mercoledì 27 settembre 2023

Asteroid City: la nostra recensione del nuovo affascinate, multiplo e stralunato film di Wes Anderson: tra bambini scienziati, alieni, il deserto, la creatività e il suo “stallo”

Prima lettura: Asteroid City, una piccola, piccolissima cittadina abitata da scienziati e militari situata nel deserto, come la New Alamo di Oppenheimer. Siamo nel 1955 in concomitanza dell’annuale concorso per piccoli geni, lo “Junior Stargazer”. Tradotto, il nome del premio suona come “Giovani osservatori di stelle” e non è casuale, in quanto proprio in quel luogo, direttamente dalle stelle, è caduto l’asteroide che ha dato il nome alla cittadina. Ben sorvegliata da scienziati, militari e telecamere, la roccia spaziale risiede ancora nello stesso cratere che ha causato con il suo impatto, ora al centro di un edificio, nella sala della premi Stargazer. È piccola, sembra un uovo strano con le macchie e presto, prestissimo svelerà al mondo che “anche le stelle ci guardano”. Per guardare il figlio Woodrow (Jake Ryan) che concorre al premio, si muove verso Asteroid City con la famiglia il fotografo di guerra Augie (Jason Schwartzman), di recente diventato vedovo senza che sia ancora riuscito a comunicare ai figli la scomparsa della madre, avvenuta a seguito di un incidente. Ha trovato alloggio tra le casette di un motel a fianco di una attrice con poca fortuna, Midge (Scarlett Johansson), che a sua volta accompagna lì la figlia Dinah per il premio. Oltre ad altri bambini bizzarri quanto geniali, con a seguito le rispettive famiglie, la cittadina di scienziati e militari guarda con simpatia anche la presenza dagli alunni in gita di una scuola elementare e l’arrivo di un gruppo di musicisti country. 

Il concorso parte, la premiazione arriva e succede qualcosa di strano e inaspettato al meteorite. Nello specifico dal nulla arriva un alieno, piccolo e buffo, che sottrae il piccolo asteroide nello stupore generale, per poi andare via con il suo piccolo ufo. Il tutto dura pochi secondi, ma Augie riesce a scattare una foto. Dopo il furto dell’asteroide l’esercito impone la quarantena forzata a tutti i presenti: tutti dovranno essere osservati e valutati da esperti fino a data da destinarsi. O almeno fino a che avranno valutato la situazione dal coretto punto di vista i militare, gli scienziati, ma soprattutto i politici. Dopo un po’ di panico, quando la quarantena inizia a protrarsi per le lunghe, tutti iniziano a convivere con questa situazione di stallo, guardando sempre più timidamente alla sua soluzione. 

Tutti i bambini sono ancora euforici e cercano vie d’uscita per ribellarsi ai militari, politici e scienziati e tornare liberi. La maggior parte degli adulti appare invece, anche comprensibilmente, triste e rassegnata. Sono diventati schiavi di una routine monotona che sembra averne annientato la gioia di vivere per sempre. Si muovono meccanicamente come ripetessero da sempre gli stessi gesti e parole. Cosa è successo a queste persone nella misteriosa Asteroid City? Sarà avvenuto tutto per colpa di un adorabile furtivo alieno (“interpretato” da Jeff Goldblum)? Riusciranno i bambini a salvare gli adulti?  In realtà la storia è più complessa…


Seconda lettura: di fatto Asteroid City, ce lo dicono i primissimi minuti del film, racconta non solo la storia dell’asteroide e del premio Junior Stargazer. Su un diverso piano di lettura, ci troviamo di fatto sul set dello spettacolo teatrale dove è rappresentata questa storia. Nello specifico assistiamo a uno special tv con tanto di presentatore (Bryan Cranston), in cui lo svolgimento di una rappresentazione dal vivo viene alternato con interviste, aneddoti e approfondimenti propri di un poderoso speciale/making of. Dagli schizzi originali delle scenografie di Asteroid City passiamo ai set di posa (spesso solo tratteggiati come in Dogville di Von Trier) e agli elementi dello scenario e blu screen. Ascoltiamo aneddoti sulla costruzione del casting, assistiamo da dietro le quinte in tempo reale ai dialoghi tra il regista (Adrien Brody), i tecnici e gli attori, che controllano le battute prima della loro entrata in scena. Possiamo perfino assistere parallelamente a tutto questo a un documento di archivio: una lezione frontale di critica sull’opera stessa, tenuta in una università da un professore (Willem Dafoe) alla presenza del misterioso quanto affascinate autore dell’opera (Edward Norton), con le domande degli studenti sul significato di alcuni passaggi narrativi. 


Tutti questi dati e piani di lettura Wes Anderson in Asteroid City ce li propone “insieme”, in un unicum narrativo che continuamente li interseca e sovrappone.

Succede quindi che gli interpreti che guardiamo “recitare Asteroid City” li vediamo al contempo anche “impersonare gli attori” e parlare tra loro della messa in scena, con la produzione e con stampa e critica. Sono attori che da sei mesi, con le vicissitudini umane private più disparate, danno periodicamente vita a uno spettacolo che secondo il loro umore e l’umore di regista, autore e altri tecnici, volta dopo volta è mutato, non sempre per il meglio. Scopriamo ad esempio che Augie, il personaggio del fotografo di guerra, è anche un attore di nome Jones Hall, con il quale l’autore dell’opera teatrale durante le riprese ha iniziato a condividere una relazione clandestina quanto burrascosa. Una relazione che potrebbe aver reso quest’ultimo particolarmente “geloso”, al punto che il personaggio della moglie di Augie (Margot Robbie) è stato con il tempo tagliato dalla rappresentazione, insieme a molte delle battute che caratterizzava Augie. Così facendo l’autore ha di fatto “svuotato Augie”, rendendo a Jones sempre più complicato interpretarlo anche come figura paterna. Al punto che l’attore, insieme al suo personaggio in piena depressione, ha quasi smarrito il senso del proprio ruolo in una storia che da troppo tempo si ripete “senza un senso”, replica dopo replica. Allo stesso modo il personaggio di Midge è interpretato dall'attrice Mercedes e i lividi che spesso porta sul viso, più volte osservato con preoccupazione da Augie, non è chiaro se siano riferiti alle percosse che quotidianamente vengono inflitte dal marito del personaggio che interpreta o dal suo marito reale. Ogni replica in qualche modo fa rivivere dei traumi, ma l’opera è così grande, piena di personaggi, colori, umorismo, azione ed effetti speciali da gestire e coordinare che l’occhio del regista (sempre Adrien Brody) come quello del pubblico spesso “non se ne accorgono”. 

Considerando questo “making of” di fatto un film nel film: “riusciranno quindi anche gli attori di Asteroid City (ma anche chi vive dietro le quinte) a uscire dalla condizione esistenziale, strana quanto tragica, che da troppo tempo li condiziona la vita sul set di Asteroid City?”.


Scatole cinesi decorate con la fantascienza anni ‘50:  realtà e finzione si mischiano e probabilmente si sono mischiate per davvero per il regista Wes Anderson, anche al momento della creazione di questo film, che secondo le note di produzione si è svolta durante i travagliati mesi della pandemia da covid 19. 

Anderson come molti ha vissuto quei mesi con un senso di incertezza e attesa, che grazie alla sua arte ha saputo sublimare in una delle sue opere più strane e introverse, irrisolte quanto labirintiche. Asteroid City è un film sul teatro e i suoi interpreti, sulla fantascienza anni ‘50, ma soprattutto un film “sull’attesa”, sulla speranza puntualmente negata di un futuro migliore. Un tema concettualmente non dissimile dal Deserto dei tartari di Dino Buzzati, opera in cui tempo e personaggi vivono sospesi, per lo più impotenti e inerti, in attesa che qualcosa di esterno, un “deus ex machina”, intervenga a cambiare la situazione.

I bambini-genio e il personaggio di Tilda Swinton, attrice che ormai credo sia eternamente giovane come un elfo, cercano antidoti e soluzioni per far fronte all’attesa. Contrattaccano. Sono costantemente sovreccitati e immersi nella creazione di congegni strampalati come jet-pack, pistole molecolari fino a radio per comunicare con lo spazio. Creano con il solo loro passaggio sulla scena continui siparietti umoristici e surreali pieni di ribellione e vitalità. Sono curiosi e l’arrivo di qualcosa di nuovo come “gli alieni” è un fatto per loro positivo, una nuova sfida da affrontare a costo di trasformare lo scenario in un hellzapoppin colorato e caotico alla Mars Attack! Gli adulti sono invece “vittime dell’attesa”, timorosi oltre misura, per lo più simulacri di se stessi, chiusi a riccio “nel ruolo da adulti” quanto nelle proprie paranoie da un modo di vedere le cose più crudo quanto “oggettivo”. Gli adulti sono condannati e si auto-condannano (dopo un plot twist davvero inaspettato) allo stallo, all’immobilismo “vigile”, al rimpianto.

Tutto nell’attesa di un “nuovo” deus ex machina. Figure “salvifiche” che nel film di Anderson certo “non mancano”, assumendo la forma ora di un alieno, un regista o un critico, ma che potrebbero non avere le risposte agognate che si cercano, di fatto condannando all’attesa del deus ex machina “successivo”. 


Questo nuovo piccolo mondo colorato di Wes Anderson, la città costruita nel deserto come un castello nella sabbia piena di suggestioni della fantascienza anni ‘50 e personaggi buffi, in realtà nasconde un profondo senso tragico, una irrisolta voglia di trascendenza. Una irrisolutezza dell’animo adulto cui si contrappone, forte e chiassosa, la speranza di preservare anche da adulti il modo di vedere, di giocare e di vivere dei bambini. Alimentando quel “fanciullino interiore” di cui parlava Pascoli. Una fanciullezza che Wes Anderson sa ancora coltivare e cullare attraverso i colori accesi, i mondi stralunati simili a playset di giocattoli vintage e l’umorismo surreale e gentile di cui riesce ancora ad  irradiare ogni sua opera. 

Questa volta l’autore è forse più malinconico del solito, ma il suo stile inconfondibile come l’eleganza nella direzione dell’opera rimangono inconfondibili. Il numero degli attori coinvolti nella pellicola è questa volta davvero esorbitante. Pur segnalandosi sempre interpretazioni di pregio, forse non tutti i personaggi riescono a essere messi debitamente a fuoco, almeno a una prima visione. Con una seconda visione, saltano all’occhio mille nuovi dettagli che rendono il quadro più completo e lo spettacolo meno complesso da seguire, anche se Asteroid City rimane comunque in parte sfuggente, quasi lunare, una delle opere più melanconiche dell’autore ma al contempo una delle opere più rappresentative dello stato d’animo di molti artisti durante la pandemia. Dal punto di vista tecnico e recitativo la pellicola risulta nella “sovrabbondanza di temi” sempre molto accurato e puntale. Qualche volta i passaggi dal racconto al “making of” risultano macchinosi, ma spesso regalano momenti che sprigionano al meglio il vero genio visionario dell’autore. Consigliassimo ai numerosi fan di Wes Anderson. Da affrontare con un po’ di “preparazione” nel caso ci si aspetti un film di intrattenimento convenzionale.  Asteroid City è una piccolo perla che pur nella eccentrica filmografia di Wes Anderson risulterà ai più forse troppo misteriosa, ma che saprà offrire un viaggio emotivo davvero speciale per chi deciderà di affrontarla con la giusta malinconia e voglia di tornare bambino. 

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