mercoledì 18 ottobre 2023

The creator: la nostra recensione del nuovo film di fantascienza del sempre più bravo Gareth Edwards

Siamo nel 2055, in un mondo ultra tecnologico quanto “rugginoso”, abitato da uomini e robot. Gli automi si sono in breve tempo evoluti e hanno sostituito l’uomo in tutte le attività lavorative più pesanti, dall’agricoltura all’edilizia fino all’esercito. Ora stanno iniziando a sostituirlo in ogni tipo di mansione. Alcuni sono stati rivestiti di pelle sintetica e sono diventati quasi indistinguibili dall’uomo al punto da essere scelti come partner, anche perché la loro mente si è fatta sempre più sofisticata, “quasi gentile”, empatica. Non era strano che in tutto il mondo un uomo potesse amare una macchina e vivere insieme a lei, ma negli ultimi dieci anni è cambiato tutto, dopo l’incidente di Los Angeles. Fu colpa per qualcuno di dati errati raccolti dall’uomo, fu per altri un deliberato atto di guerra da parte delle macchine, ma la grande esplosione e i morti che ne seguirono divisero per sempre in blocchi Oriente e Occidente. 

In Occidente le macchine più evolute iniziarono a essere considerate come nemici dell’umanità, mentre i robot più semplici, come una razza inferiore, potevano essere sfruttati e  impiegati come soldati kamikaze. Per andare in guerra contro i robot orientali si crearono carri armati grandi come palazzi, stormi di aeronavi da sbarco superveloci e venne istituito un nuovo esercito ultra tecnologico, anche a costo di ibridare il corpo dei soldati umani al punto di farne quasi dei cyborg. Venne creato “Nomad”, una stazione spaziale dotata di armi in grado di distruggere intere città e sempre pronta all’attacco, come l’occhio di un dio maligno che dal cielo infligge punizioni. 

In Oriente invece, ora ribattezzato “la nuova Asia”,  il cammino comune tra uomini e robot proseguì, in piena armonia con la società, la natura e verso una sorta di spiritualità comune. Specialmente ai margini delle grandi città, tra quelli che un tempo erano templi buddhisti e le foreste ancora lussureggianti, ormai nessuno faceva più caso alla presenza di ossa o ingranaggi, che ugualmente invecchiavano come arrugginivano.  


Era in un piccolo paradiso terrestre fatto di casette in legno, nei pressi di una foresta lussureggiante vicino al mare, che l’ex militare occidentale Joshua (John David Washington) viveva insieme alla sua Maya (Gemma Chan), che portava nel grembo la loro prima figlia. Si trovavano all’interno di una pacifica comunità mista di uomini e robot, guidata con saggezza dal robot Harum (Ken Watanabe), quando subirono un attacco esterno. Gli assalitori erano alla ricerca del terrorista Nirmata e non ebbero intenzione di fare prigionieri. Maya e gran parte del gruppo provò a fuggire con delle barche, ma il Nomad attaccò e tutto scomparve tra lampi di luce. Joshua assistette inerme alla scena e in seguito fu riportato a Los Angeles alla stregua di un traditore e assegnato alla discarica: responsabile dello “smaltimento dei robot”, spesso condannati alla distruzione quando per i nuovi standard  si rivelavano “troppo umani”. 

Dopo cinque anni è un uomo distrutto, ma l’esercito ha di nuovo bisogno di lui: delle indagini hanno accertato come Nirmata sia ancora vivo e si trovi proprio nel villaggio di legno dove lui viveva con Maya. Intruppato in un plotone di super soldati comandato dallo spietato colonnello Howell (Allison Janney), Joshua dovrà guidarli in un territorio a loro ostile e aiutarli a recuperare la nuova terribile arma con la quale ora il terrorista potrebbe minacciare il mondo. Ma una volta che l’uomo si trova davanti alla fantasmatica arma scopre che in realtà questa è una bambina robot (Madeleine Yuna Voyles). Una bambina che gli ricorda molto Maya. Non riuscendo a ucciderla, dopo averle assegnato un nome umano, Alphie, decide di scappare con lei e seguire le voci che dicono che sua moglie, cinque anni prima, potrebbe non essere morta. L’arma-bambina è forse il suo biglietto per ritrovare l’amore, ma le cose potrebbero cambiare in modo sorprendente. 


Torna nelle sale Gareth Edwards con The Creator, la sua quarta opera cinematografica. 

Nel 2010 il regista inglese si era fatto notare con il suo lavoro di esordio, il piccolo ma sorprendente cult fanta-ambientalista Monsters, raccontandoci un futuro dove l’umanità combatteva misteriosi mostri giganti, il cui passaggio sulla Terra aveva effetti come la creazione di tsunami e terremoti. Un film in cui gli uomini erano piccoli piccoli e dove la migliore strategia di sopravvivenza era “adattarsi e non combattere”, in una perfetta metafora di come oggi si debba far fronte ai mutamenti climatici. Nel 2014 continuava a parlarci di mostri giganti ed equilibri possibili “non bellicosi” con la natura, con una personale versione di Godzilla dove il mostro, ideato da Honda e creato dagli esperimenti nucleari, si poteva interpretare, dopo le “necessarie incomprensioni”, quasi da protettore dell’uomo. Nel 2016 Edwards partiva per lo spazio con Star Wars: Rogue One, raccontandoci una storia di guerra e disincanto, molto cruda quanto apprezzata dai fan dell’opera di Lucas, in cui non dei super guerrieri Jedi, ma uomini comuni e robot, insieme a rappresentanti di altre razze aliene, combattevano fianco a fianco nella resistenza contro l’impero galattico, impossessandosi, dopo un grande tributo di sangue, dei piani per distruggere la massima arma di distruzione galattica: la Morte Nera. Lo scontro finale avveniva su un pianeta verdeggiante bellissimo che veniva completamente spazzato via dalla guerra, demandando la salvezza del futuro alle nuove generazioni. 

The Creator offre un po’ la summa di molte delle suggestioni e spunti di  queste opere, a cui si aggiunge una visione di insieme produttivamente da colossal, non distante per colori, azione, ma anche sviluppo dei personaggi e senso dello spettacolo, a quanto ci viene proposto dall’Avatar di Cameron. 

Un’opera enorme, roboante per gli effetti speciali e la grandiosità delle scene d’azione, ma anche in grado di commuovere con i buoni sentimenti e stimolare interessanti dibattiti sul senso della storia odierna. 

Al centro di tutto c’è Alphie, una bambina “che non è una bambina vera”, come lo era il piccolo David di A.I. di Spielberg e Kubrick. Una bambina che come David è “un modello nuovo”, in un mondo pieno di tanti robot rugginosi e derelitti, un po’ buffi e un po’ tragici, qualche volta simili al petulante R2D2 di Star Wars ma qualche volta vicini anche al casinista Chappie di Blomkamp. Alphie, interpretata dalla straordinaria Madeleine Yuna Voyles, deve sopravvivere alla sua distruzione, prima ancora di aver compreso il suo scopo. Mentre è costretta a una strana fuga che ha a volte i tratti del sogno e a volte le venature dell’incubo, Alphie si pone con l’ingenuità di ogni bambino le più spontanee domande sul mondo, sulla vita e sull’amore. Per avere risposte può fare affidamento solo su una sorta di “padre adottivo”, interpretato dall’ancora indefinito, ma qui più promettente del solito, David Washington. Un “padre” disilluso dalla vita e forse tradito dall’amore, per il quale considerare i ragionamenti della robottina come frutto di programmazione, e non di sentimenti “umani”, è una sorta di via di fuga dal dolore. Joshua ha infatti assistito (e noi con lui, in un suggestivo gioco meta-cinematografico) a situazioni che se non avessero riguardato direttamente dei robot sarebbero state di una crudeltà indicibile. Come androidi che si ponevano inermi a fermare con il loro corpo l’avanzata di carri armati. Come robot “disattivati” il cui corpo rimasto scheletrico veniva gettato nella discarica, simile a una fossa comune. Joshua cerca continuamente, anche con l’ironia, di separare mondo reale e mondo dei robot, i “diversi” dagli “umani”, anche perché passo dopo passo il suo viaggio si tinge sempre più di sangue e paura. Ma è un impegno sempre più doloroso quanto per lui impossibile, che ce lo rende umano almeno quanto la disorientata Alphie. 


Non essere umano è invece qualcosa di facilissimo per il colonnello Howell, interpretato da una granitica e spietata Allison Janney, che insieme alle sue truppe, seguendo il mantra “non sono umani, sono solo programmi”, non si pone problemi a fare fuoco su una folla inerme quanto a tritare una città sotto i cingoli di un carro armato gigante. Allo stesso modo come non si pone scrupoli a giocherellare con la “scatola nera” impiantata chirurgicamente nei suoi soldati 2.0, una volta che questo sono morti, e quindi “non più umani”. 

Edwards porta sullo schermo una storia dai tratti molto sanguigni, piena di guerra e violenze che vengono rappresentate nel modo più crudo quanto spettacolare che il cinema sa offrire. Ci parla di eroismo, di sacrificio ma soprattutto di paura, di tragedie inevitabili e della determinazione assoluta con cui spesso la gente decide di uccidere il prossimo. Ma al contempo, proprio come in tutte le sue opere passate, il regista riesce a raccontarci però anche di un mondo che va al di là del caos, un mondo che guarda con speranza al futuro e si può creare prima di tutto su un piano spirituale, con il dialogo e la comprensione. 

Un “mondo possibile” quando, attraverso il personaggio della sua robottina bambina, il regista arriva con intelligenza e sensibilità a farci ragionare anche su concetti difficili come “libertà” e “paradiso “.  

The creator non vuole essere una favola e anche per questo i suoi personaggi, pieni di difetti e paure, ci riescono ad apparire più vicini e autentici, conducendoci (e costringendoci) in una fantascienza utile per fantasticare di robot e astronavi, ma anche capace di farci leggere questo preciso momento storico, pieno di guerre e conflitti dove l’umanità, anche nei confronti di un nemico, è un concetto sempre più a rischio. Un concetto che nelle semplificazioni “necessarie” spesso si perde e che forse è compito anche del cinema del fantastico recuperare. 

In tutto questo il film riesce a non essere mai pesante, la narrazione si attesta sempre su ritmi elevati e la trama spesso sorprende con delle invenzioni interessanti e sarcastiche, che sanno strizzare l’occhio anche alla Storia del ventesimo secolo. 

Roboanti le scene d’azione di stampo bellico, anche se decisamente forti per un pubblico di più piccoli, che non hanno nulla da invidiare per potenza e coinvolgimento a un capitolo di Star Wars

Il film è lungo ma autoconclusivo, qualcosa di decisamente inedito ai giorni nostri. 

Il nuovo film di Edwards è di una bellezza visiva e sonora assoluta e riesce a portarci in un mondo futuro strano e pieno dì personalità, quanto sinistramente vicino ai problemi odierni. Bravo David Washington, straordinaria la piccola Madeleine Yuna Voyles. Molto intelligente il modo in cui si struttura una trama che a molti ricorderà anche il manga Alita

Edwards si conferma un grande narratore per immagini e uno dei registi specializzati nella fantascienza da tenere oggi maggiormente in considerazione. 

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