giovedì 6 febbraio 2025

Terra incognita: la nostra recensione del documentario di Enrico Masi, scritto con Stefano Migliore, che esplora il “futuro del pianeta”, tra lo sviluppo dell’energia nucleare e la volontà di un ritorno alla natura


Cosa siamo noi rispetto alla vastità del cosmo? Forse le stelle si possono osservare meglio quando ci appaiono “più vicine”, magari vivendo su una montagna.

Forse invece qualcosa di simile al potere delle stelle oggi lo possiamo “imbrigliare”, attraverso l’energia atomica.

Una famiglia tedesca dei giorni nostri, i Keyenburg, ha lasciato ogni comodità moderna per andare a vivere sulle montagne, in alta quota, “più vicino alle stelle”. 

Non sono i soli, ci sono testimonianze di diversi nuclei familiari intenzionati oggi a cercare un esodo fuori dalla realtà urbanizzata, per vivere in assenza di elettricità, in sinergia con gli animali e quanto la natura ha da offrire.

Per i Keyenburg è una condizione provvisoria stare sulle Alpi Svizzere, si stanno solo “preparando” a qualcosa di più grande: il Canada, dove sognano di fondare un'ampia comunità energeticamente autonoma.  

Il capofamiglia, Gerd, è un artista famoso per il suo impegno nel campo ambientale. È segaligno, ha capelli bianchi, occhi azzurri e il sorriso triste. Ama “piantare alberi”, come dice di lui parte della stampa. Ma è interessato anche nel ripristino di vecchi strumenti musicali, è affascinato dallo scoprire sempre nuovi utilizzi di strutture tecnologiche del “passato recente”: come un sistema missilistico svizzero smantellato, dal quale oggi, guarda il caso, si è ricavato un osservatorio per le stelle. Ormai la Terra è per Gerd piena di ruderi tecnologici, iniziati nel ventesimo secolo e abbandonati come strani dinosauri, oggi ricoperti dal verde. 

La moglie Annegret ama parlare di scienza e filosofia, spesso creando con estrema facilità complessi discorsi che spaziano tra più discipline. Ha un animo un po’ anarchico e per lei la vita ad alta quota è anche un “sottrarsi dai capi e sedicenti insegnanti”: è una sfida a imparare da soli a stare in equilibrio con la natura e quindi con il mondo. Sa costruire ogni cosa da sola, intagliando legna e piantando chiodi.

I figli sono giovani e forti, la più grande è affascinante e bionda come una valchiria e spesso si occupa personalmente dei cavalli. Tutta la famiglia spesso guardando il cielo entra in discorsi che affrontano il piano metafisico: ma tutti sono concordi che se esiste il paradiso ha la forma del luogo in cui si trovano ora.

La vita che hanno scelto è dura, forse maggiormente per i più giovani, ma “ne vale la pena”. Anche quando a volte animali e uomini si devono arrampicare portando enormi zaini e sacche, su sentieri stretti e a strapiombo.

Anche quando le condizioni climatiche sono rigidissime e cambiano molto velocemente, di fatto rinchiudendoli in casa davanti al fuoco. I pericoli dovuti a una frana o dal corso più impetuoso di un fiume sono sempre dietro l’angolo, ma loro con l’esperienza hanno imparato a saperli prevenire o gestire. 

Così i Keyenburg vivono a contatto con la natura, cantano e suonano insieme e sono in armonia con gli animali: quasi degli elfi silvani, sotto un cielo stellato. 

A Cadarache, nella Francia del Sud, si sta invece tenendo il complesso esperimento ITER, per il collaudo di un nuovo reattore termonucleare che darà al mondo il “potere delle stelle”. Un potere quasi illimitato ma per qualcuno “pericoloso”, se l’uomo di pari passo non imparerà a gestirlo “migliorando a livello umano”.

Al progetto partecipa anche uno scienziato nato tra gli Amish, in assenza di ogni tipo di tecnologia. Da quando ha lasciato il villaggio per andare al college si è dedicato alla ricerca della tecnologia massima del “domani”: una “fusione nucleare” pulita e infinita. Come l’energia delle stelle, ma da ricrearsi nel cuore della terra, assemblando insieme ad altri scienziati varie componenti tecnologiche, attraverso fabbriche e macchinari giganteschi, quasi fantascientifici.

Se dalle cime dei monti risuona la forza della natura e la musica dei nuovi “abitanti dell’alta quota”, in valle riecheggia uno strano rumore di fondo, elettrico e cupo, continuo. Un rumore che rimbalzando tra mille tralicci si fa largo tra cavi, scale, acciaio, andando a convogliare l’energia degli atomi che per qualcuno è stata già ribattezzata “divina”. Ma che per qualcun altro non ha davvero nulla di religioso: Dio se c’è è altrove. 


La lavorazione di Terra Incognita è durata sei anni e ha coinvolto molti esperti e scienziati, ha portato alla realizzazione di interviste e riprese che hanno avuto luogo in Francia, Germania, Svizzera, Stati Uniti, Spagna e Italia. Il film è stato presentato in anteprima al Festival dei Popoli, ricevendo una accoglienza calorosa.

L’idea di Masi nasce da una riflessione legata al concetto di “Antropocene”: il termine che indica l’attuale “era geologica”. Un’epoca caratterizzata dal fatto che l’essere umano sia infine riuscito, con le sue attività (tecnologiche, produttive, estrattive), a “mettersi al centro del mondo”, arrivando ad apportarvi modifiche territoriali, strutturali e climatiche, capaci di incidere enormemente sui processi geologici stessi. È ormai l’uomo il “fattore geologico” e le sue scelte diventano centrali per la natura. 

Le esigenze di “approvvigionamento energetico”, devono per forza combinarsi in modo da garantire la “sopravvivenza globale” ma c’è di più: se l’uomo è oggi in grado di “prodotte energia”, oltre alle ricerche sull'“energia nucleare” dovrebbe impegnarsi anche nella ricerca di “energie” che migliorino la  “condizione umana”, magari che lo portino a essere un “uomo migliore”.  

Da qui l’idea dei due estremi: la famiglia moderna che sceglie di vivere senza “il progresso energetico”; lo scienziato Amish che sceglie di vivere immerso nella tecnologia del futuro, spesso intabarrato in maschere, respiratori e tute antiradiazione, pur cercando di creare un'energia pulita. 

Un “dibattito a distanza”, dicotomico e non per forza antitetico. 

Due “modi di essere” affascinanti, strani quanto misteriosi, che evocativamente vengono raccontati dai magnifici scenari naturali delle Alpi quanto dai “fantascientifici” componenti e mega-strutture della ricerca atomica, insieme alle fatiscenti fabbriche/dinosauri del passato. Immagini che rimangono impresse nello spettatore: per la maestosità della fotografia digitale quanto per i toni quasi spirituali ed “elettronici” di una sonora cui hanno preso parte i Keyenburg stessi.

  


Terra Incognita è un film difficile, denso, carico di sfumature e significati che si dipanano meglio visione dopo visione, andando a costruire un piccolo ecosistema semantico peculiare, unico e che invita all’approfondimento. 

A volte può sembrare un lavoro quasi “compiaciuto” nel suo essere difficile, richiedendo una “non scontata” soglia di attenzione e preparazione che permettano di muoversi tra digressioni filosofiche e letterarie, conoscenze tecnologiche e approfondimenti storici. 

A volte l’opera di Masi può invece all’opposto apparire quasi come un “viaggio sensoriale”, una immersiva esperienze sonora e visiva che ci trascina, tra rumori ossessivi e cori in un mondo di confine quasi “fantasy” e in larga parte ancora inesplorato dai media tradizionali.

Tra queste due anime prende il passo un documentario (quasi) “senza didascalie” che aiutino a contestualizzare/semplificare le persone e i luoghi, dare ordine agli eventi. Masi ama stimolare lo spettatore più che dirigerlo verso soluzioni di comodo, che blocchino un flusso di coscienze e immagini che deve infine essere quanto più “personale”. Una scoperta.

Quando le persone sulla scena ci parlano di complicate teorie filosofiche e Geopolitiche, religione e scienza nucleare, lo fanno quasi “bisbigliando sottovoce”. Come i depositari di un linguaggio magico, antico e ambiguo. Un “Whispering” degno delle favole che viene parlato da un piccolo popolo “modernamente-antico”, autoconfinatosi sulle vette delle montagne.

È tutta da scoprire attraverso le immagini anche la “sottotrama” sui “componenti per il CERN”, che partono da più fabbriche anonime, tra cui anche porto Marghera, via nave, per poi essere assemblati e far parte del grande reattore circolare, di fatto “l’energia del futuro, che rimbomba sotto la terra”. Un racconto che si può solo intuire da una serie di progetti tecnici, grandi argani che spostano materiali con carrucolo, ingranaggi complicati e uomini coperti di tute anti-radiazione. Dati da masticare e magari comprendere/decodificare, se non si è addetti ai lavori, solo dalle note di approfondimento ricavate in rete. 

C’è quindi complessità e spiritualità, ma non manca all’opera un po’ di “sana umanità”. 

Ad accompagnarci (e forse “giudicarci”) c’è lo sguardo triste e il sorriso malinconico di un artista affascinante quanto buffo, che di colpo inizia a strimpellare con la chitarra e poi con il piano: e lo fa umanamente malissimo, stonatissimo.

Si parla poi del lavoro sinergico, insieme uomini e animali, ma Masi non ci nasconde i pericoli evidenti di questo stile di vita, in scene anche dal forte impatto visivo ed emotivo. 

Masi confeziona un prodotto molto “carico”. Carico di trascendenza e  psichedelia. Carico di montagne generose, quanto a tratti fredde sotto la pioggia battente, ma pure di architetture umane/scheletrico-scientifiche ardite. Carico di cori cupi alternati a rumori di fondo elettrici e intrusivi, gergo tecnico, addirittura “simbologie iraniane” e ritualità bibliche, tutte frullate insieme in un unico folklore semantico. Un’opera carica della poesia di strumenti musicali in legno, da curare e accordare,  perché danno un suono “vivo” e per questo contrastano con “cadaveri di reattori” che sembrano cuori artificiali avvizziti e marci, con tubi contorti come arterie rinsecchite. Vediamo la poesia, simboleggiata da quella bellissima giovane ragazza (la figlia dell’artista), che simile a una valchiria accompagna con la madre i cavalli sul ruscello ad alta quota, immergendosi nelle acque. Si parla non a caso di paradiso e il documentario è uno strumento cinematografico molto originale per descriverlo. 

Certo la sintesi di un lavoro di 6-7 anni può apparire complicata,  in un’ora e mezzo di visione e l’opera vuole comunicarci forse anche proprio “l’inespresso”, di un viaggio simbolico tra progresso e umanità.

Un viaggio difficile, molto filosofico quanto scientifico, a tratti sociologico, politico, religioso, ma sempre interessante. Specie per chi dal cinema vuole anche la complessità: nello specifico “tanta complessità”, a tratti troppa. Ma interessante anche per chi vuole intraprendere un viaggio onirico e psichedelico dentro questo strana “fantascienza del reale”. 

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