integrazione razziale passi dalle semplici ma traumatiche iperboli di cui si compone questa piccola ma riuscita pellicola prodotta da Spike Lee. Da un lato c’è la bella e poco conosciuta storia vera di Bob Zellner, attivista a favore delle persone di colore in Alabama con un nonno esponente del KKK: aspetto che rendeva quantomeno problematico e a volte surreale “redarguirlo”. Zellner è stato una figura importantissima nel processo di integrazione (addirittura rappresentato nei libri per i più piccoli da colorare), che ha saputo esporsi in modo pacifico e inattaccabile, dando corpo a un movimento che oggi è molto strutturato. Un rispetto con cui è riuscito a  guadagnare la fiducia di persone che sulle prime erano un po’ “incredule”, vedendo questo ragazzone biondo muovere i primi passi per aderire all’SNCC, il comitato studentesco per la non violenza. Per altro verso il film ci suggestiona, più che con mille parole e attestati,  proprio attraverso piccoli episodi semplici quando “al limite”, storielle in cui un osservatore esterno, come noi italiani nello specifico, al giorno d’oggi, può sentirsi per lo meno spaesato. Come quando un fattore, reo confesso dell’omicidio di una persona di colore, dichiara candidamente: “era mio amico, gli ho prestato i soldi per comprarsi la casa. Ma lui oggi voleva votare”. Come quando il reduce di guerra suprematista dice: “Sotto le bombe in Corea eravamo tutti americani e ho salvato la vita a molti di colore, portandomeli anche sulle spalle sotto i proiettili. Ma ora sono a casa e le cose sono diverse e li detesto di nuovo”. Quello che emerge da questi piccoli racconti, per lo più tratti dalla cronaca, è un odio confuso, “situazionale”, intermittente, con il personaggio del nonno che un po’ capisce il nipote perché “le donne di colore sono bellissime e gentili”, ma poi indossa il cappuccio bianco e brucia croci. Il film non va alle radici dell’odio (ma se vi interessa il tema vi consiglio anche Free State of Jones, di Gary Ross, che parla di un precedere storico che può essere significativo), ma trova modalità per esporlo nei suoi risvolti più contraddittori, guardarlo come fosse uno strano bug dell’inconscio collettivo più che una chiara convinzione precisa. Il colore della libertà in questa ricerca di contenuti sceglie di “non urlare”, come sentendosi di fare quanto invece Spike Lee aveva già espresso in Fa la cosa giusta. Mette inoltre in scena il training con cui gli attivisti si preparano a un confronto secondo le regole della non violenza di Ghandi. Ci parla di come una parola risulti offensiva quando viene storpiata e arrotolata nella pronuncia, diventando una specie di verso più che una definizione. Ci parla della possibilità di stupirci del pollo fritto che irradiano i capelli biondi con la curiosità buffa di quella che può essere una favola e forse un modo più “gentile e curioso” di relazionarci con persone di etnie che non conosciamo. La messa in scena in qualche caso può apparire non troppo cinematografica, gli attori sono in parte e il ritmo è buono, ma i messaggi che vogliono essere veicolato arrivano e spesso sono originali, interessanti. C’è poi come ciliegina finale una nota surreale e sarcastica, di stampo sociologico, alla Django Unchained come un po’ alla Blackkklansman. Film piacevole e utile per riflettere. 

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lunedì 20 dicembre 2021

One Second: la nostra recensione del nuovo film di Zhang Yimou

 


Siamo in Cina, negli anni ‘60, in un territorio sabbioso e poco abitato che sembra uscire da un film western. 

C’è un fuggitivo (Zhang Yi), che insegue la moto dell’addetto alle bobine di un cinegiornale, lungo le tappe del suo itinerario. Su quella pellicola, che passa di paese in paese, per poco meno di un secondo c’è qualcosa che per lui è importate, ma i cinegiornali si possono vedere solo nei cinema, che sono frequentatissimi e al centro delle città, mentre è davvero complicato vederli in altro modo. Lui è evaso, ha vestiti usurati e l’aria stravolta, può essere riconosciuto e dover tornare in prigione, ma guardare quella pellicola può essere per lui più importante, quasi una ragione di vita.

C’è poi una piccola ragazzina (Fan Wei),minuta e dall’aria disordinata, affamata e un po’ incarognita dalla vita. Senza farsi vedere una sera ruba proprio quella pellicola, davanti agli occhi increduli del fuggitivo, mentre l’addetto è per un momento distratto. 

Inizia tra i due un tragicomico inseguimento per contendersi la preziosa bobina, in cui i ruoli di chi la detiene passeranno più volte di mano, spesso come effetto di situazioni e incontri spassosi quando surreali. La storia vedrà i due più volte rivali o complici: come se questa loro competizione infinita seguisse regole al di fuori delle “ragioni del mondo” e i due si sentissero quasi parte di qualcosa di speciale, al punto da proteggersi reciprocamente e considerarsi in fondo amici. 


In cosa consiste la vera “magia” del cinema? Vive in quelle ombre colorate e quei suoni che si animano nel buio della sala? Si nasconde nel rito collettivo che permette a più persone di radunarsi in un unico locale per stare una vicino all’altra, in silenzio, a “condividere emozioni”? Respira nella sua capacità di farci concentrare attraverso gli attori e la narrazione, su quei singoli “momenti importanti”, che nel mondo reale ci sfuggono? C’è chi piange e ride al cinema e solo al cinema. C’è chi sogna, chi osserva divertito e sorpreso i volti di chi ha accanto (per vedere se provano le sue stesse emozioni), chi sfida il suo coraggio guardando un film horror, chi entra per cantare le canzoncine di un cartone animato con i suoi bambini, chi si nasconde nel buio per scambiarsi effusioni, c’è chi non riesce proprio a stare zitto perché nel buio della sala si sente poco protagonista. C’è un ricco e variegato mondo, in una sala cinematografica. C’è una frase, scritta sulla parete della sala 1 del cinema Odeon di Milano, che recita: “ex  tenebris vita”. Ed è verissima. Onora al meglio quella particolare magia che la luce del cinema irradia in una sala buia. 



Zang Yimou è maestro indiscusso del cinema, non solo “asiatico” in senso stretto. Negli anni ha saputo parlare tanto di sentimenti tormentati (Ju-Dou, Lanterne Rosse) quanto di politica (attraverso il satirico  Keep Cool), di contrasti tra tradizione e modernità (nella piccola odissea “burocratico-morale” de La storia di Qui Ju), del mito da cui nasce una nazione (dove le arti marziali di Hero si trasfigurano in immagini che sanno parlare per astrazione anche di cultura e letteratura), di teatro shakespeariano (dove c’è molto Amleto ne La città proibita), di favola (ne La foresta dei pugnali volanti, dove ci sentiamo quasi su una luna boscosa di Star Wars), di scuola e futuro (tra i bambini e l’insegnate bambina di Non uno di meno), integrazione culturale (anche usando il linguaggio degli action movie, come in  The great wall). Oggi Zhang Yimou ci parla con la sua nuova opera di “cinema”, nel senso più ampio e totale, quello della magia potente e inebriante che scaturisce dalla pellicola. Lo fa attraverso un Road movie ambientato in Cina negli anni ‘60, in un luogo di “interminati spazi e sovrumani silenzi” (per dirla con Leopardi) che segue le regole di un western, in cui si agitano e rincorrono un uomo e una bambina che sembrano usciti da un film comico (e malinconico) di Charlie Chaplin. Un po’ Tempi Moderni, un po’ Il monello, un po’ Nuovo Cinema Paradiso. Ma anche un po’ Lo chiamavano Trinità, per quella voracità e gusto con cui gli affamati protagonisti spazzolano via piatti interi di cibo per far fronte a una fame atavica. Poi c’è anche  un po’ Nitrato d’argento di Marco Ferreri e ovviamente Bastardi senza gloria, dove il cinema diventa anche riflessione su quella pellicola originaria lunga metri e metri, da maneggiare con cura quasi sacerdotale, infiammabilissima e in grado di ingigantire oltre misura le immagini che proietta in modo sorprendente, qualche volta pericoloso, stordente. Dire di più sarebbe fare un torto a un lavoro tanto raffinato e accorato, simile quasi ad una dichiarazione d’amore. One second va scoperto nello stesso buio della sala di cui parla, ora che pellicole e sale al buio sembrano sempre più superate e deserte e il rito collettivo, di sederci a fianco di sconosciuti per condividere emozioni, sembra sempre più una cosa strana. Molto bravi e in parte gli attori, che hanno trovato una intesa sulla scena davvero unica. Molto belli i paesaggi, tra il “vuoto desertico” del 
mondo esterno e il calore e l’attesa febbricitante che si muovono nei pressi della sala cinematografica. One Second irradia autentica magia. 

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domenica 19 dicembre 2021

House of Gucci - la nostra recensione del nuovo film di Ridley Scott

 


Siamo nella Milano anni ‘70, con la “Milano da bere” ancora lontana ma non così tanto, perché c’è già “fermento”. C’è un fermento simile (ma di diversa natura) anche in uno dei posti più magici del mondo per iniziare una storia d’amore: la storica libreria Cortina, davanti all’Università Statale (o almeno così pare dalla posizione). Lui si chiama Maurizio, è un ragazzone magrolino dall’aria un po’ allampanata e gli occhi buoni (Adam Driver). Vuole studiare legge per andare via da tutte le beghe familiari: tra il malinconico e scostante padre/attore-mancato Rodolfo (Jeremy Irons), lo zio d’America Aldo (Al Pacino) troppo distante per capirlo e la fabbrica di borse “un po’ vecchiotte” che incombono sul suo futuro. Lei si chiama Patrizia, è una gnappetta un po’ tarchiatella ma peperina, con dagli occhioni enormi e così azzurri da sembrare Liz Taylor (Lady Gaga). Lavora nell’ufficio dell’impresa paterna (il papà è interpretato da Vincent Riotta) operante nel settore del trasposto gommato e sogna il grande amore, intravisto di sfuggita alla maxi festa in maschera dai conti Serbelloni Mazzanti (di fantozziana memoria) e scambiato sul momento per il barman. Quel grande amore che ora è lì, davanti a lei, tra i mattoni polverosi di procedura civile della Cortina (o così pare) e l’aria di uno che non riesce a sollevarli con troppa convinzione. I due si presentano come si deve, si piacciono e scappano in vespa direzione lago di Como, trovandosi subito davanti alla più classica e romantica delle giornate sul lago di Como (per chi lo conosce e lo vive): in barchino a remi in due con nebbia totale a visibilità zero, acqua gelata e rischio concreto di cadere negli abissi, dove non troveranno mai più i corpi. È amore vero, anzi “l’Amore”, quando poi lui decide di andare via dalla “casetta paterna di migliaia di metri quadrati” dopo che il genitore, ex attore borioso, non vuole saperne della sua nuova tresca, che rischierebbe nel breve periodo di vedere legato il suo nome, altisonante dal glorioso passato, con una famiglia di “camionari”, come quella di Patrizia. Maurizio si fa le ossa lavorando insieme a quei camionari, vivendo con loro e giocando a gavettoni mentre puliscono i mezzi, in canotta, fino a che i due si sposano, con i nobili Gucci che disertano in toto la cerimonia. Ma lo zio Aldo poi ci ripensa e cerca di riagganciare i ponti. Suo figlio Paolo (Jared Leto) è troppo naif per ereditare l’impresa di borse, lui è anziano, Rodolfo misogino e Maurizio rimane l’unico degno erede possibile. Aldo troverà un assist importante proprio da Patrizia, che si rivelerà donna ambiziosa quanto abile stratega, in grado non solo di ricucire i legami familiari ma pure di rilanciare in alto il marchio verso nuove vette, con nuove idee e un sincero coinvolgimento per la causa comune. La  donna un tempo “gnappetta” appare di colpo a Maurizio bellissima bellissima (scrivo due volte per rafforzare), anche sotto la pioggia di una New York autunnale in bianco e nero, da ammirare come una diva del muto. I “gucci” con lei stanno per diventare i “Gucci”. Poi accade il “patatrac”. Beghe di soldi e finanza, casini e burocrazia presi sotto gamba, un po’ di cattiva gestione. Maurizio scappa in moto in Svizzera scoprendo che a Patrizia preferisce la bella Paola Franchi (Camille Cottin), l’amica di tante vacanze sulla neve di gioventù: bellissima, altissima, biondissima e con il naso strano. Di colpo ritrovata e subito riportata nella sua vita, insieme a tutta la vecchia cumpa degli amici fighetti, pronti a nuove sciate tutti insieme con in sottofondo Last Christmas dei Wham!. Patrizia raggiunge il marito sul set di questa specie di cinepanettone dopo aver cercato di spegnere i casini economici, ma appare subito fuori posto. Troppo gnappetta, nera come Calimiero, picchietta il cucchiaino sulla tazzina di caffè come un martelletto (e ha pure le sue ragioni dopo aver scoperto questo improvviso “volto galletto” del marito) ed è così poco “fashion”. Maurizio scappa e cambia tutti i lucchetti delle ville, si mette in casa la bionda dal naso strano, inizia a sognare in grande e arriva a chiamare Tom Ford per trasformare la sua azienda in qualcosa di enorme, dando fondo quasi a tutte le risorse nella realizzazione dell’impresa. Patrizia cerca di riaggiustare le cose, chiama e lui non risponde, lo segue e lui la tratta male, fino a che lei sceglie di servirsi dei poteri spiritici (e non) della medium Pina (Salma Hayek), conosciuta in passato durante una trasmissione televisiva notturna in cui leggeva le carte. Aldo intanto sarà in piena balia del figlio naif.  Finirà “a schifio”, ma prima il marchio Gucci volerà alto come non mai.


House of Gucci è una commedia nerissima, basata sul libro di Sara Gay Forden che adatta molto liberamente la vera storia della famiglia Gucci (al netto di qualche figlio in meno nella conta totale e situazioni e contesti non verificabili), leggendola nella chiave di una scalata al potere che non fa prigionieri. Ridley Scott ama rappresentare  al cinema gli uomini di potere, spesso leggendoli come figure tragiche incapaci di amare se stessi, amici, amori e financo i propri figli, alla costante ricerca di qualcosa di “più grande”, anche se indefinito, quella che i greci chiamavano “Hybris”. Il dottor Tyler di Blade Runner (Joe Turkel) amava suo “figlio” Roy Batty (Rutger Hauer) ma lo condannava a essere schiavo per poi morire in pochi anni per “un bene superiore” (ed economico). Ne Il Gladiatore, l’Imperatore Marco Aurelio (Richard Harris) non permetteva al figlio Commodo (Joaquin Phoenix) di succedergli per la volontà di far rinascere “la Repubblica”, facendosi ricordare come ultimo sovrano assoluto. In Tutti i soldi del mondo il milionario Paul Getty (Christopher Plummer) non voleva concedere il riscatto per liberare il nipote John (Charlie Plummer) per una questione di onore quanto di attaccamento a un rango che non riconosceva il mettersi a parlare con i comuni esseri umani (in una scena dice proprio al nipote bambino: “Per noi, un tempo, gli uomini avrebbero costruito le piramidi”). Il “potere” che muove il sol e le altre stelle (si perdoni questa dissacrante suggestione nell’anno di Dante) nel caso di House of Gucci è in fondo solo un nome: “Gucci”. Un nome dal grande potenziale gestito da persone che non sanno cosa farsene, fino a che questa donnina con gli occhi di Liz Taylor se ne appropria, lo lucida e ci crede “troppo”, fino a suscitare per riflesso un po’ di genuina invidia da parte dei legittimi detentori. È lì che la donna viene “rimessa al suo posto” come indegna, “proletaria”, facendo saltare il banco e le alleanze, con i “legittimi eredi del nome” che nel frattempo tornano a volerlo gestire in proprio, anche se in modo maldestro. Si può quindi nella finzione cinematografica “fare il tifo per Patrizia” senza sentirsi troppo in colpa, pur dissociandosi per l’esito finale delle vicende. Lady Gaga la incarna come donna in continua mutazione: da brutto anatroccolo a vamp, da casalinga disperata a parodia di una strega, ma sempre con gli stessi occhi profondi, intelligenti quando determinati. È una donna pratica, disillusa, infranta e quel nome, “Gucci”, sente di esserselo meritato con anni di lavoro.


Adam Driver dà corpo a questo eterno ragazzone elegante che il nome “non se lo è meritato”, che gira in bici con i pantaloni legati dalle mollette, per non finire sotto i raggi, tra i palazzi più ricchi della città più ricca d’Italia. Vive perennemente di sogni, idealizza persone e situazioni, ha “fiuto per il bello” e per l’arte, ma non riconosce alleanza e deve essere lui il solo protagonista della sua vita. Non può assecondare il padre, reso da Jeremy Irons come un uomo ricurvo intento a contemplare per sempre, nella penombra di un fioco camino, la sua stanza dei trofei, lamentandosi di ogni cosa e rivedendo le vecchie pellicole che lo vedevano protagonista, ancora “vivo”. Il nipote non può nemmeno mettersi dalla parte dello zio, che Al Pacino veste come un commerciante gentile, accogliente, paterno ma disilluso, che punta al profitto più che alla qualità assoluta. Non può sopportare il buffo e inconcludente cugino Paolo interpretato da Jared Leto, per la spericolatezza con cui “nomina invano il nome Gucci” (che pure sarebbe il suo, all’anagrafe), per promuovere in genere la sua arte da quattro soldi, fatta di capi da abbigliamento dozzinali. Maurizio pecca di Hybris e finisce un po’ come Icaro, ad un passo dal sole e dal successo. Patrizia pecca infine anche lei della stessa Hybris, come la shakespeariana lady Macbeth. L’insoddisfazione e i limiti di Paolo potrebbe avvicinarlo a Fredo, della saga del Padrino di Puzo e Coppola. Poteva essere quindi tragedia, greca quanto moderna, ma Scott, che da poco ha portato sullo schermo la “sua versione della tragedia” con The last duel, sceglie un tocco più leggero e per lui più adatto per raccontarci le umane miserie di personaggi “tragicamente fantozziani” quanto umani. In una cornice lussuosa e ammiccante (grazie alla fotografia sempre affascinante di Dariusz Wolski) che dà continuo lustro alle bellezze di un’arte italiana che nella moda trova una delle sue mille voci, con in sottofondo il meglio della nostra musica pop d’annata (unita a un’ottima colonna sonora firmata da Harry Gregson - Williams) si muovono personaggini più goffi che sexy, più umorali che razionali, più infagottati che eleganti. Figli di una Dolce Vita un po’ amara, spesso con un approccio alla vita un po’ fumettoso, quasi “trash”, come la surreale veggente Pina interpretata da una divertita e divertente Salma Hayek, con il suo sottobosco criminale da avventori del panino alla porchetta. Personaggi che in un attimo da New York e le ville, dove ci si scontra virilmente nei caldi pomeriggi nel più british dei rugby, passano a quell’atmosfera da Vacanze di natale della location Svizzera, dove a un certo punto quasi ci sentiamo di invocare Jerry Calà e un “delicatissimo” Christian De Sica. C’è poi quel “faccione da Alberto Sordi”, straordinario quanto tenero, che tira fuori di colpo Al Pacino, mente coccola un Jared Leto che si agita con la voce della signora Coriandoli di Maurizio Ferrini (già in lingua originale), dicendogli paterno: “Tu sei un imbecille. Ma sei il Mio imbecille”. 


Se James Wan ha preso Argento e lo ha riletto stilisticamente in Malignant, se Tarantino ha preso Castellari, Corbucci e Leone e li ha fusi nelle inquadrature dei suoi ultimi film post-spaghetti-western, il Ridley Scott di Blade Runner e Prometheus, di Alien e Thelma e Louise, dei Duellanti e The last duel, per House of Gucci ha preso a piene mani dalla nostra commedia all’italiana. Lo ha fatto non con un atteggiamento di sfida o supponenza, perché ha trovato che fosse il modo più corretto per leggere questa sceneggiatura.

Più una variante de Il vedovo di Dino Risi che Game of Thrones

Forse Scott ha fatto uno “sgarro”, per chi cercava dalla pellicola una celebrazione dello stile italico quanto Nine di Rob Marshall o si aspettava per lo meno la algida Grande Bellezza di Sorrentino. Qualcuno si sarà sentito deluso per la componente “gialla” della vicenda, ben lontana pure da “un giorno in pretura”, che nasce e si risolve non esattamente come un dedalo inestricabile di indizi, inseguimenti, thriller. Possiamo dare salomonicamente la colpa di queste “delusioni” in parti uguali al libro di Sara Gay Forsen come alla sceneggiatura di Backy Johnson e Roderto Bentivenga, ma House of Gucci, se si ha la voglia di “passare oltre”, è davvero gustoso. Crudele quanto basta. Più sarcastico che malinconico. Un po’ come quei villoni sfarzosi sul lago di Como, che il destino ha voluto spesso coperti dalla nebbia e maltempo, con Paolo Villaggio che li guarda e ci guarda dal cielo e ride, con noi che dovremmo ridere con lui e insieme a Scott di questa cosa. 

La pellicola ha una durata abbastanza imponente, ma non ho avvertito in modo negativo questo aspetto. Bravi tutti gli attori, Gaga e Pacino straordinari, umani e avvolgenti. Driver misurato quanto etereo, Irons crepuscolare quanto tagliente, una menzione speciale a Jared Leto, che si è totalmente trasformato nell’aspetto e nella voce per interpretare il ruolo di Paolo.

Molto divertente, ben confezionato, potrebbe non piacere a chi si aspetta qualcosa di diverso da una commedia nera. 

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mercoledì 8 dicembre 2021

Mollo tutto e apro un chiringuito: la nostra recensione del film con protagonista il milanese imbruttito


L’imbruttito (Germano Lanzoni), l’animale predatore più pregiato e affascinante della Milano del futuro, è un esperto totale dell’arte del fatturare (dice pure della “f**a”, ma non sembra un grande praticante dell’articolo, per lo meno sul lato della seduction & endurance…), anche se ogni tanto il mondo gli rema contro, con la sua palese illogicità strutturale. I nuovi imprenditorini-bambini sul “merdapattino“ che lo irridono e stanno sempre a cazzeggiare in brain storming. I dirigenti stunned (Claudio Bisio) da tutte quelle fesserie new age dello zen, le tisane, la meditazione yoga e la ricerca spirituale che poi manco sanno che prodotti vendono e trattano troppo bene i sottoposti. I clienti-top (Paolo Calabresi) super danarosi ma umorali per via delle nuove manie ecologiste e zero interesse per un solido planning di investimento. Così quando si rende conto che il suo impegno costante per qualcuno “is nothing”,  l’imbruttito va giù di testa, perde se stesso, inizia ad aggirarsi per il capoluogo meneghino solo sugli sposta-poveri (gli autobus) e finisce come un giargiana qualsiasi in piazza Duomo a dare il pane ai piccioni. La “wife” (la moglie, interpretata da Laura Locatetti) non può capirlo perché non ci vede abbastanza lungo e fa l’emotiva perché donna, il “nano” (il figlio, interpretato da Leonardo Uslengo) ormai ha 13 anni ed è per la legge della natura già diventato troppo adulto, critico da affrontare. La soluzione per ripigliarsi può essere il Brera (Alessandro Betti) e una business innovation di rottura, guidata dal mantra: “fatturare in infradito, rilevando in Sardegna un chiringuito”. Meno stress, più f**a e fatturato, in un piccolo paradiso a trenta minuti di fly dall’office. Partono subito per il planning di base 350k, si sub-odora forte “aria di pacco” ma l’entusiasmo è alle stelle e il Giargiana (Valerio Airò) è pronto a seguire il maschio alfa nella nuova occasione di crescita professionale come fido scudiero/stagista di sempre. Ma i sardi saranno pronti alla nuova economy revolution dell’imbruttito per il suo personale rilancio alla grande del territorio, nel segno del full green, del food & beverage e della emotional experience a chilometro zero? Dopo il fuori-milano, la Sardegna avrà il suo fantomatico “fuori-pastore”? O molto più probabilmente tutti vorranno mandare a cagare l’imbruttito per un cultural misunderstanding? 


Era solo questione di tempo e… taaaac, il personaggio dell’imprenditore lombardo tutto lavoro, auto-esaltazione  e aperitivi tornasse di moda come maschera comica. Lo era stato tra gli altri il Dogui di Guido Nicheli, lo era stato il Marco Ranzani di Albertino, lo è ora l’imbruttito di Germano Lanzoni, figlio di una seguitissima pagina facebook che in breve tempo ha generato un gran numero di meme, battute, stories, interviste, video comici, libri, magliette e marchandising variegato. La nuova tappa “alla conquista del mondo” dell’imbruttito è constatare come “Leonardo di Caprio is nothing”, approdando al cinema e giocando nel suo stesso campionato, smarcandosi dalla macchietta e crescendo come personaggio più tridimensionale. L’idea dello storico gruppo di autori del milanese imbruttito per questo primo Red Carpet (metaforicamente) al “Chinese Theatre di Baranzate“ è ispirarsi alla più classica storia del King Kong: 1) piazzare l’imbruttito fuori dalla comfort zone dell’office milanese celebrato in mille sketch; 2) metterlo a contatto con realtà e sensibilità a lui distanti dove le logiche di business, planning ed advertising non sono più attuabili; 3) vedere che cacchio succede. Per minare al meglio le sicurezze del nostro eroe e dare più sugo allo scontro dei titani, si sceglie per l’occasione una “strategia a tenaglia”, giusto per citare il mondo tecnico/calcistico che amano tanto gli imbruttiti. Da una parte gli sceneggiatori gli schierano contro “a barriera” personaggi del “nuovo business”, ammantati di strani valori spirituali che ancora non riescono culturalmente a maneggiare bene (anche perché pure loro sono “imbruttiti dentro”, anche se si sentono magari “imbruttiti 2.0”) e pertanto rei di concepire il working al di fuori delle regole della “competizione spinta” degli “uomini forti al comando”. Dall’altra attaccano il nostro eroe “sulla fascia”, con personaggi che “non vogliono alcun business”, figli di una provincia sarda che preferisce essere valorizzata per quanto ha da offrire di suo, piuttosto che trasformarsi spontaneamente in una colonia che assecondi i gusti degli “imbruttiti” attraverso un’immagine nuova e accattivante. Occupata barriera e fasce, al nostro eroe per sfangarla serve un po’ di team-building, se non addirittura un “team e basta”, giusto per avere qualcuno a cui passare la palla, smarcarsi e andare a rete. Ma per l’imbruttito l’idea stessa di team è difficoltosa, perché gli cade la logica del “one man show” (più stagista di supporto). Per questo nascono nel nostro eroe menate come il sentirsi tipo un dinosauro, superato, irriso e infranto. Una creatura con il cuoricino spezzato nelle sue certezze sul mondo e sul business e quindi agile e tranquillo in attesa che arrivi ”il meteorite” che lo estingua. La sconfitta è certa “due pere minimo e a casa”, a meno che il nostro eroe non scopra delle nuove skills, magari si ripensi al ruolo della wife… del nano… del valore della mission… oh, ma quanto bella non è, la Sardegna? (traduco per i non milanesi per evitare misunderstanding: la locuzione “Oh, ma quanto bello non è (oggetto)? “ significa “Caspita, ma è bellissimo (oggetto)!”). Ci sono i sardi con il loro modo di fare severo all’esterno ma dolce all’interno. Ci sono le sarde, le donne più belle della terra, dalla Palmas alla Canalis, passando per la Marini. Ci sono dei paesaggi incontaminati da urlo, la sabbia da urlo, il mare da urlo, le canzoni in sardo di De Andrè sono da urlo, la birra Icnusa, il porceddu, il sole… Ma quanto bella non è la Sardegna???!!!

Se il King Kong invece di andare a rompersi le palle a New York finiva in Sardegna, non me lo tiravano giù con gli aeroplanini nella sua scalata al business e ora mi faceva i gorillini e con le banane ci prendeva i bit-coin!!!


Ed eccoci al punto dolente o per lo meno. “Controverso”. Come molti dei video del Milanese Imbruttito presenti sui social sono di fatto dei geniali e ben congegnati product placement per supermercati, oggetti tecnologici e sevizi vari, il film del Milanese Imbruttito è un po’ un product placement riuscitissimo sulla Sardegna. I personaggi del milanese imbruttito rispecchiano la classica caratterizzazione e meccaniche interne nella prima parte del primo tempo, mentre entrano poi in scena i personaggi sardi raccontandoci di fatto la “loro” storia per il resto del film, il personaggio del bravo Paolo Calabresi a fare un po’ da riuscito jolly fantasista d’attacco e Bisio un po’ defilato sulla fascia. Parole d’ordine: 1) non stravolgere, una trama semplice basata sui buoni sentimenti funziona sempre; 2) far vedere quanto sono belle le cose sarde; 3) la tranquillità dei luoghi e tutto il pacchetto Holidays devono esaltare; 4) ci mettiamo anche Elettra Lambrorghini? Ma perché no!!! 5) ci mettiamo un po’ di “etica del territorio”, con i sardi che sono contenti di non avere attorno troppa gente… un po’ come i comaschi… 6) e fine, incasso, fatturato e taaaaac!!

Dopo questo film voglio andare un po’ di più in Sardegna, anche e soprattutto grazie a tutta la compagine degli attori sardi e a quei luoghi pazzeschi in cui è ambientata la pellicola. Ma l’imbruttito ha perso la grande occasione di uscire dalla maschera, sottraendosi a un possibile e fantozziano “percorso di dolore” (e crescita) al grido di “wow che figata la Sardegna!!!”. O forse non ha mai realmente voluto uscire dalla maschera. O questo è un primo lodevole quanto timido tentativo di “uscire un po’” dalla maschera: nel senso che è già un primo passo importante spostarsi dagli sketch di 5 minuti al film di un’ora e mezza e magari si arriverà ad aggiustare il tiro con episodi da 25-30 minuti. Perché i personaggi ci sono e gli attori sono bravi, quindi il problema qui è proprio il “planning” dell’imbruttito nei prossimi anni e non è detto che la formula dello spettacolo cinematografico sia la meta “per adesso”. 

Quindi, tirando le fila, il primo film del Milanese Imbruttito risulta un prodotto ben confezionato, in cui si ride più volte e pieno di magnifici prodotti e luoghi della cultura e tradizione sarda. Per vedere un conflitto imbruttito Vs imbruttita (che farebbe monto girl power attuale a Hollywood) o un crossover imbruttito vs cipollino (sulla strada nostalgica di yuppies della Milano da bere) o imbruttito vs “imbellito” (magari esiste già o esisterà, immagino un palestrato social che fa fotoritocco) quindi dovremo attendere ancora un po’ o forse mai. Nel frattempo: ue’, ma che bella non è la Sardegna? 

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