giovedì 10 ottobre 2024

Iddu- l’ultimo padrino: la nostra recensione del film drammatico di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, con protagonisti Elio Germano e Toni Servillo. Recensione in collaborazione con Fantasy Magazine

Sinossi: Sicilia dei primi 2000. Catello Palumbo (Toni Servillo), politico condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, torna a casa finita la sua condanna di sei anni, trascorsi nel carcere di Cuneo. 

La moglie Elvira (Betty Pedrazzi) si è trasferita in un appartamento più piccolo e non si alza neanche dal divano per salutarlo. I soldi sono finiti e ci sono ancora troppi guai legali in sospeso. L’adorata figlia, che non gli ha mai scritto una lettera in sei anni, è incinta di Pino (Giuseppe Tantillo), il ragazzotto poco sveglio che faceva da bidello nella scuola in cui un tempo lui era preside.

Ex detenuto, ex sindaco ed ex preside, futuro probabile ex marito, Catello si sente destinato a una vita da recluso in casa, nonno controvoglia e suocero di un fesso, ininfluente e invisibile: “ex di tutto”. Pure di recente orfano dell’amicizia del potente don Gaetano (Rosario Palazzolo), di cui si appresta ad andare al funerale, ritrovato morto per malattia dopo un periodo di latitanza. 

Il Boss però aveva scelto personalmente Catello come padrino del suo terzo genito Matteo (Elio Germano): ora è lui il nuovo boss, nonché il latitante più ricercato di sempre. Questa circostanza, anche se “pericolosa”, forse potrebbe risolvere tutti i problemi. Magari farlo tornare sindaco, dopo aver debitamente risolto le beghe di un grande appalto,  in sospeso da anni causa burocrazia. 

Catello può forse riavere “visibilità e potere”.  

Matteo, costretto a essere “invisibile per scelta”, vive invece ancora nelle vicinanze, nascosto in una casa sicura e assistito da Lucia (Barbara Bobulova), una donna che per un debito di onore gli fa da cuoca, governante e segretaria. È lei a dettare a macchina tutte le lettere con cui il boss gestisce ancora il governo del territorio. 

Ogni tanto, quando guarda il cielo da un terrazzo nascosto, da dietro gli occhiali da sole a goccia che perennemente indossa, Matteo si sente chiuso in gabbia, come il canarino giallo di Lucia, ingabbiato vicino al suo abituale angolo di lettura. Non vuole finire come suo padre: morire su un letto di emergenza improvvisato attaccato a una flebo, in una baracca tra i prati, circondato dalle capre. 

Arriva il giorno del funerale e Matteo ripensa a quando Gaetano da piccolo lo aveva portato in una simile baracca isolata tra i campi, per poi sceglierlo tra i suoi fratelli: il prediletto che avrebbe sgozzato il capretto per Pasqua. Lui aveva eseguito l’ordine con fermezza e senza emozioni, “come andava fatto”. Il padre aveva apprezzato e lo aveva designato suo successore, affidandogli simbolicamente una statuina antica e pregiata, un “pupo”, tenuto nascosto in un pozzo. 

Anche Matteo, ora privato della guida e del consiglio del padre, avrebbe presto dovuto pensare a passare quel “pupo” a un successore, continuare la tradizione. Ma per ora il boss è ingabbiato in quella casa come un canarino. Si sente sepolto, come quel “pupo” nel pozzo. Per questo inaspettatamente, con vera gioia, il boss riceve una lettera dal suo padrino, il preside Catello. Lo conforta, si offre di mettersi a sua disposizione per consigliarlo e aiutarlo. “Se lui vorrà, è lì per lui”, nel segno di “quel faro nella notte” che era don Gaetano per tutti e che oggi deve essere Matteo.  

Il boss detta una nuova lettera a Lucia, sfoggiando nel lessico tutta la sua abilità stilistica: vengono poste le basi per una corrispondenza segreta e riservata. Il preside si rivolgerà a lui nelle future missive con il nome di Emmanuele, che significa: “Dio è con noi”, mentre Matteo lo chiamerà Salustio, come l’amico e consigliere dell’imperatore romano Giuliano. 

Forse questa corrispondenza è l’inizio di una ripresa dopo tanto sconforto, per entrambi. La prima lettera di Catello, arrivata al boss attraverso una complessa catena di relazioni, cambi di mano e pesce surgelato, non è però stato un atto spontaneo. Al termine del funerale di don Gaetano, il preside è stato caricato su un auto da uomini dei servizi segreti, come il lunare e ambiguo Emilio Schiavon (Fausto Russo Alesi) e la collerica Rita Mancuso (Daniela Marra). 

I servizi gli hanno offerto una “collaborazione spontanea” nella cattura del boss. In alternativa la prosecuzione di certi atti rimasti in sospeso. 

Rita Mancuso prende di petto la caccia, vuole “vedere oltre l’omertà”. Sfrutta il preside e le sue conoscenze come ariete, arriva alla sorella di Matteo, Stefania (Antonia Truppo), che è sempre più in disaccordo con la catena di comando. Ha delle fonti sicure e si avvicina sempre di più  al più noto “fantasma” della mafia. Il cerchio si sta stringendo, ai danni del preside quanto del suo “figlioccio”.  

Matteo, che per Catello è “come Amleto” nel suo dialogo con il fantasma del padre, è malinconico e forse distratto, vulnerabile. Ma se Matteo è così vulnerabile e Catello di fatto molto inaffidabile, forse qualcuno di inaspettato potrebbe scompigliare le carte. Forse anche in difesa di uno “status quo” che deve essere preservato “per il bene di tutti”.


Una nuova storia di Grassadonia e Piazza sulle “realtà non-visibili” della Sicilia: dei giovanissimi Fabrizio Grassadonia e Antonio Piazza si conobbero alla scuola Holden di Torino, negli anni novanta. Da lì nacque una collaborazione che nel 2010 portò alla realizzazione del cortometraggio sperimentale Rita: un’opera tutta girata dalla prospettiva di una ragazza siciliana non vedente, con la telecamera fissa unicamente sul volto espressivo dell'attrice protagonista, Marta Palermo, con il resto del “suo mondo” che rimaneva definito dai suoni e dalla immaginazione degli spettatori. 

Dopo i quaranta premi internazionali ricevuti per Rita, nel 2013 questo stesso personaggio “ritornava”, seppur da co-protagonista, reimmaginato e interpretato questa volta da Sara Serraiocco. I due registi la facevano rivivere nel loro primo lungometraggio, Salvo: un’altra storia sulla Sicilia, ambientata questa volta nel mondo della malavita organizzata. La “nuova Rita”, ancora non vedente, per una specie di miracolo tornava vedente dopo l’incontro rocambolesco con la canna della pistola un killer della mafia, intenzionato a ucciderla. Un film sui gangster diventava qualcosa di nuovo, quasi magico. Anche Salvo ricevette molti riconoscimenti, tra cui a Cannes entrambi i premi della settimana della critica.

Aprì invece propio Cannes 2016, primo film italiano con questo onore, il secondo  film di  Grassadonia e Piazza, Sicilian Ghost Story. La sceneggiatura, selezionata anche per il Sundance Jannuary Screenwriters Lab, aveva ancora protagonista la Sicilia, una ragazza e un tema “magico”: riuscire a scorgere la presenza di persone che non si vedono: “seguendo il loro eco”. Questa volta la storia era liberamente tratta dal racconto “Il cavaliere bianco” di Marco Mancassola: in un'atmosfera da favola amara, tra le casette ai margini di un grande bosco, una ragazzina innamorata combatte con l’omertà del piccolo paesino in cui vive, per cercare di ritrovare un suo coetaneo, che dal giorno alla notte sembra scomparso nel nulla. Scomparso come fosse diventato di colpo, pur “controvoglia”, un fantasma. Con Iddu, Grassadonia e Piazza tornano a parlarci di Sicilia e fantasmi, anche se questa volta si tratta di celebri “fantasmi per scelta”. Fantasmi invisibili ma potenti, che qualcuno paragona quasi a divinità. Fantasmi con cui avrà direttamente a che fare, ancora una volta, un personaggio femminile che Grassadonia e Piazza chiamano Rita, interpreto qui dalla brava Daniela Marra.  Questa volta però alcune suggestioni “magiche” del racconto arrivano anche dalla filosofia greca: direttamente dal mito della Caverna di Platone.  


Un film che affronta la realtà, giocando con il registro grottesco e  le maschere della commedia e della tragedia umana: Ogni tanto le storie si inseguono. Il “fantasma” di Matteo Messina Denaro e il modo in cui riusciva a essere sempre presente, per la società, ha suggestionato a lungo i due registi. 

Per la realizzazione della sceneggiatura, per distillare dalla realtà una storia “da non intendersi come una biografia cinematografica”, Grassadonia e Piazza hanno lavorato per anni, da molto prima della cattura del boss, al punto che un primo titolo di lavorazione era Il latitante

Hanno lavorato su articoli, indagini, atti dei vari processi collegati. Infine si sono imbattuti, quasi a sorpresa, nei particolari scambi epistolari del boss con l’ex sindaco di Castelvetrano, Antonino Vaccarino. Scambi  riportati nel saggio del 2008 Lettere a Svetonio, curato da Salvatore Mugno. 

Proprio in onore a quel libro, scovato dai due quasi per caso tra tutta la documentazione,  il film doveva a un certo punto chiamarsi Lettere a CatelloLe lettere, scritte dal 2003 al 2006, oltre a portare alla luce molti dettagli sulle attività criminose, offrono testimonianza anche del temperamento umano e della malinconia del boss. Dicono della fascinazione per le letture classiche. Raccontano della “figura del padre” e del suo ruolo di guida sociale, con tratti quasi messianici. In brevi stralci offrono punti di auto-analisi e auto-critica, con il sapore di un diario personale. Sono pagine di invettive e proclami, spesso terribili quanto sarcastiche, a volte ritenute “egocentriche”, ma accompagnate a pagine che ricercano complicità, vicinanza. Un bisogno di ascolto forse generato dalla troppa solitudine, per cui il boss si intrattiene a raccontarsi in mille dettagli anche esistenziali. A volte dipingendosi come vittima e a volte come carnefice della società. Spaziando dalla “gestione di questioni lavorative” a ricordi privati. Coinvolgendo nomi importanti per le inchieste, quanto citando l’arte e la letteratura, pittori, filosofi o scrittori ripreso dai libri che il boss stava scoprendo nelle letture in isolamento. 

In questi scambi, accesi quanto riflessivi, che partivano su un tema per poi evolversi in tutt’altro, per Grassadonia e Piazza emergeva materiale interessante da poter essere evidenziato, riletto e re-interpretato, sotto il segno della grande commedia italiana, giocando con il registro grottesco. Senza per questo togliere o glissare sui tratti “realmente crudeli”, che caratterizzavano e dovevano continuare a descrivere le persone coinvolte in queste vicende, poteva emergere dal “contesto relazionale” una “normalità distorta”, così incedibile da essere tragicomica. Nelle interviste legate alla promozione del film Toni Servillo afferma che la cifra grottesca della sceneggiatura risiedeva proprio in questo: nel riuscire “a far emergere con vigore, proprio in forza del ridicolo del contesto, il lato tragico della vicenda”. Tragico e al contempo ridicolo diventa quindi l’intero mondo di disperazione umana che ci viene raccontato, non solo dagli occhi del boss, ma attraverso tutti i personaggi della storia: in primis dal politico e dal boss, ma anche dai poliziotti, dalla piccola realtà di paese. Emergono tre personaggi femminili, la segretaria, la sorella e la poliziotta: diversi quanto simili, nel raccontarci tre facce diverse di un simile sentimento di solitudine e abbandono a una realtà incomprensibile quanto umanamente arida, ma che cercano comunque di “gestire”, anche con piccoli gesti. 


Tutti i personaggi indistintamente sono  dipinti come “assediati dalla disperazione”, impotenti o asserviti nei confronti di “chi ha (momentaneamente) più potere”. Tutti cercano di stare a galla in un mondo che sta cambiando, forse, ma troppo lentamente; pur accontentandosi di rivestire il ruolo di “piccoli virus ancora attivi” all’interno di un corpo sociale malato. 

Gli attori erano quindi chiamati a vestire i panni di uomini che vivevano nel paradosso. 

La sfida di Tony Servillo, soprattutto per il ruolo del suo politico, è stata preservare la “tridimensionalità umana”, fatta di lati oscuri più o meno visibili, di personaggi che anche solo visivamente potevano scivolare troppo nel caricaturale. Catello appare buffo e tronfio, ma solo in superficie. 

La sfida di Elio Germano è stata dapprima quella di  immedesimarsi al meglio nella “prospettiva sensoriale di Iddu”: calarsi per alcuni mesi nei luoghi dove erano state scritte quelle lettere. Comprendere tanto il senso di isolamento che le particolari sfumature sonore di quei luoghi. Ascoltare la musicalità del dialetto trapanese, ovattato da dietro mura e finte pareti. Il “salto paradossale” che si è poi trovato a compiere Germano, per “capire il personaggio”, è stato cercare di immaginarlo nel suo “accettarsi”, nonostante tutto come una “persona comune”, amante della lettura e dei puzzle. Come un politico o un imprenditore, con le sue riunioni e progetti di sviluppo, con le proprie debolezze e interessi privati. Un uomo pratico mosso dall’ambizione personale quanto dalla prosperità del proprio “gruppo”, che cerca di emergere sul mercato. Anche se è rappresentante di un mondo parallelo, criminale, “Iddu” è riconosciuto e sostento da una collettività dove il senso dello Stato e della giustizia sono mutati. 

Oltre a tutto questo, è anche un figlio diventato orfano di un padre dall’influenza enorme; una responsabilità che a volte lo schiaccia e reprime (vedasi la scena dell’incendio). 

Aspetti umani che Germano doveva far emergere oltre un costante muro emotivo, autoimposto dalla rigidità emotiva del personaggio: costantemente nascosto da spessi occhiali da sole scuri che non lasciano trasparire emozioni.


Tra realtà e racconto, a fine visione: Iddu sembra ispirarsi per molti aspetti a opere  complesse come Il sindaco del rione Sanità di De Filippo, come al film con protagonista Alberto Sordi Finché c’è guerra c’è speranza. “L’anormalità diventa normalità”, sotto l’influenza di un contesto sociale che per lo più ragiona secondo regole distorte di convenienza. I personaggi si adattato alla anomalia, al grottesco, diventando umanamente buffi e tragici allo stesso tempo nel tentativo di seguire le regole di un gioco “truccato”. 

Nel teatro di De Filippo un boss diventa un giudice la cui autorità e senso di equità  sono riconosciuti e accettati a tutti gli effetti più che in un tribunale. Anche il mercante d’armi impersonato da Sordi è accettato dai figli convinti pacifisti, sebbene ignorato in pubblico, perché porta a loro ricchezza e benessere. 

Il registro tragico riesce particolarmente a Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, che con Iddu si sentono liberi di indugiare sul soprannaturale, in parallelismi con i fantasmi di Shakespeare. Possono aprire a suggestioni platoniche sul timore e reverenza che suscita il potere in quanto tale, con contorni quasi manzoniani. I due registi sanno da queste premesse creare scene anche drammatiche potenti, dal grande impatto visivo ed emotivo, giocando su spazi e dialoghi dal forte sapore teatrale. 

La vena ironica “in potenziale”, se vogliamo “l’altra maschera dietro al grottesco” è pur presente in Iddu, anche se per scelta dei registi “più contratta”. Parlando in senso molto stretto di “maschere”, riesce a costruire molto, per la definizione di un registro “buffo”, proprio il trucco di scena scelto per i personaggi. 

Servillo con parrucchino e che nella prima scena sfoggia sulla giacca una cacca di piccione, visivamente non è lontanissimo dai ruoli compassati ma brillanti che “con simili vesti” Buccirosso svolge nelle commedie di Salemme. Germano che si muove con gli occhiali da sole, pallidissimo, sembra a tratti più che un nobile decaduto quasi un epigono di Dracula. Quando il suo personaggio si scusa in quanto “manchevole di ironia”, risulta molto ironico. 

Le maschere funzionano. 

Ogni tanto il film sfoggia anche momenti finemente tragicomici, come tutta la sequenza iniziale e la scena della “finestra abusiva”, ma il senso generale dell’opera è sull’accettare, senza sottolineare troppo, il fatto che i personaggi possano apparirci “anche”buffi: nella misura in cui tutti gli esseri umani, anche i peggiori, possono a tratti esserlo.  

Ciò non toglie che Iddu risulti infine un film amarissimo. Un canto funebre, purtroppo avvallato dalle circostanze dell’arresto di Matteo Messina Denaro, sull’impotenza delle istituzioni nella volontà effettiva di fermare la mafia. Una mafia ineliminabile oppure, per il paradosso e senso del grottesco presentato nell’opera, utile in quanto sostituto (dis)funzionante dello Stato, tacitamente accettato. 

Fabio Grassadonia e Antonio Piazza ci invitato a ragionare su queste meccaniche perverse, anche per magari ispirare le nuove generazioni e fare in modo che con il tempo si arrivi a un diverso modo di pensare. 

Finale: Il film di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza ci ha convinto per la buona prova degli attori, per un testo dal sapore teatrale latore di una la forte critica nei confronti delle istituzioni. Funzionali le scenografie e la fotografia, che giocano con intelligenza sull’ambivalenza degli spazi di luce e di ombra, creando un costante senso di claustrofobia. Adeguato ma poco incisivo il comparto sonoro. Ritmo forse un po’ lento, ma utile a soppesare le varie sfumature dell’opera, che beneficia molto di una seconda visione per afferrare al meglio le molte sfumature di cui è composta. 

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