Rosamund
Pike interpreta sullo schermo la leggendaria Marie Colvin, in una pellicola che
espande quanto contenuto nel celebre articolo uscito su Vanity Fair dal
titolo "Marie Colvin's private war". La Colvin è una donna che
ha trascorso tutta la sua vita come reporter di guerra. Sempre in prima linea,
sempre dalla parte e a difesa delle popolazioni civili che si trovano a vivere
sotto i bombardamenti. Una eroina e una martire civile di cui si dovrebbe
parlare sui libri di storia moderna, una donna che con la forza
dell'informazione ha portato nelle case delle tranquille e spesso indifferenti
famiglie occidentali gli orrori di guerre che esistono ancora. La Colvin ha
cercato di "svegliare" gli animi e molti operatori di pace che ancora
oggi partono per aiutare le popolazioni vittime dei conflitti bellici si sono
formati anche con i lavori della Colvin. Ma che ne è del lavoro e impegno della
Colvin, se alcune persone al solo "parlare di guerra" chiudono le
orecchie e gli occhi come se la cosa non li riguardasse? Come se il fatto di
"non vedere le cose brutte" permetta a certe persone di non
preoccuparsi e vivere sereni? Capita che il giornalista viene creduto un pazzo,
alla stregua di un mitomane autodistruttivo che "gode" nel mostrarci
lo sporco del mondo pur di farci "sentire in colpa" e apparire lei
"migliore di noi". C'è una frase molto eloquente di una canzone di
Jovanotti (Salvami), dedicata a una giornalista di guerra molto simile alla
Colvin, al punto da essere simile negli atteggiamenti e nella scrittura.
Entrambe tabagiste incallite, entrambe esili, entrambe
con la forza di mettere il fuoco nelle parole. Il Cherubini dedica alla Fallaci
la frase: "la giornalista - scrittrice che ama la guerra, perché le
ricorda quando era giovane e bella". Ed è questa l'esatta misura di tutti
quelli che vedono i reporter e dicono "ma chi te lo fa fare?",
"ma chissenefrega delle cose che accadono in quel paese medioevale, perché
ci vai?". La pellicola, in un modo che può essere anche sgradevole, cerca
di dare corpo anche a questa prospettiva. La Colvin "interpretata dalla
Pike" è una donna rovinata dalla guerra che in qualche modo non riesce a
sentirsi viva se non tra i proiettili di un conflitto. È una donna ferita e
sfigurata dalla guerra che in una scena contempla il suo corpo mutato (lo
Tsukamoto di Tetsuo ci andrebbe a nozze, ma anche il Cronenberg di Crash), si
specchia riconoscendo la sua "nuova forma" come Tilda Swinton in
Orlando di Sally Potter. È una donna che vive una sensualità
clandestina come medicina e rifugio dalle immagini di morte che circondano la
sua esistenza. C'è una decadente bellezza che in qualche modo si sposa alla
follia bellica, resa splendidamente luccicante e suggestiva dalla
fotografia di un "mostro" come Robert Richardson. Solo che la Colvin
non era "solo questo". La scelta del "taglio da dare alla
pellicola", mettendo al centro una eroina non inferiore alla Ripley di
Alien, non ci parla del lato più umano della Colvin, del suo essere in prima
linea "con i deboli e sotto le bombe". Alla ricerca di un'immagine
forte quanto la forza della penna della reale Colvin, qualcosa si è perso nel
passaggio, al punto che per alcuni spettatori la Pike (forse in una delle sue
prove più convincenti e sofferte) rischia davvero di stare antipatica,
vanificando un po' la corretta immagine di questa professionista generosa e
solitaria. Insomma, "c'è dell'altro" e se la pellicola vi colpirà vi
invito a documentarvi su Marie Colvin, magari partendo dal libro autobiografico
di Matthew Heineman (peraltro "personaggio attivo" nella vicenda)
che ha comunque contribuito come fonte alla riduzione cinematografica. Matthew
Heineman è un regista che viene dai documentari e la sua passione per
l'esattezza e precisione nella messa in scena traspare in ogni inquadratura. Il
suo film, sulla spinta dei conflitti bellici cui ha partecipato la Colvin come
giornalista, è uno dei più poderosi vademecum visivi delle guerre degli ultimi
anni e non risparmia nulla, in termini di brutalità ed efferatezze visive, pur
di seguire un ricercato realismo storico. Il film che ne esce è potente e duro
come un pugno allo stomaco. Se l'intento era sparare in faccia la brutalità
della guerra e al contempo far riflettere quanto a molti di noi "gli
importi poco", l'obiettivo è raggiunto e molti capiranno alcuni dei motivi
per cui la vita di Marie Colvin è importante è preziosa.
A
private war apre gli squarci di medioevo più dolorosi e spesso rilegati a "informazioni sommarie dei corrispondenti dall'estero" della storia
presente. Ci mette davanti le guerre moderne che i telegiornali ci hanno
fatto vedere il meno possibile e che noi non abbiamo voluto vedere
"cambiando canale" prima della "pagina estera". Del resto
sono argomenti che non ci riguardano, vero?
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