Alla fine degli anni ‘90 il lottatore Mark Kerr (Dwayne Johnson) era per i suoi avversari sul ring una vera e propria “macchina di distruzione” (in inglese: smashing machine). Che si trattasse di wrestling, Vale Tudo o qualsiasi forma di arti marziali miste (MMA), i suoi incontri erano autentici concentrati di adrenalina racchiusi in pochi secondi. Il gong suonava e dopo i primi scambi di calci e pugni il rivale era travolto dai colpi, spinto a cadere. Kerr che gli era sopra prima che toccasse terra, lo immobilizzava con le gambe. Seguiva una scarica di pugni veloci e letali come piccoli uragani, che si diradavano solo con la perdita dei sensi dell’avversario: KO tecnico.
A ogni match il copione si ripeteva, fulmineo e drammatico, sempre più inebriante.
Kerr raccontava ai giornalisti di come in quei momenti convulsi di lotta era investito da qualcosa di trascendente, “mistico ed eroico”, a tratti anche erotico. Una sensazione di onnipotenza, che allontanava ogni forma di compassione in ragione dell’estasi.
A fine match qualcuno rimaneva “inevitabilmente a terra”, forse per sempre. A pezzi, tra ecchimosi e fratture varie, a volte in uno stato confusionale per i troppi colpi rivolti alla testa. Per un attimo osservare quelle poltiglie umane straziava il cuore, ma Kerr tornava subito imbattuto e felice, “ancora una volta in piedi”, acclamato. Pieno di medaglie, sulle copertine, e nei talk tv, con una nuova villa con piscina nel cuore della metropoli, una macchina di lusso, una donna bellissima e sempre sorridente che lo adorava sempre al suo fianco, Dawn (Emily Blunt).
Rimanere sulla cima del mondo sembrava facile: doveva solo “tenere il ritmo”. Non abbassarsi mai a una forma fisica meno che perfetta. Curare spasmodicamente l’alimentazione con strani frullati iperproteici, costiere il corpo con ore di palestra e affinare lo stile con allenamenti costanti, in sempre nuovi stili di lotta. Se le forze lo abbandonavano, bisognava rialzarsi sempre, subito, anche dopo aver subito troppi colpi.
Nei primi tempi gli antidolorifici diventavano per lui amici discreti: sotto prescrizione medica curavano giusto le botte e alleggerivano la testa dai pensieri, aumentando insieme velocità di ripresa e buon umore, fluidificando le relazioni pubbliche.
Con il tempo, con prescrizioni mediche sempre più numerose e “dubbie” da fornire in farmacia, gli antidolorifici avevano finito per curare anche “tutto il resto”, facendosi percepire sempre più indispensabili e inefficaci. Per sopravvivere e tenere insieme quell’immagine eroica di se stesso, Kerr aveva finito per lasciarsi trascinare dai farmaci da un luogo all’altro come uno zombie, perennemente confuso, nei momenti più felici come nei più brutti, come trascinato dalla marea.
Ma Dawn viveva forse nella stessa madre: era sempre con lui, ancora felice, forse più di prima. Mark sembrava ascoltarla più di quanto non avesse mai fatto, appariva gentile e soprattutto non le faceva pesare troppo il “suo” di vizio: l’alcol.
Dawn, per sopravvivere alle sue insicurezze delle vita pubblica e di un uomo forse troppo orgoglioso, che ogni giorno veniva coperto da “lividi per lavoro”, aveva trovato nel bere una “compagnia liquida” ideale. Dawn sentiva quasi di potersi prendere cura del marito, di poterlo capire di più.
In qualche modo la vita girava bene, almeno fino al grande torneo di arti marziali di Tokyo: il Pride Grand Prix del 1999.
Un evento unico al mondo, la prima volta che combattenti occidentali si contendevano il titolo con i più grandi maestri di arti marziali miste asiatiche. Mark era chiamato a essere il pioniere di una nuova era della lotta professionista, per arrivare al meglio al suo incontro con la Storia era partito per l’Oriente in volo business class a fianco del suo amico e compagno di lotta di sempre: il silenzioso e premuroso, spesso “inascoltato”, Mark Coleman (Ryan Bader). Solo che a Tokyo con loro c’erano anche gli antidolorifici, con Mark che firmava contratti, alzando i pugni e stringendo mani in costante stato di ebbrezza: lo stato ideale per non comprendere a pieno la realtà e i suoi tranelli.
Per quella che può essere intesa come una “incomprensione culturale”, nelle regole dello scontro venivano accolti dai giudici di gara anche dei colpi proibiti cui Mark era impreparato.
Al primo match, lui andava a terra senza potersi rialzare, per la prima volta nella sua vita. Colpito da così tanti pugni alla testa che non si potevano contare: tanti quando quelli che di solito era abitualo a dare lui agli altri.
Sconfitto, non solo sul ring: la questione degli antidolorifici veniva a galla, con l’obbligo morale/contrattuale di una riabilitazione di mesi, in un centro specializzato, per continuare a combattere e riprendersi parte dell’onore svanito.
Dawn arrivava a Tokyo con un volo low cost per raccoglierlo da un letto di ospedale, preoccupata, incazzata e come sempre alticcia. Saettando parole di odio per Mark Coleman: che non aveva impedito che quella situazione accedesse, che non aveva evitato che Mark si riempisse di antidolorifici come sempre.
Coleman, dopo essersi scusato, in punta di piedi sarebbe tornato l’anno successivo in Giappone, per vincere lui quel titolo mancato dall’amico. Mark sarebbe invece andato a disintossicarsi per tornare a tirare pugni come una macchina di distruzione “per bene”. Per tornare ancora a Tokyo appena possibile, dopo aver ripreso in mano la sua vita senza antidolorifici, affrontando dolori che da anni non provava più a sopportare.
Sentandosi molto più debole e meno tollerante di quanto lo era mai stato.
Affrontando anche il dolore e le responsabilità di non esserne più “allineato” con Dawn, che intanto non aveva fatto i conti con il bere. Mark e Dawn erano in un rapporto di coppia sempre più difficile, che fino ad allora si era sostenuto e tollerato grazie al barcollare fiducioso in una “dipendenza reciproca”. Come sarebbe stato il futuro?
A24 e il regista e sceneggiatore Benny Safdie, regista dell’interessante film drammatico Good Time, del 2017, sulla base di alcune interviste e con la partecipazione del vero lottatore Mark Kerr adattano per il grande schermo uno dei momenti più difficili della sua vita reale da combattente: anche per offrire all’ex lottatore e ora attore Dwayne “The Rock” Johnson la “parte della vita”. Forse la sua prima reale opportunità di entrare nella rosa dei migliori attori ai prossimi festival internazionali.
Sembra chiara l’intenzione di seguire con quest’opera in solco di classici del cinema come Toro Scatenato di Scorsese, la saga di Rocky di Stallone, The Wrestler di Aronofsky, The Fighter di O’Russell, Hurricane di Jewison, ma si avverte anche la voglia di raccontare gli sport di lotta in una “chiave nuova”.
Una chiave narrativa che la casa di produzione A24 ha scelto di raccontare a partire dal fenomenale The Iron Claw del 2023, scritto e diretto da Sean Durkin, con protagonisti degli ottimi Zack Efron, Jeremy Allen White e Dennis Dickinson, che prosegue proprio con The Smashing Machine: trasporre cinematograficamente storie reali di combattenti di wrestling. Partire dalla radice “eroico/simbolica” di questi uomini, per molti considerati alla stregua di gladiatori moderni, per raccontarne dolori/fatiche che questi atleti hanno sperimentato oltre alle “contusioni” del ring. Portando con la stessa convinzione (e proporzione), sul palcoscenico, spettacolo muscolare e dramma umano.
Se, oltre a magnifici combattimenti, in The Iron Claw andava in scena una storia familiare e sportiva con il “sapore e dolore” della tragedia greca, in The Smashing Machine ci troviamo davanti a un film di combattimenti ma anche intimo e drammatico. Un film “sul fallimento e sulla dipendenza” che entra spesso in felici assonanze con il pluripremiato Via da Las Vegas del 1995, di Mike Figgis con protagonista Nicolas Cage.
Le similitudini partono dal piano visivo, dalla scelta di immagini “sgranate e sfocate” dal direttore della fotografia Maceo Bishop, che seguono idealmente l’approccio “evocativo/simbolico” di Declan Quinn per Via da Las Vegas di Figgis. Sono immagini da “paesaggio impressionista”, ideali per raccontare una “storia sospesa”, più sul lato cromatico/emotivo che realistico.
Quinn dipingeva una Las Vegas cromaticamente dai toni neri di “un’eterna notte senza uscita”, resa sopportabile da “fioche luci (di speranza) artificiali”: color oro acceso, “rilasciante” da non-luoghi come la stanza di albergo come dal colore del whisky e degli altri liquori “co-protagonisti” sulla scena.
Bishop in Smashing Machine dipinge invece cromaticamente una realtà duale tra Giappone e America. La città di Tokyo ha palette di giallo acido e ombre nette: è una Tokyo di fine anni ‘90 ma ancora con il sapore di quella degli anni ‘70, del Catch di Antonio Inoki (o dell’Uomo Tigre animato). È una Tokyo “severa e giudicante”. A contrario, abbiamo un’America patinata e pastellata dai colori accesi rossi e blu: “iconografica”, apparentemente “gentile” ma ugualmente “lontana”. Anche lei forse uscita da un’altra epoca: quella dei telefilm di primi anni ‘80. L’America del primo grande successo in tv del Wrestling e degli Action Movie muscolari, in un clima culturale di apice e crisi definito di “nuovo edonismo”. È una America “accondiscendente e plasticosa”, dal sapore precario quanto malinconico.
Posto visivamente questo dualismo e questo approccio più emotivo che realistico al contesto, la “dipendenza” da antidolorifici del personaggio di Dwayne Johnson, come quella da alcol del personaggio di Nicolas Cage, si impone “di pari passo” sulla scena: prendendosi i primi piani, attenuando l’intreccio, i personaggi di contorno e tutto il resto. La performance del protagonista, il “soggetto che viene agito” dalla dipendenza che lo possiede, diventa così l’unico punto di riferimento chiaro. Anche se in questo caso il film non parla di una singola dipendenza, ma di due: con il personaggio di Emily Blunt che non si accontenta di certo del ruolo di contorno, volendo imporsi con pari forza sulla scena. Emily Blunt, da grandissima attrice, pur potendo contare di meno scene su schermo, riesce sempre a far emergere, con incredibile forza e trasporto la complessità e il tormento de suo personaggio, fino a “sottrarre il riflettore” a Dwayne Johnson.
Ed eccoci quindi a parlare di Dwayne Johnson. È il protagonista di un film che vuole un “One Man Show”, annebbia (quasi) tutto il resto e lo pone al centro dell’immagine, a nudo e per la maggior parte del tempo “non protetto” dalla classica armatura di muscoli, ironia e autoirona che di solito lo aiutano sullo schermo. Vulnerabile e senza filtri, potendo contare prevalentemente sul proprio dolore ed emotività, come lo era stato per Cage, che per Via da Las Vegas portò a casa un Oscar.
Johnson poteva capire i dolori fisici di una vita da lottatore professionista come Kerr, perché anche lui era stato a lungo lottatore di Wrestling, avendo vissuto lo stress degli incontri settimanali in giro per il mondo, gli infortuni, la necessità di un allenamento costante e le difficoltà di una vita sempre sotto i riflettori. Inoltre, seppure in termini e portata diverse da Mark Kerr, anche Dwayne Johnson sta forse vivendo, oggi, un periodo di crisi. Johnson si è rivelato un autentico re Mida di Hollywood fin dall’esordio, con La Mummia 2. È stato con successo protagonista di molte piccole pellicole muscolari, si è messo alla prova in ruoli anche ironici come Be Cool e L’acchiappadenti, ha rivitalizzato le saghe di Fast & Furious e Jumanji ed è riuscito a trovare il “ruolo perfetto” in Pain & Gain di Michael Bay, Johnson. Sembrava “invincibile al botteghino” come lo era stato negli anni ‘80 Arnold Schwarzenegger, ma poi sono arrivati i primi insuccessi. Gli screzi con Vin Diesel (per qualcuno il “nuovo Sylvester Stallone”). Il più grosso e doloroso flop, con il colossal Black Adam che ha finito la corsa non raccogliendo che le briciole del suo costo di produzione.
Johnson con Smashing Machine idealmente “si rialza”, ripartendo da zero e dalla lotta professionistica: un mondo che ben conosce, dal quale è stato “celebrato e inebriato” come era successo al vedo Mark Kerr. Le scene in cui dà il massimo sono ancora quelle di lotta e di “allenamento alla lotta” (ce ne è pure una con in sottofondo My Way di Sinatra), che affronta con tutta la grinta e spettacolarità che da sempre porta sullo schermo, ma è qualcosa di del tutto nuovo vederlo interagire con tanta spontaneità ed espressività al fianco di Emily Blunt, che è già stata al suo fianco sul set dell’ottimo action per famiglie Jungle Cruise di Jaume Collet-Serra (regista con cui The Rock subito dopo ha condiviso in flop di Black Adam). I due recitano insieme con una grande intesa e complicità, dando luogo a momenti davvero molto teneri (la sequenza al luna Park), quanto sorprendentemente è riuscitamene drammatici (il meraviglioso finale). Inoltre Johnson sceglie con grande attenzione di recitare di sottrazione, prediligendo i silenzi, lavorando molto sulla gestualità del corpo e facendosi aiutare dal montaggio e dalla colonna sonora della brava Nalo Sinephro. Sa di essere “ancora indietro” per essere considerato a tutti gli effetti un grande attore drammatico: punta ad apparire quanto meno “genuinamente reale”, raccontando una parabola umana che poteva essere benissimo anche la sua. Per “contenere come riesce” quell’enorme corpo muscoloso che incarna, spesso sceglie di presentarsi sulla scena “a terra senza forza”, “scarico”, emotivamente spento. Ha l’umiltà di indossare un trucco che ne modifica fortemente i connotati, risultando a un primo sguardo quasi irriconoscibile: di fatto è forse la prima volta che The Rock non appare a tutti gli effetti “uguale a se stesso.” Ma soprattutto Johnson ha la forza di guardare in faccia il mostro della “dipendenza”, che per lui forse è diventato con il tempo una “fame di fama” davvero importante e ingombrante. Un mostro che decide di affrontare sulla scena con tutte le difficoltà che questo comporta sul piano recitativo quanto umano. Anche a costo di “abbattere” quell’immagine da supereroe che da sempre pare indossare con la spontaneità di un pigiama.
L’impegno c’è ed è evidente. La pellicola fa di tutto perché la performance emotiva migliore occupi il centro della scena ed Emily Blunt è una partner perfetta, sempre inappuntabile, la conferma di un enorme talento.
Tuttavia The Smashing Machine, come ogni “titano” nei miti dell’antichità, non riesce del tutto nella sua impresa, seppur “combattendo come un leone” fino a i titoli di coda.
Il film presenta alcune increspature estetiche che possono per qualcuno renderlo forse troppo “pomposo” (come il già citato montaggio stile Rocky con in sottofondo My Way di Sinatra, che per alcuni può sembrare “troppo”), la trama a tratti si sfilaccia rinunciando di raccontarci scene che potrebbero essere importanti (come il periodo di riabilitazione di Kerr), la lunghezza complessiva è forse troppo imponente, con momenti che rischiano di diventare ridondanti (tutta la sotto-trama su Mark Coleman).
Tutte imperfezioni che forse non permettono a The Smashing Machine di entrare nella storia come Via da Las Vegas di Figgis o come Rocky, ma difetti che ci rendono comunque ancora più sincero, umano e “imperfetto” il The Rock cinematografico. The Smashing Machine è un film a cui ci si può affezionare e di sicuro è il felice risultato di un impegno encomiabile.
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