venerdì 4 gennaio 2019

Vice: l'uomo nell'ombra - la nostra recensione dell'ultimo film del geniale Adam Mckay



 - Premessa: Adam Mckay è il regista e sceneggiatore dei migliori film comici di Will Ferrell quando un paio di anni fa compie un triplo salto carpiato in avanti e realizza quella bomba di La grande scommessa. Un film che trasuda dell'ironia per cui è diventato famoso ma che con intelligenza e complessità affronta di petto la Storia Americana, peraltro un periodo e un contesto difficilissimo da rendere su schermo, la crisi finanziaria del 2008. Con un manipolo di interpreti in ottima forma, tra cui Christian Bale, Steve Carell, Ryan Gosling e Brad Pitt, Mckay scarica sulla sala cinematografica inerme 139 minuti di date da memorizzare, nomi su nomi, spiegazione di meccanismi finanziari complessi, doppi giochi da intuire più che da capire, riferimenti diretti alla cronaca americana. Un'esperienza visiva e auditiva provante per il pubblico italiano medio che dopo il trailer credeva di assistere ad un nuovo film del regista sullo stile di Anchorman o al massimo ad un divertente "film di rapine". Non siamo lontani, per fare un paragone, dall'effetto sul pubblico medio del JFK di Oliver Stone, e parlo di quel tipo di pubblico che (innocente) si aspettava da Stone (illusi) un film-TV sul modello Rai con al centro della trama le esperienze scolastiche di Kennedy da piccolo e una apparizione o due della Monroe. E invece no, pioggia di dati costante da integrare fruttuosamente con ricerche sul tema e magari seconda visione della pellicola che effettivamente, ai bene informati, risplende in tutte le sue sfumature più accattivanti, ti trascina dentro e solo allora si fa amare, in modo completo e appagante. La grande scommessa è diventato uno dei miei film preferiti insieme a JFK e Vice, che riprende in gran parte lo stesso cast tecnico e artistico de La grande scommessa, dopo la seconda per me necessaria visione, ha un posto riservato allo stesso tavolo. Quindi il mio consiglio alla fine di tutta questa premessa: vedere + documentarvi + rivedere = godere. Questo ovviamente  vale per me, e vi assicuro che ne è valsa la pena, anche sulla base del fatto che già alla fine della prima visione ero folgorato dalla pellicola. Ok, questa era la premessa. La sintesi non mi è nota certe volte. 
- Un film sul potere dal punto di vista di chi non lo condivide: Vita e opere di Dick Cheney (interpretato splendidamente da Christian Bale), politico dell'ala Repubblicana più conservatrice che dal 1969, per lo più agli inizi sotto l'ala protettiva di Donald Rumsfeld (un ottimo Steve Carell), arriva nel 2000, sotto George W. Bush (interpretato con molta ironia da Sam Rockwell), a diventare vice - presidente. Un uomo riservato e integerrimo per gli amici, per i detrattori dell'ala Democratica più polemica (cui rientra con moltissima autoironia anche il regista McKay e lo staff delle pellicola) un oscuro burattinaio con in mano un potere spropositato non inferiore al villain interstellare Marvel "Galactus - il divoratore di mondi" (citato in una scena "esplicativa" divertente quanto dissacrante). Favorevole al Vietnam, favorevole all'impiego militare in Afganistan, mano invisibile dietro ad alcuni degli scenari più controversi della Storia Americana, Mckay lo ritrae spesso come un abile pescatore silenzioso, che conosce ogni amo e ogni pesce, che sa aspettare anche tutta la vita prima di attaccare una preda con decisione e ineluttabilità. Uno stratega, un uomo solo apparentemente bonario e dimesso, che rimane tutta la vita sullo sfondo della politica come un comune burocrate, al punto che quando emerge e si insedia nella cabina di comando supplendo a un presidente un po' "assente", prendendo in mano il destino del mondo, nessuno sa davvero chi sia e come sia arrivato lì. Per McKay nessuno conosce davvero Cheney, al punto che lo stesso regista già dall'inizio della pellicola mette le mani avanti, ammettendo che per la ricostruzione dei fatti sono state compiute tutte le indagini e ricerche che sono state "fottutamente" possibili (parole sue). 


Così il regista crea un personaggio - narratore davvero peculiare, Kurt, un "uomo della strada" interpretato dal bravo Jesse Plemons, che ci presenta Cheney dal suo personale punto di vista se vogliamo autorevole in quanto "giustificato" da un geniale e inedito Mcguffin che andrà a svelarsi sul finale. Kurt che ama vedere Spongebob con suo figlio, Kurt che ci tiene a salvare il mondo, non inquina e si tiene in forma. Un po' macchietta e un po' no, in un film che sa quanto l'ironia e autoironia possa essere un'arma, Kurt funge da "coro greco", evita un taglio delle vicende troppo documentaristico (che non potrebbe né vuole davvero avere), alleggerisce i toni ed è davvero simpatico, sarcastico, forse anche un po' complottista. Anima tutti i dubbi che l'americano - medio - democratico nutre per la figura di Cheney, si flagella per "non averlo visto" mentre si avvicinava al potere e permette così al Cheney di Bale di essere oscuro, predatorio, distante e insondabile. Bale, abile a cambiare la forma del suo stesso corpo per incarnare una parte, spesso abbrutendosi fino a martirizzarsi (si ricordi il suo mostruosamente magro Uomo del Treno) incarna davvero il suo Chaney come un predatore a sangue freddo, una creatura dallo sguardo basso inaffondabile quanto spietata, capace di cogliere un affare anche davanti a una tragedia. Il degno "pargolo politico" del Rumsfeld impersonato da Carell, che per occhi mobili e denti aguzzi incastonati in un sorriso cattivo pare quasi una iena, regalandoci un'altra interpretazione forte e potente dopo Foxcatcher. Il Colin Powell di Tyler Perry è in quanto razionale e moderato una vittima designata della ferocia altrui, il George W. Bush di Rockwell è un omino goffo e ingenuo che spera di dimostrasi all'altezza del padre senza avere alcun artiglio e consapevolezza per far sentire la propria voce. Powell e Bush sono poco più che giocattoli nelle mani di questi grandi predatori che hanno una visione spesso mercantilista e commerciale del mondo (geniale un certo utilizzo dei Focus group che lascio a voi scoprire), che non hanno paura di qualche fischio della folla pur di continuare a gestire il potere. Se quindi McKay decide di esporre il lato più primitivo, quasi animale, di questi uomini politici, dove il più forte schiaccia il più gentile, non riesce ad essere altrettanto cattivo con la Lynne Cheney di Amy Adams. Personaggio complesso, dal difficile passato e dalla grande autorevolezza emotiva, Lynne spesso riesce a orientare le scelte del marito, riesce a farcelo apparire più umano, quasi amorevole, quasi succube. Le dinamiche che questo rapporto sottende sono sottili e laboriose, affascinanti. La Adams riempie la sua Lynne  di fragilità, di occhi di fuoco, di sorrisi tirati e di gesti d'affetto, quasi sempre materni, nei confronti del marito. È il suo porto sicuro quanto il suo unico bene da proteggere, insieme a una famiglia per la quale Cheney riesce ad essere pure più liberale dei liberali, assecondando la tesi cattivella di McCay (palesata nei primi minuti) per cui a Cheney di stare a "destra o a sinistra" non gliene è mai importato nulla. 


Al di là di questa "struttura drammaturgia", Vice, come vi ho anticipato nelle prime righe è un film complesso, che si nutre di "prove storiche" per costruire questa precisa visione di Cheney. La trama è un flusso di dati a conferma di questa tesi,  " evidenze" legate a fatti piccoli e grandi, abilmente intrecciati e affastellati in un mosaico colorato quanto pop che ripercorre quasi cinquanta anni di storia americana. Fatti da contestualizzare o in cui lasciarsi trascinare. Tra stanze del potere istituzionali e saloni per i comizi, tra salotti domestici turbolenti e anonimi bar in cui vivere il privato. Tra il fragore di terribili squarci di guerra in giro per il mondo (spesso lontani dalle leve di potere, come espressi in un tagliente monologo di Carell) e lungo il corso di un fiume dove un uomo anonimo e appesantito, per lo più antipatico, ha tutto il tempo del mondo nell'attendere che una preda abbocchi. E McKay sceglie non a caso un'inquadratura in cui la telecamera è a mezz'acqua, che ci fa sentire anche noi come quei piccoli pesci che stanno improvvidamente per abboccare all'amo. Forse il quadro più sinistro del potere dell'uomo politico dopo la "pecorella" all'inizio di Loro di Sorrentino (c'è anche un altro parallelo possibile con Sorrentino, a Il divo, tra le scene finali). Questo film sa davvero prendere all'amo lo spettatore. Sarà perché racconta di un villain potente come Galactus nell'era cinematografica dei cinecomics. Sarà che i film dei supereroi sono gli unici oggi che affrontano problemi politici come la l'inclusione sociale e accettazione delle diversità (X-Men), la sovrapposizione (Infinity War), l'integrazione multiculturale (Black Panther) e i problemi di uno sviluppo tecnologico (Iron Man 1) e bellico (Age of Ultron) non sostenibile. Sarà perché come in un film Marvel è giusto non uscire subito di sala, per godere di un extra dopo i titoli di coda. 
È di sicuro un bel modo di fare cinema, che appaga la mente e riempie gli occhi, nonché la dimostrazione di un certo coraggio nel trattare al cinema di politica e attualità, nel tradurre questi temi in drammaturgia. 
McKay si conferma un grande narratore, ""a-critico"", della storia moderna. 
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