Maria (Pina Turco, anche moglie del regista), una giovane donna dall'aria sofferente e
dallo sguardo basso e arrabbiato, vive per lo più galleggiando sulla poppa di
una barca insieme al suo cane, dalle parti del Volturno. Trasporta al di là del
fiume le prostitute straniere nel cui corpo galleggiano piccoli feti di cui
vogliono presto sbarazzarsi, in cambio di denaro. Le trasporta anche con il
maltempo e in una certa misura sembra che anche il cielo pianga questo continuo
abbandono. Il traffico si replica ogni giorno come la monotona, spietata e
precisa costanza dell'attività corporale di un unico organismo. Il Volturno,
con le sue correnti, espelle "il futuro dimenticabile" di
queste donne, i loro "nuovi nati" per poi riportarle a battere sulla
strada, dall'altra parte del fiume. Questo flusso di anime, che a sua volte
diviene flusso di soldi, viene gestito e sovrinteso da un'altra donna di
nome Maria. Anziana, scontenta, delusa dalla vita e carica di gioielli, vive al
di là dell'altra sponda del fiume, dove ha sede, tra le baracche adiacenti e un
lurido maneggio per cavalli, un'improvvisata nursery fatta di camerette
fatiscenti, fango e sbarre. Questa seconda Maria, chiamata da tutti "la
zia" (Marina Confalone), è ammaliante come una strega, paga bene e
in fondo è lei la donna che permette il "vero futuro". In un mondo
dove non esistono prospettive e i figli finiscono per essere buttati via,
quegli stessi bambini giungono grazie alla zia nelle mani di famiglie per
bene, che non possono avere figli, ma li vogliono per davvero. Gente
che paga. E tutti sono felici, dopo quel piccolo viaggio di abbandono sul
fiume. O almeno forse è così. La ragazza "traghettatrice" ha affari
con la Zia, è sul libro paga. Affari grossi e una madre problematica che, a suo
modo, vive anch'ella nell'acqua, in un mondo tutto suo, dissociata, perennemente nella vasca del bagno di casa, a mollo per lunghe ore,
finendo spesso con l'addormentarsi, come cullata nel liquido amniotico. Poi
tutto cambia. Maria decide di alzare la testa, rompendo l'equilibrio
monotono, quotidiano e tragico del viaggio dei bambini sul fiume. Le si insinua
dentro lo strano vizio che le cose possano andare diversamente. Inizia
a sperare, almeno per un bambino, un futuro diverso.
Dopo Indivisibili De Angelis ci porta di nuovo in un sud Italia sinistro
e medioevale, tra luoghi naturali maestosi quanto contaminati da una umanità
malata che vive e sopravvive, assiepata e brulicante, tra sporco e
macerie. Un luogo dove si confondono vecchi e nuovi poveri, dove nell'aria
echeggiano musiche (sempre opera del sodale Enzo Avitabile) che
mischiano il neomelodico con ritmi africani ed arabeggianti, in una suggestione
multiculturale quasi tribale che dà voce ai sentimenti di protagonisti per lo
più muti, schiacciati nella loro condizione umana. Il Volturno assume
l'aspetto di un crudele e ineluttabile regno acquatico che con forza sospinge
e travolge, all'infinito, ciclicamente, le vite delle persone che cercano di
vivere alle sue sponde, tra le macerie (vere macerie, quando la storia umana
crea le condizioni più inverosimili!!) di una città dimenticata tra abusivismo
edilizio e opere non terminate. Uno scenario reale ma che sembra il Mare Marcio
di Miyazaki, un set da Mad Max già pronto che non richiede effetti speciali,
che tramortisce per la forza, lo sporco e la crudele bellezza del Volturno e
dei suoi luoghi limitrofi. Un luogo che potrebbe essere scenario di una favola
di Giambattista Basile e che in parte lo è, laddove De Angelis sceglie per il suo
racconto la sintesi e geometricità dell'intreccio, pescando ad ampie mani dal
sacro, come del resto fece per Inseparabili. C'è magari un
richiamo alla "cosmogonia di Dario Argento" (sempre più vivo in
questo periodo con il remake di lusso di Suspiria) in queste tre donne
che vivono sull'acqua (lasciamo ai tecnici le citazioni dantesche). Una Mater
Suspiriorum, che sospinge donne disparate che devono abbandonare i loro figli
oltre il fiume. Una Mater Lacrimarum che vive nella sua vasca a mollo nelle sue
lacrime. Una Mater Tenebrarum spietata che abita oltre il fiume. C'è
probabilmente una ricercata valenza simbolica (creazione e distruzione), un "legame", tra tutte le "forme d'acqua" descritte e
visitate da De Angelis. L'isola di Kim Ki-duk sembra altresì un
referente visivo chiaro quanto un metronomo dell'azione molto presente.
C'è anche un libro, sempre scritto da De Angelis, che esce in concomitanza col
film, approfondisce e ci porta in luoghi nuovi, con ampio tributo
autobiografico del regista. Un compendio interessante per completare il
"viaggio" di questo film a cavallo della favola, ma che sa pescare in
quello che in fondo è il volto più oscuro del cinema realista. La storia è
tragica e i personaggi trasudano di dolore e speranze infrante, in scena è
spesso presente un coro greco di donne mute. Se si va oltre una scorza così
ruvida e malevola il film di De Angelis sa però aprirsi a una dimensione
nuova, complessa e "titanicamente" positiva. Una dimensione che
permette alla pellicola di colpirci al cuore oltre che a cullarci di immagini
forti. Una dimensione che ha la voce, il carattere e la fisicità esile ma potente di
Pina Turco. Qui quasi una Gong Li per il suo Zhang Yimou o, se preferite, una
Linda Hamilton per James Cameron. Una donna combattente che rimarrà impressa
anche a fine visione.
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