Forse il senso della vita è tutto racchiuso nell’arte di saper sempre preparare una buona colazione: unendo insieme uova e biscotti.
Un giorno Tobias, un ragazzotto imbranato dall’aria dolce (Andrew Garfield), “si scontra” con una giovane, ironica e determinata cuoca bionda, di nome Almut (Florence Pugh). Lui fa il rappresentante per i biscotti della colazione della Weetanix. Lei è la chef stellata di un ristorante fusion ed è specializzata in dolci, che ama realizzare ogni mattina, prendendo le uova fresche direttamene dalle sue galline, dopo una corsa nel verde.
Quella volta a “strapazzare” non saranno le uova, ma direttamene il ragazzo dei biscotti Tobias. Lo scontro avverrà di notte in una zona poco illuminata, con Almut che alla guida di un’auto tamponerà il sedere di Tobias, mentre lui “vaga” sulla superstrada in stato piuttosto confusionale: coperto solo dall’accappatoio bianco di un hotel.
Doveva firmare le carte del suo divorzio, arrivate nottetempo via fax, per chiudere una volta e per sempre un capitolo infelice della sua vita. Accadeva mentre era in trasferta di lavoro in un luogo ameno tra i campi. Nella sua borsa, nella stanza d’albergo come alla reception, non si trovava una penna. Così, “impanicato duro”, vestito solo di ciabatte e accappatoio, Tobias era partito alla volta di un autogrill. Per poi finire in mezzo alla carreggiata a raccogliere la penna appena pagata e “fuggita dalle mani”.
Da lì la botta, inevitabile.
Un “colpo netto”, come quello che senza un’auto, a mani nude, Almut è solita applicare per sgusciare bene le uova, preferibilmente su una superficie piatta: la base tecnica migliore per preparare i waffle di una buona colazione. Ma anche un “colpo di fulmine”, come quello che prova subito per Almut Tobias. Seppur con un collarino, seppur moralmente e fisicamente “strapazzato”, seppur svegliandosi di colpo, nudo, in un letto di ospedale sconosciuto davanti a una sconosciuta.
Lei, magari all’inizio, spera che il fesso che ha appena messo sotto, mezzo nudo e forse pazzo, non le muoia davanti. Lui incrocia il sorriso con quello di questa piccola cuoca bionda, seduta al suo capezzale, che lo ricambia. C’è decisamente “chimica” nell’aria: c’è come il profumo di biscotti e uova che preannuncia più future colazioni insieme.
Un “profumo di felicità”, che nel corso della loro storia Tobias e Almut saranno chiamati a rincorrere e ricercare: tra la memoria di un passato felice, un presente un po’ meno felice e un piccolo futuro da cullare. Spesso “riavvolgono il nastro”, sovrapponendo i momenti felici a quelli più complicati, ma cercando comunque di vivere sempre e in pieno una quotidianità felice, buffa, affettuosa, seppur spesso complicata: che non fa sconti tra litigi, incomprensioni e patteggiamenti.
Costruendo e ricostruendo insieme una relazione “affettuosa”, ma anche a tratti “eroica”, come capita a tantissime storie d’amore. Tra incidenti stradali e incontri fortuiti. Incertezze e tenerezze del vivere insieme. Dolori, umori, sogni e sospiri da vivere da soli. Impegnandosi nel ricreare ogni volta, ogni giorno, l’amalgama giusta per preparare la colazione perfetta, insieme.
Insieme, specie quando sarà più surreale o più difficile farlo.
Insieme trovandosi più volte davanti a medici che sembrano plotoni di esecuzione: cercando di tenersi per mano davanti all’ennesima brutta notizia.
Insieme, quando si tratterà di partorire rocambolescamente nel bagno di un autogrill, aiutati da due buffi commessi, dopo il viaggio in ospedale più scombinato di sempre.
Insieme, quando decideranno di avere una bambina: nonostante non prevedessero di avere bambini, nonostante l’amore fosse appena iniziato, quasi per gioco e “senza crederci più”, in un momento in cui tutti avrebbero preferito rimanere soli.
Insieme, ad accettare il verdetto medico più difficile di tutti e poi a cercare di “spiegarlo”, con tutto il più impossibile tatto possibile, alla loro bambina.
Insieme, alla gara di cucina internazionale a cui Almut voleva partecipare a tutti i costi perché sentiva il dovere di partecipare, a muso duro e spremendosi tutte le energie rimaste: per dimostrare solo di poterlo fare, nonostante tutto, tutti e il buon senso.
Insieme al palazzetto del ghiaccio, mano nella mano col la loro bimba, bionda e sorridente come Almut, a imparare ad andare sui pattini come la mamma.
Insieme, nel tramandare alla piccola Ella il modo corretto di rompere le uova, per realizzare una buona colazione.
Il produttore Benedict Cumberbatch e il regista irlandese del bellissimo Brooklyn, John Crowley portano in sala un film piccolo ma potente, scritto con grande maestria, tatto e ironia da un bravissimo Nick Payne (L’altra metà della storia, L’ultima lettera d’amore). È un film che in qualche modo aggiorna il classico Love Story del 1970, di Arthur Hiller per le nuove generazioni, parlandoci con trasporto ma anche disincanto di amore e malattia, felicità e sogni infranti.
All’inizio della pellicola, senza filtri, veniamo informati di quello che sarà il triste epilogo di una storia d’amore, senza ancora quasi conoscere i due protagonisti. I nostri eroi non potranno fare niente, se non cercare di vivere al meglio il presente e pianificando un futuro a breve termine: provando a tenere insieme e “dare un valore alto” ai molti pezzi della loro relazione insieme. “Frammenti di memoria” che la sceneggiatura ci dispone piano piano nel racconto, come pezzi di un unico grande puzzle. Pezzi che “per forma o colore”, grazie alla grande cura che il regista ripone nella costruzione delle singole inquadrature, spesso si confondono e sovrappongono tra le linee temporali, mentre cerchiamo di completare il quadro complessivo. Pezzi narrativi che per il modo originale e “antitetico” con cui vengono disposti, mischiando intelligentemente “Eros e Thanatos”, amore e dolore, sanno mutare anche repentinamente il senso della storia. Portandoci come spettatori spesso a sorprenderci: facendoci ridere un secondo dopo averci fatto piangere.
Nicky Payne riesce così nel difficile intento di offrirci una “visione d’insieme dell’amore”, che vada oltre il lato tragico iniziale, preservando una complessità strutturale ed emotiva unica, quanto rispettosa delle mille sfumature proprie di ogni relazione umana.
Il titolo originale dell’opera, We live in time, potremmo quindi intenderlo non solo come “noi viviamo il tempo insieme che ci resta”, ma anche come “noi viviamo attraverso il tempo”: attraverso i molti momenti della nostra vita insieme, sparsi e combinati/ricombinati nel tempo, sotto forma di ricordi.
La bella sceneggiatura di Nick Payne viene sorretta dall’ottimo montaggio di Justine Wright, in grado di calcolare quasi al millesimo la giusta “durata emotiva” di una scena, senza eccedere mai in modo artificiale. A questo si aggiunge la fotografia molto accurata e puntuale di Stuart Bentley: capace di passare con velocità dai toni freddi delle scene più drammatiche al calore dei momenti più ironici e romantici.
È un film inoltre che parla di cucina, mettendo spesso in primo piano la costruzione di bellissime pietanze che grazie alle luci e alla fotografia sembrano letteralmente da “mangiare con gli occhi”.
Anche il lato “emotivo e competitivo” legato al “tema della cucina” offre sfumature interessanti e originali alla narrazione generare. A essere un po’ dissacranti potremmo dire che We live in time in alcune scene coniuga bene “Love Story a Masterchef”. Ma di fatto (essendo meno dissacranti) potremmo dire che chi ha amato film come Il sapore del successo con Bradley Cooper o Il gusto delle cose con Joliette Binoche si troverà bene anche qui, in una simile commistione tra cucina e sentimenti.
Tutto questa “costruzione di un amore” (per citare una celebre canzone di Ivano Fossati) sarebbe comunque vana se non fossero sulla scena due interpreti davvero in ottima forma. Garfield, senza abbandonare la sua aria da eterno bravo ragazzo, con gli anni sta diventando sempre più bravo a conferire sfumature ai suoi personaggi, con molta spontaneità e leggerezza. Il suo Tobias è un uomo molto emotivo che impara scena dopo scena a diventare adulto e indipendente per il bene della sua nuova famiglia, pur non abbandonando mai una amabile goffaggine. Florence Pugh dona alla sua Almut un carattere da vera combattente: spigolosa, fragile ma sempre in grado di rialzarsi e tornare a combattere, pragmatica nel suo affrontare la vita a testa alta.
I due personaggi funzionano molto bene insieme, sia a livello romantico che “buffo” che drammatico. Al punto che presto ci si affeziona davvero alla loro storia e i più sensibili probabilmente dovranno preparare i fazzoletti, anche se il film ha il grande merito di non cadere mai in eccessi drammatici.
We Live in Time è un film romantico “ma non solo”: è un film che parla di una relazione sentimentale a 360 gradi: realistica, senza retorica, tanto divertimento e con tanti spunti di riflessione. Specie per chi oggi è così innamorato o pazzo da pensare di costruire una vita insieme a qualcuno: “nella gioia e nel dolore, in salute e in malattia”. Un film che fa commuovere, ridere e riflettere.
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