- Un
film sul potere dal punto di vista di chi non lo condivide: Vita e opere di
Dick Cheney (interpretato splendidamente da Christian Bale), politico
dell'ala Repubblicana più conservatrice che dal 1969, per lo più agli inizi sotto
l'ala protettiva di Donald Rumsfeld (un ottimo Steve Carell), arriva nel 2000,
sotto George W. Bush (interpretato con molta ironia da Sam Rockwell), a
diventare vice - presidente. Un uomo riservato e integerrimo per gli amici, per
i detrattori dell'ala Democratica più polemica (cui rientra con moltissima
autoironia anche il regista McKay e lo staff delle pellicola) un oscuro
burattinaio con in mano un potere spropositato non inferiore al villain
interstellare Marvel "Galactus - il divoratore di mondi" (citato in una scena "esplicativa" divertente quanto
dissacrante). Favorevole al Vietnam, favorevole all'impiego militare in
Afganistan, mano invisibile dietro ad alcuni degli scenari più controversi
della Storia Americana, Mckay lo ritrae spesso come un abile pescatore
silenzioso, che conosce ogni amo e ogni pesce, che sa aspettare anche tutta la
vita prima di attaccare una preda con decisione e ineluttabilità. Uno stratega,
un uomo solo apparentemente bonario e dimesso, che rimane tutta la vita sullo
sfondo della politica come un comune burocrate, al punto che quando emerge e si
insedia nella cabina di comando supplendo a un presidente un po'
"assente", prendendo in mano il destino del mondo, nessuno sa davvero
chi sia e come sia arrivato lì. Per McKay nessuno conosce davvero Cheney, al
punto che lo stesso regista già dall'inizio della pellicola mette le mani
avanti, ammettendo che per la ricostruzione dei fatti sono state compiute tutte
le indagini e ricerche che sono state "fottutamente" possibili (parole sue).
Così il
regista crea un personaggio - narratore davvero peculiare, Kurt, un "uomo
della strada" interpretato dal bravo Jesse Plemons, che ci presenta Cheney
dal suo personale punto di vista se vogliamo autorevole in quanto
"giustificato" da un geniale e inedito Mcguffin che andrà a svelarsi
sul finale. Kurt che ama vedere Spongebob con suo figlio, Kurt che ci
tiene a salvare il mondo, non inquina e si tiene in forma. Un po' macchietta e
un po' no, in un film che sa quanto l'ironia e autoironia possa essere
un'arma, Kurt funge da "coro greco", evita un taglio delle
vicende troppo documentaristico (che non potrebbe né vuole davvero avere),
alleggerisce i toni ed è davvero simpatico, sarcastico, forse anche un po'
complottista. Anima tutti i dubbi che l'americano - medio - democratico nutre
per la figura di Cheney, si flagella per "non averlo visto" mentre si
avvicinava al potere e permette così al Cheney di Bale di essere oscuro,
predatorio, distante e insondabile. Bale, abile a cambiare la forma del suo
stesso corpo per incarnare una parte, spesso abbrutendosi fino a martirizzarsi
(si ricordi il suo mostruosamente magro Uomo del Treno) incarna davvero il suo
Chaney come un predatore a sangue freddo, una creatura dallo sguardo basso
inaffondabile quanto spietata, capace di cogliere un affare anche davanti a una
tragedia. Il degno "pargolo politico" del Rumsfeld impersonato da
Carell, che per occhi mobili e denti aguzzi incastonati in un sorriso cattivo
pare quasi una iena, regalandoci un'altra interpretazione forte e potente dopo
Foxcatcher. Il Colin Powell di Tyler Perry è in quanto razionale e moderato una
vittima designata della ferocia altrui, il George W. Bush di Rockwell è un
omino goffo e ingenuo che spera di dimostrasi all'altezza del padre senza avere
alcun artiglio e consapevolezza per far sentire la propria voce. Powell e Bush
sono poco più che giocattoli nelle mani di questi grandi predatori che hanno
una visione spesso mercantilista e commerciale del mondo (geniale un certo
utilizzo dei Focus group che lascio a voi scoprire), che non hanno paura di
qualche fischio della folla pur di continuare a gestire il potere. Se
quindi McKay decide di esporre il lato più primitivo, quasi animale, di questi
uomini politici, dove il più forte schiaccia il più gentile, non riesce ad
essere altrettanto cattivo con la Lynne Cheney di Amy Adams. Personaggio complesso,
dal difficile passato e dalla grande autorevolezza emotiva, Lynne spesso riesce
a orientare le scelte del marito, riesce a farcelo apparire più umano, quasi
amorevole, quasi succube. Le dinamiche che questo rapporto sottende sono
sottili e laboriose, affascinanti. La Adams riempie la sua Lynne di
fragilità, di occhi di fuoco, di sorrisi tirati e di gesti d'affetto, quasi
sempre materni, nei confronti del marito. È il suo porto sicuro quanto il suo
unico bene da proteggere, insieme a una famiglia per la quale Cheney riesce ad
essere pure più liberale dei liberali, assecondando la tesi cattivella di McCay
(palesata nei primi minuti) per cui a Cheney di stare a "destra o a
sinistra" non gliene è mai importato nulla.
Al di là
di questa "struttura drammaturgia", Vice, come vi ho anticipato nelle
prime righe è un film complesso, che si nutre di "prove storiche" per
costruire questa precisa visione di Cheney. La trama è un flusso di dati a
conferma di questa tesi, " evidenze" legate a
fatti piccoli e grandi, abilmente intrecciati e affastellati in un mosaico
colorato quanto pop che ripercorre quasi cinquanta anni di storia americana.
Fatti da contestualizzare o in cui lasciarsi trascinare. Tra stanze del potere
istituzionali e saloni per i comizi, tra salotti domestici
turbolenti e anonimi bar in cui vivere il privato. Tra il fragore di terribili
squarci di guerra in giro per il mondo (spesso lontani dalle leve di potere,
come espressi in un tagliente monologo di Carell) e lungo il corso di un fiume dove un uomo anonimo e appesantito, per lo più antipatico, ha tutto il tempo
del mondo nell'attendere che una preda abbocchi. E McKay sceglie non a caso
un'inquadratura in cui la telecamera è a mezz'acqua, che ci fa sentire anche
noi come quei piccoli pesci che stanno improvvidamente per abboccare all'amo.
Forse il quadro più sinistro del potere dell'uomo politico dopo la
"pecorella" all'inizio di Loro di Sorrentino (c'è anche un altro
parallelo possibile con Sorrentino, a Il divo, tra le scene finali). Questo
film sa davvero prendere all'amo lo spettatore. Sarà perché racconta di un
villain potente come Galactus nell'era cinematografica dei cinecomics. Sarà che
i film dei supereroi sono gli unici oggi che affrontano problemi politici come
la l'inclusione sociale e accettazione delle diversità (X-Men), la
sovrapposizione (Infinity War), l'integrazione multiculturale (Black Panther)
e i problemi di uno sviluppo tecnologico (Iron Man 1) e bellico (Age of
Ultron) non sostenibile. Sarà perché come in un film Marvel è giusto non uscire
subito di sala, per godere di un extra dopo i titoli di coda.
È di
sicuro un bel modo di fare cinema, che appaga la mente e riempie gli occhi,
nonché la dimostrazione di un certo coraggio nel trattare al cinema di politica
e attualità, nel tradurre questi temi in drammaturgia.
McKay si
conferma un grande narratore, ""a-critico"", della storia
moderna.
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