I lavori
del team che presto sarebbe stato noto come "project Soul" di Namco (così chiamato da quando a capo è subentrato Hiroaki Yotoriyama) sono stati tra
i miei amori videoludici post liceo più intensi, che mi hanno coinvolto
proprio a partire dalla mia prima "era PlayStation". Prima
di Tekken, prima di Final Fantasy, forse prima di qualunque altro gioco
"completo" per il parallelepipedo Sony, in un'epoca in cui fioccavano
"i dischetti di demo" in edicola, c'era solo Soul Edge. Secoli avanti
a livello grafico a tutti i vari Virtua Fighters, Toshinden, Star Gladiator e
allo stesso Tekken, veloce come un proiettile (sembrava già a 60 fotogrammi al
secondo), esaltante, con personaggi iconici e fighi, ma soprattutto
longevo, fresco e con quella attitudine, dei migliori giochi da sala, di
volerti coinvolgere sempre per una partita in più. Ho ancora stampata in
testa la colonna sonora "remix", voluta per la console Sony in
aggiunta allo score da sala giochi, che per un'estate intera ho ascoltato in
loop, all'infinito. Ricordo il filmato di presentazione, con la musica cantata
e le sequenze animate impattanti, che pure lei in loop, con bava alla bocca,
vedevo, rivedevo, rivedevo. Ricordo i fasci di luce delle spade volteggianti (riprese dal cinema come estetica anche nei combattimenti con pugnali di V per
Vendetta) che cozzavano tra di loro con scintille che saltavano fuori dallo
schermo. Namco, che non "frequentavo" dal cabinato di Pac-man dei
bagni Miramare di Sanremo del 1985, era tornata, di punto in bianco, a essere
un nome che mi affascinava un casino. Fino a spingermi a sbandate come Libero
Grande, pur di collezionare tutti i titoli pubblicizzati su quel cartoncino
colorato promozionale presente nella mia copia di Soul Edge (purtroppo la
pistola guncon con i suoi Point Blank e Time Crisis non mi è mai arrivata però, costava un botto, se ci ripenso piango). Se era Namco, all'epoca,
"doveva essere bello", perché Soul Edge era magnifico. Era un
picchiaduro a incontri uscito direttamente dai miei sogni più nascosti, intrusi
di Dark fantasy come Lady Hawk, L'amore e il sangue, Legend ed Excalibur. Un
gioco pieno di arene con cavalieri in armature che si affrontavano a spadate,
con ambientazione "prevalentemente di stampo occidentale" ma
con tocchi greci, orientali ed egizi. Una atmosfera stilosa,
storico-fantasy, molto "marinaresca", con le battaglie che si
svolgevano su ring di base quadrata ambientati tra castelli sotto assedio,
fossati, navi pirata, canoe sul fiume, luoghi maledetti e grotte misteriose,
templi maledetti. Si vinceva abbattendo l'avversario a fendenti, ma anche
spingendolo fuori dal bordo del ring gestendo dei particolari jumping. Scontri
rapidi ma ragionati, curva di apprendimento dolce ma inesorabile. Molto
appagante nella gestione delle mosse di difesa e attacco. Una libidine. Come
era cosa buona e giusta tra i personaggi selezionabili c'era un mare di gnocca,
tra cui svettavano, per motivi del tutto diversi, la bionda, elegante, fatata e
virginale (che combatteva non le infradito estive con tunica con tanto di
gonnellino bianco che svolazzando mostrava le grazie) "Cavaliera di Athena" Sophitia e, in senso contrario, la Ninja
mora, veloce, letale, determinata e un po' zozza (con il generoso seno
poligonale sballonzolante contenuto in una tutina rossa nude - look ) Taki.
Ma
era tra i combattenti maschietti che trovavo subito l'empatia giusta,
soprattutto per quell'eroe tormentato di Siegfried, biondo cavaliere dai natali
crucchi, coperto di armature medioevale pesanti e vistose come
caffettiere, armato di spade assurdamente gigante stile l'eroe di Berserk di
Miura. Siegfried aveva una storia tragica, un po' come erano tragiche tutte le
"biografie dei personaggi" sapientemente raccontate in pagine
descrittive presentate come "extra" non da poco. Non che fosse mai
servito ai lottatori di un picchiaduro avere una storia, ma il fatto di avere
un contesto affascinante era di sicuro un surplus per la saga di Soul. La
storia di Siegfried era interessante perché particolarmente oscura. Lo scopo
del gioco era di impossessarsi di una spada maledetta, la Soul Edge del titolo,
manufatto mistico dagli immensi poteri, di proprietà di un pirata baffuto,
nerboruto e maledetto. Arrivati alla fine della classica modalità arcade, dopo
un sei/sette scontri all'arena bianca contro samurai, cavalieri, primitivi
ante-litteram, monaci e perfino un tizio inquietante vestito in modo sadomaso
di origine italiana, il giocatore incrociava la lama con il pirata baffuto, che
prima di soccombere diventava la versione Ghost Rider di se stesso. Sconfitto
pure lui, il personaggio scelto dal giocatore (molti dei
selezionabili, per lo meno) davanti a questa potente reliquia
poteva avere una scelta, selezionabile con un quick-time event: impossessarsene
o gettarla in un baratro. A Siegfried diceva male più che a tutti, se
decideva di prendere la spada. La sua armatura a caffettiera si deformava
su di lui, si contorceva, uccideva l'eroe trasformandolo in un cavaliere
maledetto, di nome Nightmare. Una creatura con un occhio sulla spada, con
un braccio mostruoso e tutti i capelli lunghi spettinati. Dannato per sempre.
Qualcosa di magnificamente tragico, anche se decisamente lontano da
Shakespeare, ma comunque uno spunto per imbastire un futuro canovaccio "potenzialmente" (...ci torneremo...) molto interessante a base di
maledizioni, redenzioni, diavoli, immortali, vampiri e spiriti fatti di
fiamme.
Una "trama" elaborata, pur nelle semplificazioni ovvie, che si
arricchiva nel tempo di più eventi, alleanze e nuovi personaggi mitici
come la strega Ivy (una bomba sexy s-vestita da dominatrix con frusta, lo
spadaccino Raphael (uno dei personaggi più veloci è male vestiti del gioco),
il demone -bestione lentissimo ma implacabile Astaroth, una specie di
faraone pazzo. Ma il gioco era bello, ed è bello, anche perché non era, e non è mai stato solo una serie di combattimenti nello Story mode o in 1 contro 1 con
amici o cpu. C'era "tanto" da giocare da soli nella solitudine
eremitica della propria cameretta, sotto la solinga luce del led della play
come unico lume. Esisteva ad origine una modalità "campagna"
gigantesca, in cui si affrontavano centinaia di scontri contro avversari
modificati e in qualche caso "unici", allo scopo di collezionare con
le vittorie, per ogni personaggio selezionabile, delle spade uniche, alcune
molto diverse dall'originale, una davvero leggendaria e dai poteri pazzeschi (e in genere una particolarmente "buffa" o "cretina"). Spade
"avvelenate", spade fulminanti, infuocate, invisibili, curative, che
rendono più veloci, che rendono più potenti, senza glutine. Un ottimo elemento
tattico studiato per non essere solo un vezzo grafico, importante per la
progressione, appagante da padroneggiare, difficile e gratificante. Ma sopratutto una meccanica che faceva giocare e rigiocare al
titolo anche se non si avevano amici a disposizione con cui incrociare il
pad.
Il
Project Soul (che ancora non si chiamava così, come dicevo) arrivava
così al capitolo numero 2, Soul Calibur, in esclusiva su Sega Dreamcast. Il Dreamcast costava un botto, aveva le esclusive più fighe (Power Stone,
Shenmue, Street Fighter 3...), i picchiaduro in 2D che ci giravano giravano
meglio che su Ps1 (Darkstalkers, Jojo...) e in fondo è fallito per tutte le maledizioni
che gli tirava chi non ce lo aveva. Così la festa fu doppia quando Soul Calibur
II (di fatto il capitolo 3, ma nella numerazione Soul Edge fu escluso per
questioni di marketing, considerato il mega successo del capitolo 2 in
jappolandia) non fu più un'esclusiva Sega e arrivò con una grafica ancora più
figa e con una "trama" ancora più accattivante su PlayStation 2.
Anche qui c'era un corposo spazio su disco dedicato alle modalità single player
e i fan gradivano. All'epoca furono realizzate pure delle action figures
pazzesche e un personaggio bonus, Necrid, fu affidato a Todd McFarlane. Ma in
un certo senso stava iniziando un trend nefasto. Invece di sviluppare
personaggi nuovi che implementassero organicamente il roster e la
"storia", Namco iniziava a sprecare tempo e risorse su
famigerati "guest characters". La versione di Soul Calibur II per ps2
aveva come "combattente ospite" Heihachi di Tekken, la versione X-Box
aveva come guest esclusivo l'antieroe a fumetti Spawn, sempre di
McFarlane, la versione Nintendo aveva Link di Zelda. Tutti personaggi
interessanti, con tecniche di combattimento uniche e un loro perché nel mondo
di Soul Calibur, ma che in quanto "esclusivi" non sarebbero più
ricomparsi come giocabili nella serie. Necrid stesso, che era un
guest-character ma poteva benissimo integrarsi alla trama in quanto in
quell'ottica sviluppato, non sarebbe più stato visto.
Rimaneva una strana
costante nei primi Soul, la presenza di personaggi e livelli che parevano
frutto di LSD. Vuoi per la voglia di sperimentare i limiti grafici dei nuovi
motori tridimensionali in fatto di effetti di illuminazione, vuoi le scie delle
spade e la volontà di creare personaggi composti da fiamme generate in tempo
reale, in alcuni frangenti giocare a Soul Calibur era come drogarsi. Vorrei
parlarvi delle convulsioni che mi provocava all'epoca la sola vista del boss
finale, un ammasso di fiamme così stroboscopiche e intense che temevo fondesse
per concentrazione visiva il catodo del mio vecchio monitor, acquistato nel
1988, ma non vorrei parvi esagerato. Sta di fatto che facevo fatica, una
fatica fisica, anche solo a vederli, mentre loro, che erano pure fortissimi e
stronzissimi, erano di fatto gli avversari più duri da tirare giù. Fortuna che
il trend dei boss stroboscopici e ultra particellari semi-mistici sarebbe
terminato. Si arrivava di li a poco a Soul Calibur III. In
aggiunta ai guest- personaggi "usa e getta", Soul Calibur III riuscì
a fare quasi peggio, introducendo nei picchiaduro Namco la piaga dei "personaggi
personalizzabili". Se ha sempre avuto un senso la direzione artistica di
un gioco a partire dai "costumi" dei personaggi, stava per finire
tutto, con i chara design più ispirati volti a finire nell'immondizia. Se oggi
è normale giocare online a Tekken contro un giocatore che usa Brian Fury che va
in giro nudo, coperto di polvere dorata e con un cesso portato in testa come
fosse un elmo, che apre e chiude il coperchio a seconda dei movimenti, sappiate
che è colpa anche di Soul Calibur III, esclusiva ps2 a sto giro. Certo giocare
impersonando un orso di pelouche con carica a molla sulla schiena, le pinne da
subacqueo e un cono gelato in mano può distrarre in parte l'avversario dando un
indubbio vantaggio tattico, ma ha tramutato in sterco ogni possibile
caratterizzazione dei personaggi, ormai riducendoli a dei burattini senz'anima,
distinguibili solo per le "mosse" come i "pattern
random" di Mokujin, ricoperti di spazzatura varia. E siccome questo trend
"piace ai giovani" perché li fa sentire incredibilmente "acuti e
originali" quando abbinano a un combattente di sumo dei guanti da forno
rosa, ormai affrontare online qualcuno che non si conci da pagliaccio (o che
dimostri quanto poco fantasia possieda, che spesso è pure peggio) è raro. E già
qui l'atmosfera del gioco per me si andava rovinando. In più Soul Calibur III
si macchiava di un peccato capitale mica da ridere che ne minava la fruibilità
del single player dalle fondamenta. La modalità campagna risultava buggata in
modo devastante, con l'alta possibilità che un salvataggio della partita non
solo si corrompesse, ma fosse in grado di distruggere tutti i salvataggi
presenti sulla stessa memory card ps2. Naturalmente all'epoca non c'era la
correzione dei bug con aggiornamento perché la play 2 al 90% non la aveva
nessuno collegata a internet. La gente voleva giocarci al single player, ma era
frustrante. Namco dal canto suo poteva magari inventarsi una patch, da
implementare in qualche modo, magari con i dischi di demo allegati alle riviste
di videogiochi o regalando un po' di dischi-patch ai rivenditori, ma nei
comunicati ufficiali attribuiva il bug a insormontabili problemi sistemici di
matrice aliena, insondabili e trascendenti la volontà umana. Nessuna soluzione.
Nasceva un po' di psicosi a riguardo. Tra fan che decidevano di abbandonare il
titolo, non comprarlo proprio o dedicare al gioco una memory card ad hoc, da
controllare e formattare periodicamente o alternare ad un'altra memory card ad
hoc in un complesso "sistema sicuro per giocare", che veniva
illustrato in rete attraverso tecniche di salvataggio più o meno deliranti. Con
uno spirito di osservazione del tutto giapponese, in Namco ricavavano
dall'esperienza di Soul Calibur III che ai giocatori piaceva giocare vestiti in
modo idiota e non avevano più voglia delle modalità single player (se avessero
ammesso "abbiamo fatto una cazzata perché siamo incompetenti" forse
per qualcuno finiva a seppuku del resto... la rimozione dell'onta passava per
forza, per la loro natura umana, dalla negazione dei fatti ad un fattore
esterno) E tutto questo, ed è quanto fa più incazzare, avveniva all'ombra di un
"cuore di gioco" che rimaneva ad ogni modo fantastico. I personaggio
su schermo erano sempre più belli, gli scenari ancora più evocativi, il
divertimento con amici e la grande tecnica dietro al gameplay in continua
evoluzione. Soul Calibur sul versante grafico pisciava in testa a tutti, da
sempre, e rimaneva sempre un titolo divertente, immediato, ricco, ideale per
una partita o due o seimila. Peccato che il single player non interessava più
ai jappi o alle nuove generazioni o ai responsabili del marketing.
Quel mondo
fatto di pirati, magia e castelli in fiamme, con le sue componenti da gioco di
ruolo, non fregava più a nessuno ed era da stronzi voler giocare da soli a Soul
Calibur. Così risultava per qualcuno "sensato" che Soul Calibur IV
fosse una specie di cross-over con Guerre Stellari. Nello specifico un
crossover con il gioco action Star Wars- Il potere della forza, un
noto titolo con una divertente idea di gameplay che diventava un vero abominio
ludico a causa di insensate meccaniche legate ai comandi di
"salto" del protagonista. Così mentre il cast fisso di Soul Calibur
non si incrementava di un singolo personaggio (invero c'era Hilde, una
tostissima Giovanna d'Arco realizzata da Yas, il disegnatore di Gundam in
persona, che in effetti era una delle cose migliori del gioco), con già
peraltro presenti personaggi che "riciclavano le mosse di altri",
Namco creava ex novo i "guest characters" del "signor nessuno
protagonista de Il potere della forza", di Darth Vader e di Yoda. Ora
direte: "Però, dai, che figata. Yoda contro Vader in un picchiaduro famoso
per i combattimenti con le spade, a incrociare le light sabers, su un livello
creato ad hoc con tanto di astronavi e John Williams in sottofondo...". E
ci hanno pensato pure quelli di Namco a questa sorta di "sogno
erotico", rendendo sadicamente il personaggio di Vader esclusiva Ps3 e il
personaggio di Yoda esclusiva Xbox. Naturalmente il "signor nessuno protagonista
de Il potere della forza" era personaggio presente gratuitamente su tutte
le versioni di Soul Calibur IV per console, che tanto non se lo inculava
nessuno, ma per rendere ancora più fastidiosa la sua esistenza Namco decideva
di farne il personaggio più potente e squilibrato tra tutti i lottatori, capace
di uccidere i giocatori più esperti anche solo alle prime fasi di una
partita arcade. Se si voleva giocare con Yoda o Vader senza avere la console
con la relativa esclusiva un modo però c'era. Pagando. Uno dei primi e più
infami DLC a pagamento con personaggi sbloccabili, antesignano di uno dei trend
più controversi dei videogiochi attuali, è proprio Soul Calibur IV. Convinti
del fatto che ai giocatori il single player non interessava più, per i motivi
di cui sopra, il single player diventava una cosetta senza senso di quattro
livelli e morta lì, da giocare senza un perché in mezz'ora scarsa, una specie
di "inutile tutorial" al gioco online. Con ovviamente per semi boss
finale il "signor nessuno protagonista de Il potere della forza".
Ormai i tempi del primo Soul Edge erano lontani e al posto dei "doppi
finali" con QuickTime event, animati con il motore del gioco, di un
paio di minuti l'uno, ecco un premio a fine single player un filmato quasi
uguale per tutti i protagonisti, accompagnato da un paio di disegni a mano e
due fesserie scritte a corredo. C'era ancora una modalità survival divertente
per il giocatore singolo, ma di macro-campagne non se ne parlava più, quanto di
questi personaggi fregava sempre meno, perché di fatto tutti li
personalizzavano cambiando, con le nuove opzioni, anche i connotati come
viso, capelli, peso, sesso, profondità di voce e altezza. Naturalmente in mano
al giocatore medio uscivano indicibili cagate visive. I "pacchetti a
pagamento" con nuove armature e colori per i mostri creati dall'editor
iniziavano ad infestare gli shop online e i bonus prevendite. Ma comunque il
gioco piaceva ancora di brutto tra i fan, perché rimaneva lo sballo da giocare
che era sempre stato, veloce, divertente, ecc. ecc.
Rispediti nello spazio
Vader, Yoda e il "signor nessuno protagonista de Il potere della
forza", Namco tornava sulla strada dei guest characters con più
"sensatezza tematica". In quello che dovrebbe rimanere un picchiaduro
fantasy medioevale arrivava così nel quinto capitolo Ezio Auditore da
Assassin's Creed e arriverà nel capitolo sei in uscita ad ottobre Gert dalla
saga di The Witcher. Ma avere in Soul Calibur V un guest "più adatto al
medioevaleggiante" non era il solo cambiamento, perché in realtà cambiava
quasi tutto sul fronte personaggi, in ragione di una ambientazione che si
distaccava di alcuni anni rispetto al capitolo precedente. Alcuni combattenti
venivano sostituiti dai rispettivi figli o "allievi" che ereditano le
medesime tecniche di combattimento, altri scomparivano del tutto, si
affacciavano al ring un paio di personaggio nuovi, invero parecchio
mutuati da Tekken (Zwei, che è pure la new entry più interessante, ricorda
Unknown, mentre nel sempre più florido character creation "che i
videogiocatori amano" è possibile selezionare per un combattente creato ex
novo i pattern di Devil Jin). Scompariva, del tutto o quasi, e questa era la
pietra dello scandalo di Soul Calibur V, la "storia dietro ai
personaggi". Anche al finire di un arcade mode, sempre più blando, sempre più
"trainer del gioco vero", Namco non ci regalava manco le due righe, o
anche solo un brutto disegno a mano fatto da un bambino delle medie, che
potesse contestualizzare o parlarci sommariamente della "trama" di quasi la totalità dei personaggi di gioco. Si finiva la partita, si vinceva
e arrivava il "Game over" con i titoli di coda uguali per tutti. A
ragion veduta manco il minimo sindacale che ci veniva concesso fin dai
picchiaduro degli albori. In realtà c'era un "parziale" Story mode
che riguardava le gesta di un paio dei nuovi personaggi, venti combattimenti in
tutto per un'oretta abbondante, tre disegnini bruttarelli e un paio di testi
recitati male dai doppiatori di lingua inglese. Ma era di fatto una "cosa
offensiva" che non dava un significato alla presenza della larga
maggioranza dei personaggi in quel contesto, soprattutto in ragione del fatto
che cose da raccontare ce ne sarebbe state a quanto si intuiva. E mentre sui
forum "chi gioca solo in multiplayer" diceva "chissenefrega
della trama", chi era anche un minimo affezionato alla trama fantasy del
gioco (e ama giocare per cazzi suoi, aspetto che il gioco curava in modo
sempre più svogliato) un po' si dispiaceva. Si dispiaceva anche perché dietro a
questo Soul i complottisti, tipo me, inutuivano un insolito "single-player-gate". Si raccontava in rete, prima dell'uscita del
gioco, del diretto coinvolgimento di Cyberconnect2 nella elaborazione del
single player di Soul Calibur V. L'azienda giapponese, al lavoro per
Namco-Bandai a quei tempi per .Hack e i videogiochi di Naruto, era famosissima
e stimata per i suoi QuickTime event narrativi in grado di trasformare in un
istante un gioco in un cartone animato. Qualche fan di Soul Edge della prima,
tipo me, aveva già l'orgasmo a ricordare quella scelta "prendi la
spada /lascia la spada" aggiornata tecnologicamente a quasi 15 anni dopo.
Poi sa il signore cosa succedesse. Si perdono progressivamente in rete le
tracce della collaborazione con CyberConnect2 sul progetto e Namco dichiarava
che ormai il single player era morto. Voci di corridoio parlavano di ritardi
nella progettazione in ragione di una data di uscita troppo imminente (cui si
legava bene la diceria, in parte fondata, che il Project Soul
fosse la cenerentola di Namco, a cui veniva concesso per i suoi lavori
autonomi solo nelle pause caffè da Tekken) e dell'impegno convulso del team nel
finire almeno "quello che davvero contava": il multiplayer.
Ciliegina. L'immancabile personaggio scaricabile, peraltro uno dei pochi un
minimo originali, già pronto e finito al day -One, disponibile solo se si
preordina il gioco o lo si paga a parte. Ma ormai a quei tempi era la norma. I
bambini e i puri di cuore per un certo periodo erano sicuri dell'uscita di un
DLC gratuito che implementasse lo Story mode e portasse nuove modalità a
beneficio del single player. Non arriverà mai. Siamo nel 2012 e nel giro
di poco tempo Soul Calibur come brand e giochi... moriva. Usciva
comunque nel 2014 una fallimentare iterazione del franchise,
concepita solo online sulla scia della famigerata moda del free to play, Soul
Calibur: Lost Swords, ma era un progetto maldestro, superficiale e disastroso,
che raccoglieva a ragione dalla critica voti infimi per una serie infinita di
problemi, dalla gestione claudicante dell'online, alle micro transazioni
esorbitanti e immotivate, alla pochezza del gameplay e una generale e sconfortante scarsa varietà di gioco. Non se lo è filato giustamente
nessuno.
Tralasciando
questa infausta parentesi, è incredibile come una delle saghe di combattimento
più belle e iconiche degli ultimi vent'anni sia stata bistrattata dai suoi
sviluppatori senza un perché, soprattutto mortificando il comparto per
giocatore singolo in situazioni che a volte pareva bastare pochissimo per
rifinire meglio. Quanto diavolo può costare far realizzare, se non filmati in
computer grafica, almeno quattro o cinque disegni a mano per "raccontare
una storia"? Quanto complicato può essere inserire nel menù opzioni la
possibilità di implementare di qualche livello gli scenari del single player?
Quanto può costare copia-incollare le modalità campagna dei primi episodi,
creando ad hoc un paio di personaggi extra avendo a disposizione un editor
potentissimo già implementato nel gioco? Sembra che Namco abbia fatto di tutto
per spingere i giocatori verso l'online-only, senza sapere all'epoca che tipo
di giocatori fossero quelli che prediligevano l'online. Con gli anni (ma si
capiva dai tempi dei primi sparatutto arena per pc) si è visto come siamo
giocatori molto esigenti, che si muovono nelle preferenze solo tra titoli molto
consolidati da anni nelle community e decidono di dedicare in alternativa
spazio del loro tempo a esperienze nuove solo in ragione di mode passeggere.
E quando il gioco non interessa più o, come nel caso dei giochi sportivi, ha un
"aggiornamento annuale", sono giocatori che "migrano in
massa", lasciando vuoti i server del prodotto "vecchio" al punto
da rendere impossibile a chiunque trovare una anima pia con cui giocare.
Senza aggiornamenti costanti, con una curva di apprendimento che faceva
erroneamente sembrare il titolo inizialmente troppo facile e permissivo per i
neofiti (basta di fatto pigiare un tasto per vincere se si ha contro uno che
non sa cosa sia "parare e schivare"), finito il
fattore novità con la voglia di programmare accessori come elmi a forma di
innaffiatoi, guantoni a tostapane e buste dell'umido al posto di scarpe... anche
Soul Calibur V ha scemato il suo interesse per i giocatori on-line in poco
tempo, senza avere sviluppato nulla che desse la voglia ai giocatori single
player per riprenderlo in mano, in più con dei personaggi di un roster che in
cinque titoli ufficiali si è allargato pochissimo e con davvero scarsa inventiva.
Capitava così che a Soul Calibur non ci giocasse più nessuno, almeno fino ad
oggi o per meglio dire al prossimo ottobre. Bisognava in qualche modo andare
avanti facendo al contempo qualche strategico passo indietro. Street Fighter V
di Capcom era stato in qualche modo, per perdite economiche (è solo oggi una
parziale "redenzione"), il gioco che più aveva aiutato gli
sviluppatoti giapponesi (da sempre "di coccio" quando si
tratta di cambiare opinione su qualcosa) a capire che la via del solo
online senza modalità single player e senza una minima caratterizzazione dei
personaggi era dannosissima. In un periodo in cui innovare e avere un minimo di
creatività nei picchiaduro (se non ti chiami Arc System Works) sembrava una
utopia, sia Capcom che Namco dovevano "tornare dolorosamente sui loro
passi".
Su
questa linea di pensiero arrivava in Namco un omino di nome Motohiro Okubo.
Quando ormai nessuno ne aveva voglia, produceva un nuovo Tekken, il 7, in cui
la principale innovazione era trapiantare nel roster dei combattenti un
massiccio numero di nuovi guest characters... così nella saga del pugno di
ferro ideata da Harada facevano il suo ingresso, in prestito da Capcom,
Akuma di Street Fighters, Geese Howard, in prestito da SNK, di Fatal Fury (a
pagamento), Noctis, in prestito da Square Enix, da Final Fantasy (a pagamento)
e, annunciato da poco, in prestito da ABC e da Robert Kirkman, Negan e la sua
mazza direttamente dalla saga di Walking Dead... Non si fa mancare ovviamente
uno dei (pochissimi) personaggi nuovi e potenzialmente interessanti da
aggiungere al "cast fisso", disponibile peti solo in pre-ordine
o a pagamento. Commette lesa maestà togliendo dai selezionabili alcuni
personaggi storici come Lei, Nina, Murdock. Si è fatto perdonare tipo... ieri...
annunciando all'EVO 2018 che Lei, Nina e altre vecchie leve, che saranno
presenti nel nuovo season pass... Harada , storico e mitologico sviluppatore di
Tekken, aveva poi dichiarato un giorno su Twitter, per alcuni in un probabile
momento alcolico, di non volere lucrare sui vecchi personaggi, e così
qualche bambino e anima candida ha supposto che con questo il nostro intendesse
che vedremo Lei e Nina, più altre verghe glorie, in Tekken 7, come
personaggi gratuiti... certo fosse vero sarei felice... Certo sarebbe bello se
riuscissimo a uscire fuori da questa piaga dei guest characters, con gli
sviluppatori che tornassero davvero a investire sui personaggi di un gioco
invece di perdersi in comparse colorate di lusso, contrattualmente a scadenza
più risicata del latte. Certo se la politica è questa significa che
l'investimento paga. Però è uno strazio. Invece di Geese Howard o Akuma si
poteva creare personaggi "ispirato a questi", da aggiungere al roster
permanentemente, magari simili ma stabili, con una propria identità, a cui ci
si poteva affezionare negli anni. Senza contare gli stili di lotta ancora non
esplorati da Tekken, tra cui metterei anche la lotta greco-romana.
Le
modalità single player in Tekken 7 sono un po' naif... ma per lo meno "ci
provano", tentano di "esistere" nel regno sempre più online dei
"lottatori (ormai solo) vestiti da fessi "dalla creatività di
videogiocatori sempre più creativi". Perché Tekken non si è
eclissato come Soul Calibur? A mio parere perché ha sempre offerto più
contenuti e varietà, sapendo evolvere senza perdere una precisa identità, con
esperimenti spin off riusciti (la serie tag) al netto di esperimenti di
cambiamento pur lodevoli anche se sfortunati (come il 4), unitamente a una
curva di apprendimento più morbida e graduale, unitamente a personaggi che
hanno saluto diventare icone forti e riconoscibili. Il solito single
player storico di Tekken è sempre rimasto old-school, con un numero appagante
di scontri (salvo strane, sporadiche e folli "modalità
storia", in aggiunta al comune arcade, pensate senza un motivo per far
compiere a ogni personaggio un paio di scontri e stop... incomprensibili...),
presentando boss fight esaltanti e persino bonus stage (come il
"robottone" di Tekken 6) godibili e impegnativi. A queste si è
sempre aggiunta una bizzarra modalità campagna, strani ma lodevoli
esperimenti alla Final Fight (ma improntati su comandi macchinosi e senza
senso, quasi da galera), delle modalità survival varie e piene di
ricompense e cotillons. In Tekken, mia opinione personale, il single
player è sempre stato in qualche modo tenuto in considerazione è questo è stato
un bene. Okubo ora produce Soul Calibur VI e decide di tornare al cuore
della serie, ambientando la storia tra Soul Calibur e Soul Calibur II per
impreziosire il contesto e dare il giusto lustro ai personaggi più carismatici
e interessanti. Ci sono nuovi arrivati, come Groh, che effettivamente per ora
non appare figo quanto si vorrebbe. Spero almeno nel ripescaggio di Zwei e
Viola dallo sfortunato capitolo V e di Hilde dal IV, ma soprattutto spero, come
anticipato da Okubo, in delle modalità single player in grado di riportare alla
saga la mia voglia di giocarci appunto da single player. Ne sapremo di più forse alla
Gamescon o al Tokyo Game Show di Settembre. I filmati di gameplay presenti in
rete in numero già generoso sono decisamente accattivanti e indice di una
qualità grafica sempre di alto livello. Magnifici gli scenari, i combattenti
sempre più belli e dettagliati anche grazie a un asset di movimenti che appare
meno legnoso che in passato. Le armature che si rompono dopo alcuni colpi dando
vita a una specie di graduale strip-tease dei combattenti sono un po'
anacronistiche, ma buffe e perfettamente inquadrate nel DNA del titolo. Si
respira aria di casa, anche se l'effetto spacca-mascella che sapevano irradiare
i primi titoli non sembra forse più replicabile. Non vedo l'ora di divertirmici
un po' e scoprire i molti aspetti ancora misteriosi della produzione. Di sicuro
ne riparleremo, perché tra noi nerd i giochi con enormi spade falliche ci
piacciono tanto.
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