martedì 17 gennaio 2017

The founder - la nostra recensione


Premessa: mi fa strano parlare di un film su McDonald's quando ormai questi ristoranti stanno scomparendo dal centro di Milano insieme alle librerie e negozi di dischi. Ricordo ancora il bellissimo e ora smantellato ristorante con ingresso a scalinata in San Babila (lo ricordo anche quando era sede dell'italianissimo Burghi) e ricordo pure quel fiero presidio sotto galleria Vittorio Emanuele, dai cui tavolini esterni potevi squadrare gli avventori dei ristoranti esclusivi limitrofi e dirgli: "Ci sono anch'io a guardare la cupola, seduto con un cono da 90 centesimi". Il ristorante in Cordusio aveva una splendida luminosità e i primi timidi computer in rete, utilizzabili gratuitamente. Ora credo ci sia una banca. Oggi la scala sociale si è di nuovo alzata. Il cuore di Milano è sempre più svenduto a stranieri danarosi intenti in shopping di lusso, mentre ormai, dopo fast food e negozi di cultura iniziano a estinguersi pure i cinema. McDonald's lo vivo di sfuggita, nei McDrive, il panorama che mi viene concesso è una porta che da sui servizi igienici di un benzinaio. Come direbbe un comico del passato: "Troppo scarso". 


Sinossi fatta male: la ristorazione veloce americana un tempo era diversa da oggi. In genere si arrivava al ristorante in macchina ma non si scendeva dal mezzo. Si aspettava invece una bella ragazza sui pattini che correva in una specie di megaparcheggione, prendendo ordini e consegnando sorridente pietanze poste su degli strani tavolini che si applicavano direttamente alla portiera delle auto. E queste roller - gnocche, che hanno inspirato le "ragazze fast food" di Drive In capitanate dalla indimenticabile Tinì Cansino, tra ordine, tavolino, consegna cibo, conto, pulizia generale e ricerca di un nuovo tavolino, spesso si facevano miglia e miglia di pattini, rischiando l'osso del collo con le vostre patatine maxi sul vassoio e non arrivavano a fine serata senza almeno quarantasei tentativi di molestie sessuali da parte di avventori che non erano nel parcheggione esattamente per i panini. Detto così pare una variante del Rollerball con James Cann... 
Panini che erano di diecimila tipi diversi, taglie diverse e salse diverse, perché in America tutto è grande, accompagnati da bottiglioni di olio, aceto e birre giganti come corredo base per ogni "tavolino da auto". E quando il pasto finiva il consumatore felice sgommava via senza pensieri, mentre qualcuno doveva recuperare bottiglie di olio superstiti o cadute per terra, vari avanzi organici, le posate rigorosamente di ferro di ordinanza e un tavolino semi-distrutto. Il tutto moltiplicato per centinaia di posti. L'american way della ristorazione veloce come conseguenza di tutto ciò non era poi così veloce, ed era pure in piena crisi! E Ray Kroc (Michael Keaton), che per vivere piazzava dei pesanti e giganteschi gingilli per fare il gelato, se ne accorgeva perché di conseguenza pure lui come fornitore era in crisi nera. Il suo grande sogno imprenditoriale americano era lontano, la sua vita famigliare un disastro e la moglie (Laura Dern), per via del suo stare spesso lontano da casa per lavoro, una estranea. Invece di stare nei migliori fast-food d'America, gli "aggeggi per il gelato", quella mercanzia ingombrante e già brutta e non vintage che si ammucchiava nella sua auto gli rimaneva sul groppone, e questo nonostante le sue capacità da super venditore della Folletto e agli infallibili manuali motivazionali con cui era in grado di ipnotizzare chiunque. C'era crisi. Gli ordini non arrivavano e quando arrivavano, per farlo deprimere di più, erano pure palesemente sbagliati. Come l'ordinativo assurdo appena arrivatogli da un unico ristorante, rigorosamente in culo al mondo: sei gingilli per il gelato. Roba che era troppa anche per sei ristoranti, dovevano sicuramente essersi sbagliati. Kroc li chiama ma loro confermano, ne vogliono proprio sei e, anzi, forse è meglio otto. E allora Kroc in un viaggio della speranza e di se stesso parte per conoscere questa gente, i fratelli McDonald, Dick (Nick Offermam) e Maurice (John Carrol Lynch), "Mac" per gli amici. Perché sì, i fratelli McDonald's, come Elvis e Babbo Natale esistono!!! Kroc guarda il loro enorme ristorante, è tutto pitturato di bianco e circondato da gente felice, gli uccellini cinguettanti sugli alberi e il cielo blu. E vede il futuro. Niente parcheggione gigante né ragazze sui pattini, ma persone umane felici che stanno in coda ad aspettare il pasto. Niente forchette e coltelli di metallo, il panino si mangia avvolto nella carta in un rapporto diretto, erotico quanto primordiale. Niente bicchieri e bottiglie di vetro, tutto di carta e monouso, riciclabile, con un vassoio da svuotare in un raccoglitore a fine pasto. Niente macchine come posti a sedere ma neanche tavoli tradizionali. Solo le panchine di un parco, in legno, sulle quali accomodarsi con il proprio cartoncino caldo take away. Un luogo da condividere con gli estranei insieme al paesaggio del verde di un picnic allargato, emblema di una socialità diversa da quella che ama stare al volante pigiando il clacson se la bistecca arrivava tardi. E poi la chicca. Panini. Ok, "pochi panini" rispetto alle mille scelte di un Fast food medio, ma panini pronti in pochi secondi, contro i trenta minuti di qualsiasi altro esercizio, grazie all'ingranaggio umano stile Tempi Moderni proprio di una organizzazione innovativa della cucina. Tutti si muovono in un balletto, ritmati dal timer delle patatine e dalla filiera che assegna a fine lavorazione la medaglia a forma di cetriolino verde. Come novelli prometeo i McDonald's crearono il Big Mac e i suoi fratelli, panini che arrivano in mano caldi (mentre le rollergirl dovevano affrontare due gang di stupratori prima di fare una consegna), tutti democraticamente uguali e perfetti, tutti che costano poco (certo qui si romanza un po' ovviamente). Kroc non vede S.Pietro sopra il portico, ma ha una vera visione mistica. Sarà il bianco sfolgorante di quel posto, saranno le "ali dorate" che ne sono il simbolo, sarà il pasto caldo e subito, saranno i genitori  felici che ti si siedono sulle panchine con i loro bambini vestiti alla marinaretta pettinati ed educati, a fianco di persone sconosciute pettinate ed educate. Kroc scopre il connubio tra socialità e praticità e inizia a pensare in grande, a una chiesa americana capitalistica proto-hubbardiana fondata sull'American Dream. Prende da parte i due geniali fratelli, non prima di averli abbracciati come si farebbe con Babbo Natale e inizia a pensare a espandere il loro grande concetto di cibo veloce in tutta America, creare un franchise, IL franchise. Ma andrà tutto nel verso giusto? Riuscirà Kroc a soddisfare una proprietà intellettuale non sua e a garantirne la qualità a chilometri di distanza? Nel frattempo a seguito di un combattimento letale con il Mago G, il demone Pennywise ha scuoiato il suo ancestrale nemico e si è vestito con le sue carni gialle coperte di sangue per mimetizzarsi tra noi... dicono che ora si faccia chiamare Ronald McDonald.


- La nuova chiesa d'America: John Lee Hancock torna a raccontarci l'America e il Sogno Americano con i suoi alti vertiginosi e bassi tristissimi. Storie di grande intraprendenza ed entusiasmo, vissute con occhi spalancati e sognanti da bambino ma che presto si trasformano in complotti e bassezze di individui grigi e tristi che non vogliono a nessun costo dividere con nessuno il "tesssssooooroo". I sognatori non sempre vincono nelle favole moderne di Hancock, soprattutto se hanno in mano le carte sbagliate della vita. E così soccombeva lo splendido Kevin Costner perdente di una delle sue prime sceneggiature, Un mondo perfetto. E finiva come tutti sanno la storia, con "s" maiuscola, da lui adattata per Alamo. Col tempo Hancock ha però cercato di infondere più speranza e meno tristezza nelle sue opere. Conquistata  una (meritatissima) sedia da  regia (e messa momentaneamente da parte la sceneggiatura) ci ha raccontato la bella favola di riscatto di The Blind Side e ha dato cuore e volto rassicurante a un personaggio gigantesco quanto controverso come Walt Disney in Saving Mr Banks. Ed oggi eccolo avventarsi sui panini di McDonald's, già precedentemente addentati cinematograficamente dal critico Morgan Spurlock in Super size Me. Ma al di là del sacrosanto "dai a Cesare", ossia il riconoscimento di un successo mondiale nell'industria del panino (celebrato anche attraverso delle scene molto lisergiche e intense come quella del campo da basket), Hancock non lesina critiche ai McDonald's brothers e al piazzista di macchine per gelato Ray Kroc. E' anche questo un film sul successo che non dipana le mille ombre di persone che vivono esistenze, in fin dei conti, non troppo felici. Anche i ricchi piangono, diremmo se scrivessimo a inizio anni '80. E vedere dei giganti con i piedi d'argilla ci da sempre la voglia di tifare per loro, volergli quasi bene. Merito indubbio di questo "transfert emotivo" ricade sulla ottima penna di Robert D. Siegel, che già ci aveva tutti commossi con la sceneggiatura dell'umanissimo e perdente Wrestler di Mickey Rourke.  I fratelli McDonald's raccontati da Siegel sono in grado di muovere i dipendenti del loro ristorante come autentici direttori d'orchestra, hanno coerenza e i piedi ben piantati per terra, ma forse sono loro stessi troppo piantati per terra. Impantanati nella campagna americana e nei suoi codici morali. Dal punto di vista della interpretazione Offerman dona a Dick, il fratello più grande, una calma quasi zen, i modi gentili ma risoluti di chi tratta con rispetto tanto le persone che le pietanze e un autentico brillio da vero genio negli occhi. Ma al contempo lo ammazza con una flemma e una mania per la burocrazia quasi autodistruttiva. Il Mac di Carroll Lynch, il McDonald's più piccolo, è il cuore emotivo di questa piccola famiglia, un ormone buono e vulnerabile dagli occhi tristi e sinceri, spaventato dal mondo e dai suoi intrighi  e amante della sincerità. Da oggi vi sfido a mangiare un Big Mac senza pensare a lui. Se l'impero del panino si basa quindi sul duro lavoro di questi piccoli e geniali uomini, il successo del brand lo si deve ad una scheggia impazzita e incontrollata, il camaleontico, complicato e scapestrato Kroc interpretato da Michael Keaton. Un bravo ragazzo che presto diventa un venditore di successo, per poi cadere nel baratro del fallimento e risalirci diventando una star, poi un guru, poi quasi un santone hubbardiano, poi un mega imprenditore di successo. E ad ogni step consegue maggiore successo e maggiore dose di cinismo. Come uno squalo, Kroc punta a mangiare e mangiare sempre di più in una perenne lotta di sopravvivenza che non conosce quartiere e che forse non conosce nemmeno senso, visto che ha una famiglia felice e anche un considerevole stipendio. Keaton, che interpreta un ruolo da Oscar, riesce con la sua grande abilità e ironia a renderci umano e quasi accettabile un mostro dell'industria come Kroc, al punto che non riusciamo a volergli male come al Mark Zuckenberg di Jesse Eisenberg. Perché il suo Kroc sembra davvero credere nel prossimo e nel sogno americano, sembra importargli davvero il fatto di non schiacciare troppe persone nella sua corsa al successo, sembra avere a cuore i bravi ragazzi americani senza lavoro o sottopagati, ascolta le idee innovative. Ti sorride e stringe la mano appena ti vede e noi ci immedesimiamo in lui quando lo vediamo triste correre miglia e miglia della highway con i suoi cosi per il gelato, quando lo troviamo mangiare male in coda presso qualche fastfood a casa di dio, litigare con tacos, frigoriferi, politici, cantanti folk, tasse, terreni, la moglie e il vicinato. Kroc è uno di noi, un perdente, ma un perdente tenace che insegna al mondo, con il suo esempio, che dove non si ha fortuna si può sempre avere la tenacia. Non è un personaggio positivo forse, ma è umanamente confortante e come lo interpreta Keaton alla fine si fa pure volere bene. Certo non gli vorremo mai bene come al Walt Disney di Tom Hanks di Saving mr Banks, ma questa è un'altra storia.


- in conclusione: The Founder funziona, diverte e intrattiene alla grande per le sue due orette complessive di durata. Hanckoch è molto bravo a dirigere gli attori e a dipanare in modo chiaro una trama che è anche una bella parabola della storia recente americana, un mondo in cui fa luce di sé un sistema capitalistico amaro e disilluso quanto basta, ma ancora capace di mostrare un volto umano. Se proprio dobbiamo muovere una critica a questo lavoro, dobbiamo rilevare un piccolo strappo di trama prima dell'ultimo atto, un passaggio importante e complicato che forse avviene con troppa velocità per essere metabolizzato. Ma rimane un peccato veniale di una pellicola che vi consigliamo caldamente di vedere in sala, per apprezzare al meglio anche la splendida ricostruzione storica dei ruggenti anni cinquanta di una California da cartolina. E' product placement? Forse un po', ma sicuramente di lusso e con il coraggio di una sana autocritica. 
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Trivia: sono nati prima gli Happy Meal o i Kinder Sorpresa? I Kinder, 5 anni prima, nel 1974.

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