martedì 4 dicembre 2018

A private war - la nostra recensione



Rosamund Pike interpreta sullo schermo la leggendaria Marie Colvin, in una pellicola che espande quanto contenuto nel celebre articolo uscito su Vanity Fair dal titolo  "Marie Colvin's private war". La Colvin è una donna che ha trascorso tutta la sua vita come reporter di guerra. Sempre in prima linea, sempre dalla parte e a difesa delle popolazioni civili che si trovano a vivere sotto i bombardamenti. Una eroina e una martire civile di cui si dovrebbe parlare sui libri di storia moderna, una donna che con la forza dell'informazione ha portato nelle case delle tranquille e spesso indifferenti famiglie occidentali gli orrori di guerre che esistono ancora. La Colvin ha cercato di "svegliare" gli animi e molti operatori di pace che ancora oggi partono per aiutare le popolazioni vittime dei conflitti bellici si sono formati anche con i lavori della Colvin. Ma che ne è del lavoro e impegno della Colvin, se alcune persone al solo "parlare di guerra" chiudono le orecchie e gli occhi come se la cosa non li riguardasse? Come se il fatto di "non vedere le cose brutte" permetta a certe persone di non preoccuparsi e vivere sereni? Capita che il giornalista viene creduto un pazzo, alla stregua di un mitomane autodistruttivo che "gode" nel mostrarci lo sporco del mondo pur di farci "sentire in colpa" e apparire lei "migliore di noi". C'è una frase molto eloquente di una canzone di Jovanotti (Salvami), dedicata a una giornalista di guerra molto simile alla Colvin, al punto da essere simile negli atteggiamenti e nella scrittura.




Entrambe tabagiste incallite, entrambe esili, entrambe con la forza di mettere il fuoco nelle parole. Il Cherubini dedica alla Fallaci la frase: "la giornalista - scrittrice che ama la guerra, perché le ricorda quando era giovane e bella". Ed è questa l'esatta misura di tutti quelli che vedono i reporter e dicono "ma chi te lo fa fare?", "ma chissenefrega delle cose che accadono in quel paese medioevale, perché ci vai?". La pellicola, in un modo che può essere anche sgradevole, cerca di dare corpo anche a questa prospettiva. La Colvin "interpretata dalla Pike" è una donna rovinata dalla guerra che in qualche modo non riesce a sentirsi viva se non tra i proiettili di un conflitto. È una donna ferita e sfigurata dalla guerra che in una scena contempla il suo corpo mutato (lo Tsukamoto di Tetsuo ci andrebbe a nozze, ma anche il Cronenberg di Crash), si specchia riconoscendo la sua "nuova forma" come Tilda Swinton in Orlando di Sally Potter.  È una donna che vive una sensualità clandestina come medicina e rifugio dalle immagini di morte che circondano la sua esistenza. C'è una decadente bellezza che in qualche modo si sposa alla follia bellica, resa splendidamente luccicante e suggestiva  dalla fotografia di un "mostro" come Robert Richardson. Solo che la Colvin non era "solo questo". La scelta del "taglio da dare alla pellicola", mettendo al centro una eroina non inferiore alla Ripley di Alien, non ci parla del lato più umano della Colvin, del suo essere in prima linea "con i deboli e sotto le bombe". Alla ricerca di un'immagine forte quanto la forza della penna della reale Colvin, qualcosa si è perso nel passaggio, al punto che per alcuni spettatori la Pike (forse in una delle sue prove più convincenti e sofferte) rischia davvero di stare antipatica, vanificando un po' la corretta immagine di questa professionista generosa e solitaria. Insomma, "c'è dell'altro" e se la pellicola vi colpirà vi invito a documentarvi su Marie Colvin, magari partendo dal libro autobiografico di Matthew Heineman (peraltro "personaggio attivo" nella vicenda) che ha comunque contribuito come fonte alla riduzione cinematografica. Matthew Heineman è un regista che viene dai documentari e la sua passione per l'esattezza e precisione nella messa in scena traspare in ogni inquadratura. Il suo film, sulla spinta dei conflitti bellici cui ha partecipato la Colvin come giornalista, è uno dei più poderosi vademecum visivi delle guerre degli ultimi anni e non risparmia nulla, in termini di brutalità ed efferatezze visive, pur di seguire un ricercato realismo storico. Il film che ne esce è potente e duro come un pugno allo stomaco. Se l'intento era sparare in faccia la brutalità della guerra e al contempo far riflettere quanto a molti di noi "gli importi poco", l'obiettivo è raggiunto e molti capiranno alcuni dei motivi per cui la vita di Marie Colvin è importante è preziosa. 
A private war apre gli squarci di medioevo più dolorosi e spesso rilegati a "informazioni sommarie dei corrispondenti dall'estero" della storia presente. Ci mette davanti le guerre moderne che i telegiornali ci hanno fatto vedere il meno possibile e che noi non abbiamo voluto vedere "cambiando canale" prima della "pagina estera". Del resto sono argomenti che non ci riguardano, vero?  
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