Siamo in
Francia, agli inizi del '900. Parigi è una calamita per la cultura e l'arte,
per le strade si parla di progresso, moda, emancipazione, sessualità. La nostra
protagonista (Keira Knightly) è francese, sarà nota come alle cronache (e
parecchio gossip) come Sidonie-Gabrielle Colette, come scrittrice, attrice,
performer, femminista, ambasciatrice del "gender", musa e voce della
rivoluzione sessuale e di costume, divenendo l'incarnazione stessa dello
spirito della Belle Epoque. Ma facciamo un passo indietro, quando la nostra
eroina era giovane e non abitava proprio a Parigi, ma in una non troppo
distante provincia francese coloratamente bucolica e un po' noiosa, nella città
di Saint-Sauveur-en-Puisaye. E non sembrava all'epoca neanche un'eroina, quanto
la classica ragazzina della porta accanto. È la figlia di un militare che abita
in una bella casetta con granaio, ha gli occhi castani, è un po' imbranata,
caruccia ma assolutamente nella media, unico segno distintivo estetico di
rilievo una massa di capelli lunghi/stopposi/orribili/invadenti girati a
trecciolona gigante. Pare una pigotta, la pigotta di una damina del secolo
precedente. Lui (perché in tutte le storie arriva a un certo punto un lui) è
Henry Gauthier-Villars, per gli amici Willy (Dominic West), per i suoi
lettori il "grande Willy", un po' dandy, più maturo di lei,
affascinante e sciupa femmine, seduttore e seducente per passione, decisamente
moderno. È uno scrittore di talento di Parigi, pure con casa editrice propria, appassionato di del bel vivere, del gioco e della seduzione in tutte le sue
forme. Willy vede questa pigotta con trecciolone a casa del suo amico
commilitone in Saint-Sauveur-vattelappesca. Scopre che in fondo è un tipo
interessante, una che ama scrivere dei raccontini anche con forse del talento e
in fondo non è bruttina, così le tira un amo piuttosto economico: le regala una
palletta triste con la neve finta con la Tour Eiffel da articoli per turisti.
Lei pensa: "Beh, perché no?". E così Willy la seduce, vince un paio
di evoluzioni nel granaio, la sposa e la porta a Parigi, dove lui "mentre
scrive" continua a giocare ai cavalli e a frequentare ragazze più carine,
sputtanandosi pure la casa editrice. Lei, non proprio felice, scopre di non
amare poi molto un marito che per indole "scherzosa" per lo più
diserta il talamo nuziale e ama scorreggiarle da vicino, ma come ogni donnina
pigotta del secolo scorso fa spallucce e tira avanti.
A un
certo punto la creatività che ha reso famoso Willy è in un momento non
fantastico, zero incassi. Poi l'illuminazione. Willy prende la pigotta e
le dice: "Ma tu non scrivevi quelle cosine buffe che mi hai fatto leggere
ed eri pure bravina? E se ti do una mano? Se coltiviamo insieme una tua nuova
coscienza artistica? Tu mi parli delle cose buffe che mi raccontavi che facevi
quando eri piccola, cambiamo i nomi e creiamo un libro che anticipa di 100 anni
la moda dei social? Che ne pensi?" E lei, un po' sorpresa e un po'
motivata, sicuramente incosciente, risponde tranquilla: "Beh, è perché
no?". Lui vede che la trappola è tesa e come nei più rinomati corsi di
scrittura creativa la butta in una stanza con un block notes e una penna, la
chiude a chiave e le dice: "Ora per quattro ore scrivi roba da best
seller sulle tue buffe avventure adolescenziali o di qui non esci più". E
lei lo fa. Il primo tentativo non soddisfa l'autore. Willy, che è preveggente
sulla moda dei social del secolo successivo, sa che ci manca il dato della
maialaggine. Il secondo, complici i debitori alla porte di casa, vede Willy
collaborare di più a creare il personaggio principale "davvero
social". Quindi di fatto prende la moglie e le istilla dentro più
pepe, modernità e umorismo, spregiudicatezza e stile di vita senza freni. E via
quel cacchio di trecciolone brutto che pare una pigotta: capello corto a
caschetto. Nasce il personaggio letterario di Claudine ed è subito best seller,
Claudine a l'ecole, che va così bene che da avvio ad una collana tutta sua e
con tanto merchandising che pare Guerre Stellari. La moglie di
Willy trova un nome d'arte, "Colette". Il personaggio piace, le
piccole donne si immedesimano in lei, nasce un modo di tagliare i capelli alla
Claudine, uno shampoo, la linea profumi, i vestiti, i pupazzi. I libri, un po'
da retrogrado marito di Mary Shelley, li firma Willy. Perché anche se le storie
sono vita vissuta della moglie in fondo è lui l'artista, è lui il
proto-influencer, il marketing gira così, le tasse, il pubblico. La moglie
abbozza: "Beh, è perché no?" e la vita continua. Ma le cose iniziano
a girare in modo imprevedibile. Colette e Claudine iniziano a fondersi tra
letteratura e riduzioni teatrali, realtà e finzione. Willy sfoggia in pubblico
una moglie che è "troppo ricalcata" sul "suo" personaggio
best sellers. La vuole più spregiudicata per appassionare il gossip, in
competizione con l'attrice che interpreta Colette a teatro (Aiysha Hart) e
lei: "Beh, è perché no?". La vuole oggetto di una storia lesbica (con una bella e disinibita donna altolocata interpretata da Eleanor
Tomlinson) e lei: "Beh, è perché no?". A un certo punto vuole
trasformare la cosa in un rapporto a tre e lei: "Beh, è perché
no?" (anche se sulle prime si incazza). La vuole libera di esprimere un
pensiero profondamente femminista e lei: "Beh, è perché no?". Willy
crede di stare facendo una manipolazione, ma in realtà sta liberando tutti i
freni inibitori di Colette, che diviene sempre più consapevole di essere
un'artista, di avere molto da dire, di essere lei il vero talento, di amare le
donne, in special modo la nobildonna Missy (Denise Gough). Sarà ora che i
diritti di sfruttamento delle "Claudine" tornino alla legittima
proprietaria?
Tra
corsetti e cappellini, strade chiassose e salotti altolocati, Wash Westmoreland,
regista del favoloso Still Alice con Julianne Moore, dirige Keira Knightley in
una delle prove più complesse e riuscite della sua carriera. Il compito era
arduo, il risultato finale nell'economia dell'opera è di rilievo. La Knightley
si mette a nudo e rinasce in una delle personalità più complesse e affascinanti
della letteratura e arte francese, abbracciando a 360 gradi il suo estro e
multiforme ingegno. Una prova non dissimile per intensità dalla trasformazione
in Freddie Mercury di Rami Malek nell'ultimo Bohemian Rhapsody di Singer. Anche
Dominic West dimostra una complessità interpretativa per lui inedita e insieme
la coppia funziona, come funziona anche il "triangolo", con la
bellissima e sensuale Tomlinson, come funziona anche il "quadrato" con
straordinaria, algida e aristocratica Gough. È un film sulla conquista del
ruolo sociale della donna, un film sulla ridefinizione della lotta tra i sessi,
un film sulla strabordante forza dell'arte. È un film che funziona anche al di
là dell'affresco storico, che spesso si identifica in una sorta di documentario
per far conoscere o riscoprire un talento come quello di Colette. Il film di
Westmoreland tuttavia è uno "starting point" alla lettura e
"cultura" delle opere di Colette, ha un taglio agile che
sfoltisce un certo "documentarismo" della narrazione, ma
rinuncia a essere qualcosa di più "vicino" alle opere di Colette.
Allora si può forse sognare come questa materia vulcanica, la vita di Colette,
che ha il profumo delle migliori chine di Crepax e di Manara, poteva essere
maneggiata da un Cronenberg, un Verhoeven, un Almodovar, un Jordan, un Fellini
o, perché no, un Brass. Cosa avrebbero fatto le sorelle Wachowski? E Ryan
Murphy? Come avrebbe lavorato sugli sguardi e pose ipnotiche della performer
Colette (ho in mente la parte del teatro di cui si fa un veloce accenno nella
pellicola), ancora vive in rari filmati d'epoca, una mano come quella di Lynch?
Vorremmo "averne di più" del mondo elegante e per ora solo qui
"sbirciato" di Colette, perché a livello epidemico lo
riconosciamo, il suo fascino ci ha già attraversato per anni, grazie alle mille influenze che ha generato nel cinema e delle arti. Valentina di Crepax
viene da lì, le pose di Betty Page vengono da lì, molta della passione per il
trasgressivo e al contempo per la ridefinizione del gender, argomento modernissimo,
viene da lì, pure la pulsione e possibilità di fare della propria vita una
"forma d'arte", viene da lì. Ne vogliamo ancora. Ma questo
"primo assaggio", con una Knightley mai in passato così tanto
convincente e sensuale, ha saputo già conquistarci e farci sognare.
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