America,
più o meno ai tempi di Ken Parker. Di Caprio è pure lui un "trapper",
un esperto di sopravvivenza che guida una carovana carica di pelli pregiate per
anguste distese innevate in una regione d'America dal nome impronunciabile. Fa
affidamento sul suo intuito e sul supporto del figlio pellerossa e il viaggio
prosegue bene, tra campeggi intorno al fuoco e geloni ai piedi. Tuttavia il
gruppo si imbatte in terribili predoni e in una scena che pare la versione
western dello Sbarco in Normandia di Salvate il soldato Ryan ne escono tutti
malconcissimi. Come se non bastasse Di Caprio poco dopo affronta a mani nude un
orso e siccome non siamo né in Vento di Passioni né in Backcountry il nostro
eroe, pur malconcissimo elevato al quadrato, si salva. Ma la carovana gli vuole
bene, al punto che gli assegna un pugno di uomini per riportarlo a casa, sano e
salvo, con una barella di fortuna. Peccato che tra il gruppo dei lettighieri ci
sia il bastardissimo Tom Hardy che, smessa la museruola di Mad Max e la museruola
di Bane, gioca a fare il cattivone sopra le righe, tanto ignorante quanto
scoordinato nei movimenti, un po' goffo e un po' bullo, ma parecchio fortunato.
Ha la classica "fortuna degli stronzi", per intenderci. La sua idea
di mollare Di Caprio nei boschi innevati, dopo averlo ridotto malconcissimo di
quarto livello, con la ricompensa del salvataggio già in tasca, si fa subito
concreta. Già che ci sta, impallina pure il figlio del nostro trapper.
Madornale errore. Di Caprio resuscita come Terminator, si cura in modi che pure
Rambo troverebbe ridicoli, si crea appartamenti di fortuna dentro le interiora
di qualche animale per sopravvivere la notte come suggerito da Bear Grills. E a
Tom Hardy gliela giura. Lo inseguirà per tutto il pianeta fino a che lo impallinerà.
The Revenant è maestoso. I paesaggi sono bellissimi, reali, vividi, la luce
colpisce diritta nell'iride. Sembra di sentire fisicamente il freddo
dell'America innevata e il caldo soffocante, il puzzo, delle carcasse di
cavallo appena uccise . Insomma, mi capite, chi di voi non ha ancora dormito
all'aperto in Alaska nelle interiora di un cavallo morto? In fondo facevano
anche in Star Wars qualcosa di simile. Che fan di Star Wars siete? Ma
torniamo al film. E l'uomo è piccolo e indifeso di fronte alla natura, la pelle
si tira e si rompe insieme alle ossa e ogni passo conduce a una morte
potenziale, sia un burrone o un animale a caccia o una tormenta di neve. Non
meno letali, se si mettono di impegno, sono gli uomini. Pronti a scannarsi,
squartarsi, sminuzzarsi e decervellarsi tra di loro per due o tre pellicce
puzzolenti. Le distese innevate sono ottime per riempirsi di sangue come nel
leggendario The Raid 2. La macchina da presa, come nel precedente film di
Inarritu, è una entità metafisica che ci porta sull'azione in modi
inimmaginabili, sembra montata sulle ali di un calabrone e crea visioni
sempre impossibili, uniche, suggestive e vertiginose. La musica è avvolgente ma
sono gli effetti sonori a farla da padrone, a farci aggiustare il cappotto in
platea. Se avete i soldi per andare a vedere un solo film al cinema quest'anno
fatevi un favore e scegliete questo, nella sala più grande, con il mega
schermo e con il sonoro più spettacolare che trovate. Questo è cinema, anche se
non amate il western, anche se non sopportare Di Caprio, anche se sono tre ore
di pellicola, "esserci", vivere di pancia lo spettacolo di una natura
così madre quanto matrigna, è un piacere sensoriale di cui non dovreste
privarvi. Peccato però che il film alla seconda visione, a mente lucida e
privati dello stretto abbraccio emotivo della prima volta mostri i suoi limiti.
Anzi, "IL" suo limite, che piccolo quanto volete, rimane. Che
ovviamente è lui, Di Caprio. Uno degli attori più mono-espressivi della piazza,
uno che considera il recitare "urlare fortissimo". Reduce da una
serie di pellicole in cui faceva sostanzialmente sempre il pazzo in overacting
sotto effetto della cocaina (ed era sempre monotono, solo che urlava un sacco) con questa pellicola prova la carta del Deadman, il sopravvissuto, quello che
vive per la vendetta, a metà tra il Gladiatore di Russell Crowe, il Danzel
Washibgton di Man of Fire e il Corvo di Brandon Lee, spiriti, zombie immortali
che si muovono unicamente spinti dall'amore perduto per i suoi cari, destinati
a morire a vendetta compiuta, tornare alla terra. E Di Caprio senza gli
stupefacenti a "giustificare" gli strilli è molto, molto meno
divertente del solito e sbaglia clamorosamente. Sbaglia alla radice stessa del
personaggio, non instaurando la minima empatia con quello che dovrebbe essere
suo figlio.
Il Deadman si muovo per amore, ricordiamolo. Non ci sono momenti in
cui il legame si palesi, non una lacrima, non una carezza. Solo una scena
onirica che ha del fasullo, del superficiale. E' vero, il film è tratto da una
storia vera in cui l'elemento del figlio non c'era. Ma a questo punto perché
metterlo, se il protagonista non è in grado di provare qualcosa per lui?
Possiamo dire che prima c'è la vendetta e poi arriveranno le lacrime, ma questa
prospettiva non ci soddisfa in pieno e anzi ci fa trovare sempre più antipatico
e monocorde un Di Caprio che privato dell'overacting cocainomane
scorsesiamo non ha davvero nulla da dire se non digrignare i denti per
tre ore. Apro parentesi: ma quanto era più bravo di lui Ray Liotta? Perché
Scorsese si è fissato con questo brutto e ormai vecchio bambolotto? E allora
sale l'odio e ci si rende conto che i film, tutti i film di Di Caprio ci
piacciono, ma giusto per quel momento, assai frequente nelle sue produzioni,
in cui il suo personaggio muore, in genere male (pur nella finzione, non
vogliamo davvero male a Di Caprio come "essere umano". E' solo che
come attore ci fa cagare...). E' quella stessa sensazione liberatoria che accade
con Silvio Muccino ne Il Cartaio di Dario Argento: quando l'attore, che recita
atrocemente male (sottolineiamolo col pennarello, che il punto è questo e
nulla più) muore, il pubblico si alza in piedi in tutto il cinema in una
standing ovation. Il film di ambientazione storica "aiuta" il nostro
personale odio generalizzato "dicapriesco": se è ambientato nel far
west il suo personaggio oggi sarà sicuramente "morto" e si parte già
bene. E questo deve saperlo bene pure Inarritu, che in fondo deve essere
mastro segreto del culto "anti dicapriesco", perché, con una gioia
quasi inarrivabile per ogni fiero adepto, decide meccanicamente ogni tre minuti
del film di far picchiare malissimo Di Caprio da qualcuno. Sia la mano della
natura o quella dell'uomo, troveremo sempre durante la pellicola qualcuno che
lo picchia male. Di Caprio sbava per febbre e convulsioni, ha il corpo sempre
più tumefatto, cade da ogni burrone e in ogni lago gelato, finisce
plurisparato e pluriaccoltellato. Si rialza sempre, cacchio. Ma poi viene
picchiato di nuovo e con più gusto da qualcosa di nuovo e inatteso. Il nostro
eroe personale per questo non poteva che essere l'orso. Quanto sarebbe stato
bello se fosse stato un orso vero (ripeto, stiamo scherzando...) o per lo meno
"l'orso squartatore" del film "Backcountry". Però anche
questo bastardo figlio digitale di Winnie the Pooh sa picchiare bene e maciulla
il nostro eroe con il dovuto gusto. E dietro a tutti i graffi, lividi,
escoriazioni, mocci congelati, proiettili conficcati, lame putrescenti e carni
abrase da esplosivo c'è tutto un team di truccatori ed effettisti da standing
ovation. Ogni tanto coprono pure il volto di Di Caprio con una coltre di
capelli congelati, sudaticci e forforosi. E la recitazione ne guadagna, anche
se, sommate tumefazioni ed effetti vari, Di Caprio è quasi più truccato del
Barbalbero del Signore Degli Anelli. Certo che se l'oscar volevano darlo al
Gollum, la cosa ai giorni nostri "ci sta".
L'altro nostro eroe personale, per motivi diversi, è poi ovviamente Tom Hardy,
qui ultra grezzo, bofonchiante, sgradevole e vigliacco. Rappresenta "il
male e lo schifo", ma lo fa talmente bene che la sua nomination all'Oscar se
la merita tutta e non riusciamo a volergli davvero male. Come antagonista di Di
Caprio si fa apprezzare quanto Daniel Day Lewis in Gangs of New York e Matt
Damon in The Departed. Hardy è grosso, è estremo, recita non limitandosi a
rifare sempre se stesso (come invece fa qualcun altro..) e si è inventato pure
una camminata da bifolco stupratore di anatre che sicuramente il protagonista
di Wolf Creek gli invidia. Hardy riesce a salvare ugualmente la baracca emotiva
della pellicola, quanto truccatori ed effettisti hanno reso credibile la sfiga
cosmica di Di Caprio. E questo perché quando c'è un grande cattivo, si bada
meno al "buono", che diventa quasi funzionale a lui, una statistica
per "ribilanciare", perché ci mettiamo a contatto con il dramma del
protagonista più facilmente, empatizzando, senza che lui debba trasmettercelo
con le "sue" doti recitative .
Il resto del cast è abbastanza funzionale, ma bisogna aggiungere che,
purtroppo, anche il figlio di Di Caprio non riesce a esprimere a pieno il suo
potenziale. Ma in fondo quello che conta è qui il viaggio visivo, che non
delude mai è si fa apprezzare sulla distanza. Credo che molti rivedranno il
film unicamente per rivedere i suoi bellissimi paesaggi.
E quindi il film si salva, e alla grande, nonostante Di Caprio o forse anche
per merito suo: perché vederlo malmenato (e parliamo sempre di finzione
cinematografica, bene inteso) così spesso e così profondamente, ci rende, a
noi sadici odiatori antidicapristi, parecchio felici. Insomma, guardatelo tutti
e se ve lo perdete al cinema guardatelo vicinissimo alla tv e in cuffia, al
buio. Anzi no, che poi vi fate male alla vista.., compratevi magari un home
theatre o andate a vedere il film da un vostro amico che ce l'ha. Questo film è
davvero un bel viaggio. Nonostante Di Caprio. O questo l'ho già detto? Talk0
Peccato che gli manchi qualcosa per essere perfetto...
RispondiEliminaEsattamente!
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