La vita
gira veloce come una girandola per gli artisti di strada della compagnia
teatrale Davai. Fanno teatro di strada, recitano "L'uomo senza
qualità" di Cechov tra cabaret, capriole circensi, musica
indiavolata, balli sfrenati e coinvolgimento del pubblico già da molti anni e
ogni giorno è una nuova tappa, un nuovo pubblico e un nuovo tramonto. Ogni
giorno volti nuovi che non sai mai se ti accoglieranno felici o incazzati, da
allietare con una gioia che non sempre si riesce a esprimere o trovare. Perché
non c'è solo il gioco e il divertimento. Le assicurazioni, i contratti con gli
attori, gli ingaggi, le scuole, il sipario, i bambini, i tradimenti e i
malumori, gli amici, la benzina e il tendone da montare e smontare. Infiniti
paletti e scalette imposte allo spirito gitano del gruppo, combattuti con pigio
professionale e dolente dalla figlia (Ines Fehner) del capocomico Francois (Francois Fehner), al cellulare con fornitori e clienti mentre guida l'auto,
bada ai figli e redige con una mano libera il bilancio. Mille cose da far
tornare e anche questa in fondo è giocoleria, anche se i conti
spesso non tornano. Finisce che la vodka che viene offerta agli spettatori
durante una delle rappresentazioni teatrali del Davai venga prima e in larga parte
consumata dallo staff, giusto per tirare avanti senza pensieri, ma tutti
insieme gli attori non mollano, come una grande famiglia, costruendo con
coordinazione e precisione chirurgica ogni giorno un grande e spettacolo. Nervi
scoperti ma tutti uniti sotto il tendone di unico grande cuore gitano,
collerico ma sempre disposto a elargire abbracci e comprensione. Tuttavia ogni
tanto la vita impone a questo piccolo popolo sulle ruote di fermarsi, gli
attori devono scendere dalla giostra e affrontare un personale mondo personale,
lasciato alle spalle e forse troppo presto interrotto, per seguire la gioiosa
carovana. Accade a Mr Deloyal (Marc Barbè) che per troppo lunghi anni di lutto
ha vissuto con negli occhi la vita del figlio spezzatasi a soli tredici anni da una leucemia. L'uomo, che ora fa l'attrezzista e l'attore,
scopre nella famiglia circense allargata del Davai la giovane Mona
(Adele Haenel), insieme alla possibilità di poter tornare a essere
padre. Ma non si sente pronto, cade in crisi e nell'alcol e questo genera un
inaspettato effetto domino che colpisce tutta la compagnia. Mr Deloyal beve
troppo e si distrae, non fissa un cavo e una ballerina si rompe una gamba. Lo
spettacolo deve continuare e Francois assume la sua vecchia fiamma Lola (Lola
Duenas, vista in Parla con Lei e Il mare dentro), mandando in pezzi il cuore
della moglie Marion (Marion Bouvelar), scombussolando la figlia Ines e
colpendo a macchia d'olio tutta la compagnia. Dissapori, urla, corna, brutte
figure con gli spettatori. Tutti cadono, la giostra cade e le vite passate
degli attori tornano a bussare alle loro porte, a rendere tutto più difficile.
Vecchi amori si ritrovano, famiglie si spezzano, lacrime e pugni si
distribuiscono al primo che capita a tiro, al primo che si mette per sbaglio
dentro la girandola colorata del Davai che il tendono non riesce più a
contenere. Lo spettacolo può comunque continuare?
Dalle
parti degli zingari giri di giostra di Kusturica, con il cuore felliniano
ricolmo di amore per gli artisti di strada. Lea Fehner al suo secondo
lungometraggio gioca amabilmente con una materia per lei familiare,
autobiografica: il teatro itinerante che ha caratterizzato gran parte della sua
vita e dei suoi affetti. Una vita vissuta, come per gli artisti di questo film,
a cavallo di una colorata e sgangherata carovana che ogni giorno regala, spesso
per pochi spicci e pochi spettatori, un paio di ore di divertimento. Un cordone
di macchine con roulotte, con troppi gibolli e chilometri alle spalle, che non
si ferma nonostante le intemperie e i fischi, i problemi della vita e la
sfortuna. Gente che vive una dimensione in qualche modo eroica dell'essere
"bardo" prima che attore, gente che prima di imparare commedie e
tragedie affronta e impara a vivere nella natura più inospitale, ai margini del
tendone e della società. Persone che vengono per questo definite, con poca
gentilezza, "orchi". La regista, innamorata ma spaventata dalle
difficoltà di questo mondo, tra strade infinite, il freddo di vivere all'aria
aperta e il pubblico spesso crudele, che ti guarda curioso e spaventato
come si farebbe con un "orco", ha lasciato la sua
famiglia mobile imbracciando la telecamera e dedicandosi ai lungometraggi. Ma
questo ambiente caloroso e zingaresco l'ha subito richiamata a se con una nostalgia
così grande e prepotente che qui, nel suo secondo lungometraggio, non può che
esplodere. La vita e il teatro si sovrappongono al punto che la regista, anche
sceneggiatrice, ha voluto con sé sul set la sua stessa famiglia gitana, da papà
Francois a mamma Marion alla sorella Lea. E siccome gli artisti sono fatti
della stessa stoffa dei loro personaggi (e mi si perdoni la sgangherata
citazione), la Fehner ha deciso, in un gioco di specchi, di includere in questa
versione cinematografica della sua famiglia allargata gitana anche
il Mr Deloyal di Marc Barbe, personaggio che è ispirato proprio all'Uomo
qualunque di Cechov, opera che il Duvai mette in scena. Passeremo in sala
un po' di tempo con gli orchi. Li osserveremo curiosi e stupiti e forse impareremo
qualcosa da loro in un film che è un vero e proprio inno a chi ha deciso di
vivere solo per allietare gli altri.
Les Ogres esce nelle sale italiane
ironicamente mentre uno dei più grandi spettacoli di strada, il circo Barnum,
chiude i battenti. Esce in sordina come in questo stesso periodo è uscito in
sordina La Stoffa dei Sogni con Sergio Rubini e Ennio Fantastichini,
anche lei una pellicola in cui si celebrano i tempi sempre più "che
furono", degli attori in viaggio (con un ugualmente splendido
parallelo tra vita sul palco e vita reale). I gitani, gli artisti da strada e
il circo sono fuori moda e quindi viva i gitani, viva il circo, viva gli
artisti da strada. Rinchiusi come si è in palazzi in cui si fatica spesso a
conoscere il nome del proprio vicino, alcuni spettatori troveranno curiosa,
socialmente pericolosa e troppo fracassona la compagnia teatrale Davai,
ma dopo aver passato un paio di ore con loro si è pronti a cambiare idea, anche
grazie alla grande ironia e autoironia di cui la regista pervade l'opera.
Perché ci inquieta e sorprende questo strano mondo sulle ruote (più vicino al
resto dell'Europa che all'Italia), dove i bambini "per giocare"
rubano i portafogli. Dove attori avvinazzati si addormentano nei campi per
svegliarsi la mattina circondati da pecore. Dove poveri bimbi vengono
sottoposti al fumo passivo mentre in piccole macchine aspirano fumi equivoci
che escono dalle canne dei genitori. Dove una donna sfiorita e tradita dal
marito viene, "per tirarle su di morale", fatta oggetto di un asta in
quanto "carne ancora buona". Dove un uomo che trova la sua ragazza
nuda con un estraneo riesce a scherzare con lei della cosa mentre un altro esce
dalla roulotte urlando al mondo con un megafono che sua moglie è una poco di
buono. Dove le risse scoppiate per i motivi più gravi e irreparabili si
trasformano in occasioni per ridere e tornare amici. Dove una madre partoriente
non smette per un istante di bere e fumare e fare sesso promiscuo. E fa specie
che in un mondo il cui sembra dominare il sessismo più evidente in realtà siano
le donne a comandare, non solo con l'arma della dolcezza ma anche della
risolutezza, su un branco di scorretti, altezzosi e amabili eterni bambinoni.
Completamente strani, questi Orchi (così vengono chiamati all'estero, come
fossero creature grottesche quanto spiriti silvestri), che vivono la vita tutta
a modo loro, ma che alla fine non possiamo fare a meno di sentire vicini a noi,
al punto da desiderare magari passare un po' di tempo in più con loro, dopo i
titoli di coda. Perché in tutti gli eccessi il loro enorme cuore zingaro ci
abbraccia, sentiamo il sudore, l'alcol nella gola, il profumo intenso e il
suono della risata sghemba di una grande famiglia. E la società ha bisogno che
il cinema racconti queste storie, soprattutto in momenti in cui l'integrazione
è difficile e si guarda con sospetto e timore le persone che vivono nel
pianerottolo vicino. E' importante scoprire quanto umani siamo anche gli
orchi. Lea Fehner conferma di avere la stoffa della grande regista nel dare
voce a un amabile e squinternato plotone di attori in uno slice of life solo
all'apparenza lineare, dall'animo anarchico e solare. Tutti gli attori trovano
il loro spazio e la loro voce in una girandola colorata e dal ritmo sempre
incalzante. Si ride, si piange. C'è molta malinconia e altrettanto liberatorio
spazio per il grottesco, il sensuale, il satirico. Allo spettacolo contribuisce
anche l'ottima colonna sonora di Philippe Cataix, spigliata, veloce e con un
"24mila baci" di Celentano che fa capolino nella più improbabile
delle scene. Vengono facili i paralleli con La strada di
Fellini, ma anche con Gatto nero, gatto bianco di Kusturica. C'è
soprattutto un tipo di cinema che è ancora troppo invisibile nelle nostre sale,
che va difeso e riconosciuto anche a dispetto dei cartelloni che lo nascondono.
Un cinema fortemente premiato dalla critica ma ancora invisibile.
Les
Ogres arriva in Italia anche grazie a CineMAF. Un portale che permette la
distribuzione di pellicole in streaming laddove non riescano ad arrivare nelle
sale. Hanno anche delle interessanti iniziative legate alle scuole. Nel caso
foste interessati vi lascio il link al loro sito www.cinemaf.net e www.scuola.cinemaf.net se
volete fateci un salto. Aiutare queste pellicole a farsi conoscere dal
grande pubblico non credo sarà mai un male. E a me qui torna in mente anche un
pezzo dei Negrita..
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