sabato 22 febbraio 2025

September 5: la nostra recensione del film di Tim Fehlbaum che ricostruisce, dal punto di vista dei reporter televisivi della ABC, le ore concitate del massacro al villaggio olimpico avvenuto a Monaco nel 1972

Monaco, 1972: le prime Olimpiadi trasmesse in diretta grazie al sistema satellitare. 

Per qualcuno dei più ricchi telespettatori “anche a colori”. 

Per i giornalisti e i tecnici della ABC una discreta sfacchinata, con un fuso orario infausto che li costringe a lavorare in piena notte, in uno studio-bunker soffocante illuminato solo con gli schermi tv, a pochi passi da un villaggio olimpico che la maggior parte di loro vedrà solo da un obiettivo.

Il regista Geoffrey Mason (John Magaro) arriva ancora assonnato mentre in Germania già albeggia, un po’ scazzato e un po’ bevuto. Aspetta il pugilato e il volley femminile con poca passione, insieme al già programmato special sulla Shoah che ricorda come quelle Olimpiadi si tengano a 15 km dal campo di concentramento di Dacau. I tedeschi sono intenzionati a evitare ogni possibile brutto ricordo del passato, al punto che le guardie del villaggio olimpico sono sprovviste di armi. Il clima è tutto pacificamente sonnacchioso e amichevole, il primo obiettivo cercare per lo meno di far fronte ai Black-out in cui sempre più spesso incorre lo studio, per colpa di cavi elettrici non in ottimo stato, in sovraccarico o rotti. L’assistente di produzione Marianne (Leonie Benesch) è come il regista al suo primo grande incarico, ma per lo meno lei parla tedesco ed è quasi l’unica a farlo lì per la ABC. Il produttore Marvin (Ben Chaplin) intima di non svegliarlo fino alle dieci del mattino, le “dieci vere”. Tutti sonnecchiano. Poi il tecnico francese dei cavi sente degli spari. Qualcuno li scambia per fuochi d’artificio, ma gli spari proseguono e sembrano vicini, direttamene dal villaggio olimpico. La radio della polizia conferma che sono colpi d’arma da fuoco, anche degli atleti confermano lo stesso chiamando l’emittente. Alla fine, qualcuno, le pistole nel villaggio olimpico le deve aver portate. 

Bisogna contattare il reporter Jennings (Benjamin Walker) che con il suo cameraman e la mini macchina da presa è già da quelle parti per le interviste mattutine. Serve svegliare qualcuno prima delle 10.00, spostare quella enorme e pesante telecamera da studio di svariate tonnellate direttamene all’aperto, più vicina all’azione. Si può utilizzare da remoto la telecamera centrale generale che dall’alto, del centro della struttura olimpica, esplora ogni suo lato in senso orario e moto perpetuo. Bisogna sperare che il collegamento satellitare, condiviso con la CBS, non salti al momento più inopportuno: tipo per rubarsi la titolarità della diretta. 

Voci parlano di qualcuno che è fuggito e forse di qualcuno che è morto. Uomini armati non confermati: “guerriglieri” o “terroristi”, anche se la seconda parola non è stata approvata dal network in caso di utilizzo. 

Dal contatto via radio onde corte con il reporter c’è la conferma di immagini fresche, ma la polizia ha già messo un blocco e nessuno può accedere al villaggio olimpico, salvo gli atleti. Si traveste l’aitante tecnico di colore ABC Gary (Daniel Adeosun), che con una tuta e un finto tesserino di fortuna si può scambiare facilmente per un atleta americano: per mandarlo a superare il blocco, prendere dal reporter il girato e fornirgli altri rullini, che Gary nasconderà sul suo corpo come i Narcos che passano il confine con il Messico. Gary entra senza problemi e ritorna, inquadrato dalla telecamera a moto perpetuo tra gli applausi della ABC. Ha immagini incredibili, provenienti direttamente da una terrazza, dove un uomo mascherato sta trattenendo gli atleti israeliani. Dalla radio della polizia si parla di negoziati in corso, ultimatum con scadenza alle 12:00: il rilascio degli atleti del team israeliano in cambio di 200 combattenti palestinesi detenuti nelle carceri. Senza liberazione, seguirà una esecuzione allo scadere di ogni ora di ritardo. Il tutto sembra portare la firma del gruppo di Settembre Nero.  

Geoffrey capisce di colpo di essere l’uomo al comando dell’unica emittente in diretta a dare nel mondo quella notizia. Deve agire velocemente per coordinare tutti i reparti, dai tecnici agli inviati, la sala speaker, la  produzione, il team legale. Vuole rimanere in diretta, ma cosa potrebbe succedere, se i genitori di quegli atleti, magari da un nuovo tv a colori appena comprato, vedessero l’esecuzione dei loro figli in tv?  

Cosa potrebbe succedere, se gli stessi terroristi utilizzassero quella diretta, per magari scorgere i movimenti con cui la polizia sta cercando di circondarli: libererebbero gli ostaggi per paura o si coordinerebbero meglio per respingerli, magari sistemando meglio i cecchini? 

La polizia tedesca irrompe in studio e la diretta si interrompe, ma solo per poco. 

Si sventolano interessi nazionali e diritto di cronaca come distintivi in un film di gangster, con nessuno che parla la lingua della controparte perché l’unica interprete è stata mandata altrove per un contrattempo.

C’è tensione e tutto è sospeso, anche se alcuni eventi hanno già cominciato a muoversi e l’uomo che voleva svegliarsi alle 10:00 è già intervenuto. Si riparte.

Molti atleti rimasti ignari si stanno riposando sulla vicina baia, al sole. Ma qualcuno è già in allerta, qualcuno già ai microfoni per le “impressioni a caldo”.  L’azione è vicina, l’ultimatum rimandato di poche ore, i giornalisti determinati a tutto pur di documentare, anche a costo di mettere a repentaglio la loro vita personale, in una sorta di “ansia da scoop”. 

La piccola troupe della sezione sportiva della ABC vive sulla pelle quell’onda. Ma agire velocemente per lo scoop basterà per agire nel nome della verità?


Era il 1972, un‘era ancora senza internet. Poche telecamere per lo più pesantissime e piene di limiti nello spostamento, in mano solo a tecnici specializzati. Per comunicare veloce si usavano radio a onde corte o telefoni a gettoni, se si trovava una cabina telefonica o un bar nei paraggi. Per spostarsi su un territorio si faceva uso di una mappa pieghevole, in carta, da compare debitamente aggiornata non in tempo reale. 

Anche registrare e diffondere un filmato richiedeva lo sbobinamento dello stesso e questo implicava il trasporto della pellicola e  una procedura che poteva occupare diversi minuti di “copia e incolla”. 

Una “infografica” con nomi e date come quelle che oggi snocciolano in un attivo i telegiornali, che con tre click si fa su Instagram, si costruiva al volo e a mano in un vero e proprio “Art Attack!”:  con dei magneti al posto delle lettere, numeri e linee, con ritagli di giornale e foto che venivano “incollate o inchiodate” insieme, su uno sfondo nero che “scompariva”, per un gioco di specchi, dalla sovra-impressione di un obiettivo . 

September 5 è ultra-tecnico e ultra-dettagliato nel raccontarci il modo complesso quanto eroico con cui, con questi limiti tecnici, la ABC riuscì nel 1972 a trasmettere una diretta che ebbe più audience dell’Allunaggio del 1969. 

La ricostruzione storica è fedele in ogni minimo dettaglio, dagli abiti allo scenario, dagli strumenti dell’epoca alla ricostruzione delle stesse inquadrature arrivate da Monaco in quel giorno di settembre.

Una trasmissione sfidante, affidata per lo più a giornalisti sportivi e non a reporter di guerra, motivati quanto in parte impreparati. Con un esito complesso quanto purtroppo amato: anche in ragione di questioni etiche, umane quanto politiche. Tutti in trincea, a un passo da una verità che però potevano solo “intuire”. 

Con quei mezzi tecnici la Storia appariva per lo più solo “sfuocata”, macchinosamente “lontana”, spesso riferita “di seconda o terza mano”. 

Una realtà illusoria, sulla quale incombevano pure la censura tedesca e internazionale, un gergo “tecnico/militare” specifico, a volte un vero e proprio “filtro politico” per i singoli paesi.

September 5 ci mette direttamente nei panni di quei giornalisti, che cercano con i loro strumenti spuntati di cavalcare la notizia più grande del mondo, come l’equipaggio di Achab cercava di domare Moby Dick. Sputando gergo tecnico e insulti, invocando la fine di pause pubblicitarie troppo lunghe, maledicendo il satellite, scaraventandosi direttamente sul campo, magari su una jeep in pieno conflitto a fuoco o fingendosi atleti. Giornalisti si direbbe “nel pieno furore della professione”, che come soldati coordinati verso l’obiettivo finale ci ricordano per forza gli eroi della Civil War di Adam Wingard, probabilmente il film più bello degli ultimi anni sull’arte di “raccontare il presente”. 

Il montaggio veloce e “senza fiato”, che segue gli eventi rincorrendola tra gli schermi di una sala comandi, affollata e incazzata, ci riportano invece felicemente a una delle pellicole più belle e sottovalutate di De Palma, Snake Eyes - Omicidio in diretta, nel 1998. Ma anche all’altrettanto bello e sottovalutato Vantage Point di Pete Travis, del 2008. Pellicole-puzzle da “leggere e seguire” senza avere in mano tutti i pezzi visivi.


In tutta questa “concitazione e coordinazione”, quasi “militare”, il regista svizzero Tim Fehlbaum non si dimentica però mai di raccontarci il lato umano dei suoi personaggi. Lo fa in momenti di “pausa” in quanto “di lontananza involontaria” dall’azione: l’attesa di una conferma dall’estero, il momento per terminare la sbobinatura di una ripresa, un blackout. Sono momenti che vengono accolti a volte come boccate d’aria, ma che più spesso diventano fonti di tormento silenzioso, dubbi, perfino auto-critica. 

Sono frammenti temporali in cui tutti i nostri giornalisti in parte perdono “lo stato di ipnosi” che la stanza degli schermi esercita su di loro, mettendo a nudo il loro lato più profondo. Tornano per un attimo uomini e per questo fallibili, fragili, pure goffi. Personaggi “reali” e per lo più alieni da ogni tipo di retorica o trionfalismo, disincantati. Anche grazie al talento di bravissimi interpreti che sono stati in grado di mostrare al meglio anche questa “altra faccia” dei rispettivi personaggi, facendosi aiutare dai filmati d’epoca, le interviste e l’imponente materiale di archivio che la produzione ha messo a loro disposizione.   

La cosa interessante è che oggi, nella comunicazione via social, la maggior parte dei “tempi morti”, che esistono in questo film prevalentemente per via di tecnologia e burocrazia, di fatto non esistono più. Come forse è scomparsa parte di quella “pausa riflessiva” che questi tempi morti comportavano. Ma questa è forse solo una riflessione da boomer.

Sta di fatto che Monaco per uno strano scherzo del destino in questi giorni è tornata protagonista di un attentato, avvenuto a poche ore da un'importate conferenza sulla sicurezza internazionale. Anche in questo caso la gestione della storia avrà forse comportato una “gestione pubblica” come quella che Tim Fehlbaum ha puntualmente documentato in quella che a tutti gli effetti è una ricostruzione quando più fedele possibile degli eventi del 1972.

September 5 è un film bellissimo, dal montaggio rapido, pieno di ambientazioni  e temi claustrofobi e crudi, “difficili”. 

Ottimi gli interpreti, il montaggio veloce e una fotografia, scenografie e costumi molto accurate e rispettose del periodo storico rappresentato. 

Bella la scelta di un linguaggio e  messaggio diretti e senza fronzoli. Un modo di vedere le cose e il mondo “imparziale”, documentando con puntualità, ma anche pronti a dare delle smentite veloci in caso di errore, come immaginiamo dovrebbe essere il punto di vista del migliore giornalismo. 

Un film oggi attualissimo, intelligente ma anche ricchissimo di azione e fascino per i dettagli. 

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