martedì 21 ottobre 2025

Black Phone 2: la nostra recensione del nuovo capitolo della saga horror di Scott Derrickson, con protagonisti Mason Thames, Madeleine McGraw e Ethan Hawke, basato su un racconto di Joe Hill

Premessa 

C’era una volta un rapitore di bambini che la stampa locale aveva soprannominato “il Rapace” (in originale “The Grabber”, impersonato da Ethan Hawk). Operava in una America dei primi anni '70, depressa e carica dei fantasmi del Vietnam, dalle parti di una piccola e sonnacchiosa Denver di periferia, dove da poco era arrivato nelle sale Non aprite quella porta

Il Rapace aveva già fatto scomparire alcuni ragazzini i cui volti ormai capeggiavano in bianco e nero ovunque, dai manifesti ai bordi delle strade ai cartoni del latte, oppure sulle prime pagine dei giornali locali consegnati a domicilio la mattina presto da un ragazzino in bici. 

Mentre la polizia brancolava ancora nel buio, la piccola Gwen (Madeleine McGraw) giurava di vedere il Rapace nei suoi sogni, aiutata dalle preghiere. Una facoltà ereditata dalla madre, che forse stava rovinando anche la sua vita, ma che la polizia locale riteneva molto utile per le sue indagini. Gwen nelle visioni vedeva il Rapace vestito di nero, con un mantello e un cilindro da prestigiatore, il volto coperto di bianco da una maschera strana o dal cerone. Lo sognava portare i ragazzini in un luogo oscuro pieno di palloncini neri e gas anestetico. Da lì non tornavano più. Aveva già riconosciuto tra le sue prede anche dei compagni di scuola del suo timido e introverso fratello Finney (Mason Thames). Uno di loro era Robin (Miguel Mora), il suo migliore amico. Non avrebbe mai immaginato che presto proprio Finney, che lei ogni giorno difendeva dai bulli come una leonessa, si sarebbe trovato da solo, nelle mani di quel mostro, rinchiuso in uno scantinato spoglio di cemento, insonorizzato. Con solo un materasso logoro per giaciglio e un piccolo finestrino sbarrato per far entrare la luce del giorno. La porta blindata sarebbe stata sempre aperta, ma come “trappola”: solo perché al piano di sopra il Rapace restava in attesa che il ragazzo tentasse la fuga, facesse il “bambino cattivo”. Solo così, secondo le sue “regole”, avrebbe potuto punirlo fino a ucciderlo. Come gli altri. Ma Finney era davvero un “bambino troppo bravo”, forse nemmeno in grado di tentare di scappare. Essere stato per tutta la vita “una vittima”, dei bulli e di recente di un padre violento e perennemente ubriaco (Jeremy Davies), poteva forse ironicamente allungare la sua sopravvivenza in quel buco. Certo non all’infinito. 

Ma proprio al fianco del materasso di Finney, c’era un telefono nero. A muro, con cavo arricciato estendibile, trillo metallico, “vintage”: un cimelio rimasto forse dimenticato dalla precedente proprietà, ma prontamente silenziato dal Rapace con un netto taglio del cavo. Mutato per sempre, come chi entrava in quel sottoscala. Tuttavia ogni tanto, forse per uno scherzo dell’elettromagnetismo, paranoia o per colpa di terribili poteri ereditati dalla madre, quel telefono Finney lo sentiva suonare. All’altro lato della cornetta, le voci ovattate delle precedenti vittime del Rapace. Sussurrate o urlate, spesso confuse, arrabbiate come si conviene alle voci dei fantasmi. Ma più spesso intenzionate a spronare il ragazzino a non fare la loro fine, fuggire da quella cantina. Pronte a  suggerirgli vie di fuga, strategie e fallimenti che loro stessi avevano tentato. Come a poche miglia di distanza Gwen stava suggerendo alla polizia nuovi posti in cui cercare il fratello, guidata dai sogni e forse dalla fede. 

Ma tutto questo non sarebbe bastato, se  Finney non fosse riuscito ad affrontare quel demone seduto al piano di sopra. Rinunciando all’etichetta di “vittima”, che la società gli aveva cucito addosso e lui troppo spesso aveva indossato. 


Sinossi

Finney (Mason Thames) ha affrontato il Rapace e vinto, ma la terribile esperienza lo ha segnato. Siamo nel 1982, vanno di moda i Duran Duran e presto saranno a Denver con i biglietti già esauriti. Sono passati quattro anni e il ragazzino timido che doveva costantemente essere difeso dai bulli si è trasformato in uno che li picchia per primo, una specie di giustiziere, stimato ma più spesso temuto. Una trasformazione che Robin, che sempre lo spronava a reagire, avrebbe comunque apprezzato. Ma Finney non ha più voluto avere niente a che fare con il paranormale. Quando si trova davanti a strani telefoni che squillano tira dritto o risponde “avete sbagliato persona”. Sua sorella Gwen (Madeleine McGraw) crescendo non è più un “maschiaccio”, si è ingentilita e ha forse trovato il ragazzo ideale: il fratello di Robin e amante dei Duran Duran, Ernesto (Miguel Mora in questo film torna interpretando Ernesto, dal carattere opposto rispetto a Robin). Continua però ad avere strani sogni, durante i quali ha iniziato a spostarsi anche molto lontano da casa, in stato di trance. Durante l’ultimo sogno si è spinta fino allo scantinato che era del Rapace, attirata dal trillo del telefono nero. Aveva sollevato la cornetta e parlato con Hope, sua madre, scomparsa in circostanze tragiche 7 anni prima. Solo che la voce al telefono era più giovane di come la ricordava. Era la voce di una ragazzina che chiamava sotto la neve da un telefono pubblico nero del 1957, davanti a un lago ghiacciato, a pochi metri da un campo invernale per ragazzini cattolici tra le Montagne Rocciose. Per trovare risposte e forse un lavoro temporaneo, Gwen, Finney ed Ernesto faranno domanda come educatori per quella colonia invernale.

Dopo un lungo viaggio tra le zone più impervie e isolate del Colorado, tra fitti boschi e tornanti di montagna stile Shining, arriveranno in una struttura ancora deserta, in allestimento, sorvegliata solo da alcuni guardiani e riscaldata da piccoli vecchi generatori elettrici a fianco delle brande di legno. 

Una struttura che davanti al lago ghiacciato ha ancora una cabina telefonica con un telefono nero, ma che i custodi dicono non funzionare più  dai tempi in cui è arrivata la disco music. O almeno non funziona per contattare “chi è ancora vivo”.  

Questa volta sarà Finney a proteggere Gwen, a costo di tornare a rispondere alle chiamate di spettrali telefoni neri. Ma questa volta, dall’altro capo della cornetta, Finney sarà costretto a parlare solo con un fantasma: il Rapace. Un Rapace che ogni volta gli ricorda di come all’inferno non ci siano tizzoni ardenti, lapilli, fuoco. All’inferno si gela e presto porterà Finney a fargli compagnia. 



Sinister e Black Phone : storie di bambini fantasma e adulti assenti 

Nel 2012 usciva per Blumhouse nelle sale Sinister, un film horror scritto e diretto da Scott Derrickson e da C.Robert Cargill, “piccolo ma cattivissimo”, intelligente quanto geniale, che presto sarebbe stato considerato da molti come un cult movie. Nato a Denver in Colorado come i personaggi di Black Phone, Scott Derrickson, classe 1966, dopo gli studi in comunicazione, cinema e teologia aveva esordito alla regia nel 2000, con il piccolo, interessante e un po’ “acerbo” Hellraiser. Si era poi fatto notare dalla critica nel 2005 per il bellissimo, misurato e sfaccettato  horror a sfondo religioso (forse ispirato dai suoi studi teologici) L’esorcismo di Emily Rose, scritto come Hellraiser 5 insieme a Paul Harris Boardman, con cui avrebbe realizzato in seguito un altro ottimo film sugli esorcismi, Liberaci dal Male, nel 2014. Nel 2008, con un enorme apparato produttivo alle spalle (che forse lo ha un po’ condizionato…), portava nelle sale un remake un po’ sbiadito, ma pieno di spunti visivi e narrativi interessanti:  Ultimatum alla terra con protagonista Keanu Reeves. 

Nasceva invece a Austin California C.Robert Cargill, classe 1975, che come figlio di militari aveva passato gran parte della sua infanzia spostandosi continuamente, di base in base e di scuola in scuola. Da adulto era stato commesso viaggiatore finché trovò impiego come commesso in un negozio di videocassette, seguì una breve carriera d’attore e poi l’esordito come sceneggiatore, proprio nel 2012 con Sinister

Cargill si racconta che incontrò Derrickson una sera in un bar di Las Vegas, grazie a un amico comune. Si avvicinò al tavolo con coraggio presentando al regista di Emily Rose proprio la bozza di Sinister, che disse essergli stato ispirato dalla visione di The Ring

Si dice che ricevette in pochi minuti l’approvazione del regista e poi telefonicamente pure quella del produttore Jason Blum. 

La sua sceneggiatura era davvero speciale e Derrickson e Cargill fin dai primi scambi in quel bar scoprirono di avere molto in comune: dalla passione per le letture al cinema horror, dalla musica “vintage” a un'adolescenza vissuta nel cuore degli anni '70, per lo più ai margini di “difficili” cittadine di provincia che all’epoca vivevano in un clima di grande tensione, tra Vietnam e crisi economica. Una adolescenza tra bulli, ubriachi, reduci e famiglie distrutte, per molti versi simile a quella di molti giovani protagonisti dei libri di Stephen King come It e Stand by me. Un'adolescenza  che avrebbero voluto approfondire nei loro lavori insieme, proprio a partire da Sinister

Sarebbero tornati a lavorare con lo stesso spirito nel 2015 per Sinister 2, per poi nel 2016 fare qualcosa di completamente opposto (e forse “meno personale”, come nel caso di Ultimatum alla Terra) per il colossal Marvel Doctor Strange, per in seguito ritornare a temi a loro più vicini, “Kinghiani”, nel 2021 per Black Phone e ora nel 2025 per Black Phone 2

Ma restiamo un attimo al 2012 e ai motivi del grande successo del primo Sinister: perché in fondo sono molto simili a quelli del successo del primo Black Phone. 

A fianco di attori esordienti giovani e già bravissimi come Clare Foley e Michael Hall D’addario, protagonista assoluto della vicenda era Ethan Hakwe, che sarebbe stato di nuovo protagonista in Black Phone. Ethan Hakwe aveva esordito giovane e già bravissimo nel fantasy cult per ragazzi Explorer del 1985, per poi prendere parte ad alcune delle più importanti pellicole degli ultimi anni: il drammatico L’attimo fuggente del 1989, il thriller basato su una storia vera Alive nel 1993, la trilogia romantica di Before Sunshine, il fantascientifico Gattaca di Andrew Niccol. Era stato un sex symbol, ma anche un attore generoso ed eclettico, spesso legato a progetti indipendenti a volte molto “arditi” (come Boyhood di Linklater, iniziato nel 2002 e conclusisi nel 2014), che arrivato alla soglia del quarant’anni stava iniziando a flirtare sempre di più con il genere horror (con il “vampirico” Daybreakers) e che un anno dopo Sinister, nel 2013, sempre per Blumhouse, avrebbe inaugurato la grande saga di The Purge dell’esordiente James De Monaco, come primo protagonista. 


In Sinister, Ethan Hawke impersonava un pessimo giornalista di inchiesta e pessimo padre di famiglia, che per scrivere un controverso libro/inchiesta si trasferiva, con la moglie ignara e prole al seguito, in una casa maledetta dove erano avvenuti terribili fatti di sangue. Ossessionato dalle vicende di quel luogo, l’uomo si calava insieme ai suoi cari in una realtà da incubo con al centro una demone per certi versi simile a uno “strano Peter Pan”, con al seguito tanti “bambini perduti” fantasma: arrivati a lui in quanto “delusi” da dei genitori incapaci. Piccoli fantasmi intenzionati e diventare amici dei suoi figli. Bambini fantasma che sarebbero “tornati”, seppur con intenzioni diverse, anche in Black Phone. Come sarebbe tornato in Black Phone il tema-cardine della difficile comunicazione tra genitori e figli. Un argomento probabilmente per Derrickson e Cargill molto importante, che tornerà in seguito, spesso sviluppato con una complessità tale da rendere imprevedibile, ma pur sempre “credibile”,  l’esito di una storia. 

Le influenze da King erano tantissime, il lavoro finale era brillante, originale e soprattutto faceva davvero paura: a partire dalla scelta “ispirata da The Ring” di mettere al centro della narrazione alcune sequenze terrificanti girate in formato super 8, super sgranate, quasi mute, con in sottofondo solo il rumore della pellicola che gira meccanicamente sui rulli di un proiettore. 

Si parlò subito di trilogia, ma il secondo Sinister, ancora più complesso e forse più  filosofico che spaventoso, fallì la prova con il pubblico. Forse fallì anche perché nei suoi confronti Cargill e Derrickson si comportarono per lo più solo come produttori, quasi come i “genitori distratti” che venivano “puniti” in Sinister. Affidarono la regia e quasi tutto il resto all’irlandese Ciaran Foy, in quando occupati sui set di Doctor Strange e Liberaci dal male. Il film che uscì fu sfortunato e “non capito”, ma i temi e i personaggi di Sinister erano ancora molto importanti e “vivi” per i suoi autori; solo in attesa di trovare una “nuova forma”. 

A sei anni di distanza dal 2015 di Sinister 2, Derrickson e Cargill decidevano così di portare in sala personalmente un racconto di Joe Hill, contenuto nell’antologico Ghosts del 2004 e scritto con toni felicemente vicini alla “poetica” del padre di Hill e mito di Derrichson e Cargill: Stephen King. Ne fecero un adattamento così  “personalizzato”, realizzato in solo cinque settimane, che lo avrebbero portato a essere quasi una “variante di Sinister”, forse più matura e “meno cattiva”. Forse con poche modifiche avrebbe pure essere quel Sinister 3 più volte invocato dai fan ma mai realizzato dopo il flop del 2, o quantomeno una “versione speculare del primo Sinister”, in cui ruoli e ambienti risultavano “nell’ecosistema/scena opposti”. A partire scenograficamente da quel setting centrale della “soffitta” di Sinister, che diventava/si trasformava nel “sottoscala” di Black Phone

Erano di nuovo al centro della vicenda dei bambini, interpretati dai bravissimi Mason Thames e Madeleine McGraw, ma non erano certo del “bambini cattivi” o quando meno dei “bambini ribelli”, anche perché lo scenario temporale era diverso, come i “ricordi personali” che gli autori volevano infondere nell’opera erano diversi. Ethan Hawke, che interpretava il “genitore assente” di Sinister, qui assumeva il ruolo di carnefice/demone. Se vogliamo l’immagine distorta di un genitore iperpossessivo, “carceriere” e instabile, che non vedeva l’ora di “punire per sfogarsi”. Un ruolo che sarebbe risultato al pubblico tanto, “troppo simile” a quello del personaggio del padre dei due ragazzini, interpretato dall’ottimo Jeremy Davies, generando un vero e proprio “cortocircuito narrativo”, davvero intrigante quanto amaramente “plausibile”.  Per diventare il Rapace, Hawke si era spinto a cambiare più volte voce e postura del corpo, farsi a tratti muscoloso e a tratti esile, usare una gestualità estrema quanto eclettica, ora teatrale ora contenuta. Doveva essere un mostro tragico. Doveva saper esprimere e condensare in un singolo personaggio, che restava per la maggior parte del tempo con il volto coperto, come il V per Vendetta di Hugo Weaving, almeno cinque personalità e caratteri diversi. Un po’ “stremato”, ma contento di aver rivestito per la prima volta il ruolo di “cattivo”, Hawke diede vita con una performance  semplicemente incredibile al suo personale Freddy Krueger: uno dei suoi personaggi più cattivi, divertiti e iconici degli ultimi anni. 

Un demone che, tornando al “gioco degli specchi” con Sinister, era espressivamente l’esatto opposto del muto, monolitico e giudicante “Peter Pan” di Sinister

Tornava in Black Phone da Sinister, insieme a una messa in scena curata sul piano visivo e sonoro, un montaggio quasi “chirurgico” nel ricercare la massima chiarezza e leggibilità dell’azione e degli spazi. Tornava una rappresentazione della violenza cruda quarto realistica: consapevole dell’impatto visivo ed emotivo del mostrare la sofferenza umana, senza che questa apparisse “gratuita”. Tornavano le scene che spaventavano con un semplice cambio di inquadratura veloce e innalzamento del volume (i cosiddetti “bus”), improvvise “ma necessarie”. Tornavano “specularmente” scene realizzate tecnicamente come immagini di una telecamera da 8mm: che in Sinister venivano usate per riprodurre la bassa qualità di documenti filmati reali, mentre in Black Phone descrivono la percezione visiva durante i sogni. 

Tornava soprattutto una storia con dialoghi dal forte impianto drammaturgico, in grado di valorizzare la bravura degli interpreti, anche attraverso citazioni colte prese dal teatro greco: ne è un esempio la bellissima maschera dalle “parti umorali intercambiabili” del Rapace, realizzata dall’artista Jason Baker, che richiama proprio le maschere di scena del teatro classico. 

Soprattutto, tornavano protagonisti centrali della vicenda bambini fantasma e gli adulti assenti. 

Bambini “fantasma” in quanto defunti, ma pure invisibili a chi dovrebbe prendersene cura, costretti a “parlare da soli” (Gwen) o annullarsi (Finney). Specchio di una infanzia tradita in scuola dove regnava il bullismo, su strade dove da mesi imperversava un maniaco, in case dove c’era ovunque violenza domestica, a meno che il genitore non fosse morto in Vietnam. Nelle interviste, Cargill e Derrickson ricordano da piccoli di aver visto centinaia di foto in bianco e nero di bambini scomparsi nel nulla. 

Gli adulti invece erano “assenti” in quanto troppo concentrati sui rispettivi drammi personali, da quasi non accettare la presenza di una voce (e di un dolore) che non fosse esclusivamente loro. Adulti di conseguenza “assenti per alcol” (il padre), assenti “per indifferenza” (gli insegnanti), “pazzi” (il fratello del Rapace), se non ovviamente “assenti per cause di Stato” (come il padre di Robin partito per il Vietnam senza fare ritorno). 

Bambini fantasma e adulti assenti che convivono/si scontrano, in Sinister come in Black Phone, all’ombra di una rispettiva “entità maligna”, che si fa forse metafora del mondo stesso che stavano vivendo. 

Un’entità che però forse, a opinione dello scrivente, può funzionare in quanto rimane un misterioso deus ex machina, quando in realtà il seguito di un film horror va troppo spesso (e spesso con incoscienza) a indagare proprio sulle origini di un male che deve restare senza nome, in quanto spesso simbolo di qualcosa di diverso da un semplice “personaggio”.

La realtà è che il primo Black Phone funzionava proprio in quanto specchio di Sinister: era quasi lo stesso film da punti di vista opposti e come Sinister era diventato un piccolo cult.

Il grande dubbio, prima della visione in sala, era che si fossero fatti per Black Phone 2 gli stessi errori di Sinister 2



In sala

Black Phone 2 sceglie fin da subito di portare la narrazione al di fuori di uno stretto “ecosistema familiare/trappola”, come lo erano la soffitta di Sinister e lo scantinato del primo Black Phone

L’azione qui si svolge in una colonia invernale per ragazzi davanti a un piccolo laghetto: un luogo in grado “con una sola mossa” di rievocare, per i fan dell’horror più accaniti, tanto il lago e il campus Crystal Lake (Venerdì 13), quanto l’isolamento invernale “feroce” dell’Overlook Hotel (Shining). Un setting davvero ben realizzato, “sospeso” tra passato e presente in un istituzionale “immobilismo forzato”, che sulla scena appare davvero molto evocativo. Un luogo ghiacciato anche emotivamente, ammantato di bianca neve che spesso si tinge di rosso sangue, in cui un Rapace sempre più vicino a Freddie Krueger e “nuovi” bambini fantasma possono sguazzare come dei matti, tra realtà e piano onirico. 

Un “luogo nuovo”, che permette a Derrickson e Cargill di raccontarci quanto potessero essere spaventose (e “omertose”) le colonie per ragazzini negli anni '70 (non è certo il campus estivo di Polpette, film del '79 con Bill Murray..), che porta anche i due protagonisti, Gwen e Finney, ad assumere un “ruolo nuovo”. Un ruolo che li vede più adulti e quasi nei panni di “detective del soprannaturale”. In questi ruoli Mason Thames e Madeleine McGraw ci sono piaciuti moltissimo, dimostrando un grande talento nella “ri-costruzione emotiva” dei rispettivi personaggi dopo gli eventi trascorsi. Come ci è piaciuto rivedere in un “nuovo ruolo” il bravo Miguel Mora, come ritrovare Jeremy Davies alle prese con un personaggio, quello del padre, che effettivamente nel corso del tempo dimostra anche lui di essere cambiato, cercando di rimettersi in gioco. 

Black Phone 2 ha meravigliose scene horror e liberatorie, scene prettamente splatter, un setting pieno di suggestione e ottimi attori che sanno proseguire emotivamente bene la storia iniziata nel primo film. 

Anche sul lato visivo, l’uso del “formato onirico” degli 8mm funziona molto bene, giocando in modo interessante con le peculiari scelte del direttore della fotografia Par M.Ekberg. È più facile confondere la realtà con il sogno, a meno di non stare a ricercare in modo analitico le “sgranature della risoluzione” sui bordi e ai margini della scena. A volte con la stessa ossessione con cui veniva analizzata l’immagine in bassa risoluzione delle telecamere digitali della saga Paranormal Activity, non a caso un’altra serie-simbolo della casa di produzione Blumhouse.

Tuttavia qualcosa di importante si è perso sul lato della scrittura: non si è data la “giusta voce” alle “nuove” vittime del Rapace e il tema del difficile dialogo tra giovani e adulti è stato messo un po’ da parte. 

Forse per non ripetersi e non trasformare di nuovo il tutto in una specie di Sinister 3

Forse per esplorare di più il lato investigativo della storia e di fatto fornire un gancio a pellicole future, ma c’è da dire che anche la “struttura delle investigazioni”, tra i sogni di Gwen e le telefonate di Finney, ogni tanto appare un po’ schematica. 

Ad ogni modo si avverte a livello narrativo una maggiore distanza emotiva, che rende il tutto più prevedibile e meno sfaccettato sul piano umano, pur all’interno di una pellicola in larga parte ben riuscita e divertente.


Finale 


Con Black Phone 2 Derrickson e Cargill riportano in sala personaggi e atmosfere di uno degli horror più intelligenti, originali e interessanti degli ultimi anni. La formula rimane accattivante: bravi gli interpreti, riuscite le scene oniriche quanto le scene “splatter”, il nuovo scenario si dimostra ricco di atmosfera, Ethan Hawke sempre più cattivo e sopra le righe. Ci si spaventa e diverte come prima, anche se nella storia avvertiamo una maggiore “freddezza”, forse anche in onore della nuova ambientazione. 

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mercoledì 1 ottobre 2025

Le città di pianura: la nostra recensione del tragicomico “western crepuscolare postmoderno e molto etilico” di Francesco Sossai


Ci troviamo nel Veneto quando ancora non era diventato lo “Zaiastan”, dalle parti di inizio duemila, prima della grande crisi.

Ai tempi Cavalieri e megadirettori si spostavano in elicottero, con orgoglio sopra i loro operai e impianti/ruderi “ma ancora validi” dell’era industriale, dispersi per i campi e i sassi come vecchi accampamenti indiani. Un elicottero scende a terra per alzare in modo spettacolare un piccolo tornado di sabbia e per riconoscere il valore vero di un operaio, prossimo alla pensione ma che lavora per loro instancabile dall’inizio, “il primo”, di nome guarda caso Primo. Il premio, un orologio con dedica, oro, abbinato a grandi sorrisi, pacche sulle spalle e forse una rivelazione importante, solo per le sue orecchie, tipo il senso della vita. Ma la rivelazione viene “dispersa” dal rumore di fondo assordante delle pale dell’elicottero che iniziano già a girare. Di sicuro girano già da molto pure le “pale” di Eugenio, detto “il genio” (Andrea Pennacchi). Operaio della stessa ditta leader nella produzione di occhiali, ma a tempo sempre più pieno contrabbandiere a giro internazionale dei medesimi. La crisi si avvicina quanto il suono delle manette e l’Argentina diviene per il Genio la meta tra sogno e realtà da inseguire. Debitamente “viaggiando leggero”, dopo aver lasciato il frutto del contrabbando sepolto in un luogo segreto come un tesoro dei pirati, in attesa che le acque si calmino. 

Gli anni passano e le acque si sono così calmate da essersi svuotate: si parla ora solo di vino, birre e superalcolici. Due amici di sempre, complici/colleghi di lavoro del Genio hanno già bevuto tutto l’inimmaginabile nelle ore d’attesa che li separano dall’arrivo all’aeroporto con il vecchio amico. Per un attimo hanno pure scoperto il senso della vita forse sussurrato a Primo anni prima. Ma il tempo di attesa di un volo dall’Argentina è ancora tantissimo e tantissimi sono pure i bar, bettole, Night club et similia lungo il cammino al terminal, a patto di ricordarsi se l’aeroporto giusto è Treviso o Venezia. Dopo essersi autoinvitati a un paio di feste e addii al nubilato, la coppia, al secolo il baffuto Carlobianchi detto “Charlie” (Sergio Romano) e l’intraprendente Doriano detto “Doriano” (Pierpaolo Capovilla), decidono di imbucarsi pure a una festa di laurea. La ragazza con corona d’alloro in testa è bellissima, ma il ragazzo che più spasima per lei, lo studente di architettura Giulio (Filippo Scotti), è tristissimo, un uomo devastato dalla timidezza, dalla imbranataggine e un po’ dalla sfiga. Quando la serata passerà per lui dalla tragedia allo psicodramma, Doriano e Carlobianchi decideranno di “adottarlo” come un cagnolino raccolto dalla strada sotto l’acqua, per innaffiarlo con loro on the road, nel resto del giro etilico programmato a caso in attesa del “Genio”. Giulio è così devastato a livello esistenziale che accetta al volo qualunque cosa, pure Doriano e Carlobianchi. I tre sperimentano effluvi alcolici in luoghi e posti assurdi ma verissimi per almeno un paio di giorni. Alla ricerca di un “Genio” , di un “Tesoro sepolto”, di un amore che forse è già perduto a vantaggio di spasimanti meno timido. Alla ricerca di un futuro, di se stessi e forse di una spalla a cui appoggiarsi e continuare fiduciosamente, insieme e insonni, a camminare lungo una lunga notte. Tra vecchie osterie, castelli che forse diventano autostrade, monumenti funebri post-moderni meta turistica di giapponesi e lungo così tante strade e bar desolati e desolanti che pare di stare nel Texas. O altri luoghi che forse non esistono se non nell‘immaginazione. Come Rovigo. 

Esiste sempre più, grazie al coraggio di alcuni amabili pazzi contemporanei, un cinema che va a esplorare il nord est dell’Italia per quello che è sempre stato anche se poco ci è stato raccontato: è il nostro personale Far West, pieno di miti e leggende ancora troppo poco raccontate. Si è innamorato pochi anni fa dei suoi spazi sterminati, rigogliosi di verde ma quasi sinistri, il regista e cantante Zampaglione, raccontandoli come “casa nel bosco” di un Freddie Kruger tutto nostrano nell’ottimo e mai abbastanza celebrato Shadow, nel 2009. È da sempre cantore degli infiniti silenzi delle sue città “abbandonate e abbandonabili” arrancate sui monti, da frontiera quasi metafisica, l’ottimo Lorenzo Bianchini, che nel 2013 firma il suo capolavoro, Oltre il Guado. Autori come Silvio Soldini (con La lingua del Santo, del 2000), Matteo Oleotto (Zoran, il mio nipote scemo, nel 2013, la serie tv Volevo fare la rockstar) come Emilia Mazzacurati (Billy, del 2023) hanno cercato di incanalare l’animo vivace, sognatore, romantico e sarcastico proprio del nord Est e su questo stesso solco va a collocarsi oggi Francesco Sossai per la sua irresistibile commedia on the road ad altissimo tasso etilico. Un film, che Sossai scrive insieme a Adriano Candiago, che è più Paura e deliro a Las Vegas di Terry Gilliam che Via da Las Vegas di Mike Figgis. Un film generoso e ondivago che insegue un’infinita “ora dello spritz” come momento massimo, quasi sciamanico, per mettere a nudo i sentimenti umani migliori, come l’amicizia e la comprensione, senza tutti i legacci delle inibizioni. Non però uno stordimento da super alcolico costante, cosa che forse ci porta in territori più bonari e meno autodistruttivi del film di Gilliam, quanto una “giustificazione liquida bassa gradazione”, per prolungare la voglia di stare insieme a tirare tardi, allontanando la testa e il cuore dai drammi di tutti i giorni quanto più si riesce. Sossai dietro il giallo paglierino delle pinte i drammi non li nasconde per niente, anzi dà voce con la sua macchina da presa a scenari fatiscenti, ristoranti con la serranda abbassata, sui personaggi tutti i segni di una vita che tira avanti con pochi lussi e tanti sacrifici. Scenari e vite che parlano da soli di un tempo di crisi ormai diventato troppo lungo, in cui persino i campi e gli stabilimenti chiusi in breve sono diventati non lontanissimi dall’Australia di Mad Max. Scenari sui quali i nostri protagonisti, tutti perdenti, un po’ codardi e un po’ truffatori, ma molto romantici, non hanno la forza di camminare dritto. Preferendo “barcollare” tra sogni, alcol e realtà, ma sostenendosi a vicenda, amici e complici, senza perdere quello stato mentale collettivo, quasi fanciullesco, che forse rende meno gravoso il loro incedere. 


Anche se la meta è fosca e il tragitto pieno di deviazioni, è quindi un “naufragare dolce” perdersi con Doriano, Carlobianchi e Giulio nel loro on the road a zonzo tra Venezia e la realtà, senza capo né coda pieno di strade aride ma pure di meravigliosi bar con musica dal vivo, sempre perfettamente azzeccata alla descrizione di stato d’animo generale e disgrazie varie. 

Grazie a un’ottima scrittura e ottimi interpreti, il viaggio si fa presto anche per il pubblico, chilometro dopo chilometro, birra dopo birra, l’immagine cristallina del solo, primordiale bisogno di “state insieme”. Uno “stare insieme” che riesce a filare bene nello stomaco dello spettatore come un buon digestivo: appagante, dolce ma anche debitamente amarognolo. Al netto di qualche “flashback narrativo” che forse non convince in pieno, la storia dei nostri eroi sa sempre trascinarci nel loro mondo in modo cristallino, generoso e stralunato.

Un piccolo grande film. 

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lunedì 22 settembre 2025

Demon Slayer: il Castello dell’Infinito - la nostra recensione del primo dei tre film che chiude la saga animata realizzata da Ufotable, tratta dal manga di Koyoharu Gotoge

Premessa 

Demon Slayer: il Castello dell’Infinito è il primo di tre film cinematografici con cui lo studio Ufotable ha scelto di raccontare in forma animata l’ultimo arco narrativo del manga scritto da Koyoharu Gotoge. Gli eventi narrati in questo primo capitolo seguono direttamente quanto raccontato nella quarta stagione dell’anime, andata in onda la prima volta su Fuji Tv nel 2024 dall’inizio di maggio alla fine di giugno. 

Il secondo film, salvo cambi di calendario è previsto in uscita nel 2027, il terzo nel 2029. 

Tutto l’anime è reperibile in italiano sul canale streaming di Crunchyroll, con la relativa versione Home Video già disponibile negli store curata da Dynit. Il manga, uscito originariamente in 23 volumi dal 2016 al 2020, è stato integralmente portato in Italia da Panini, sotto l’etichetta Planet Manga.


Sinossi

Sembra ieri che Tanjiro, ritornando a casa in una giornata assolata, trovava tutta la sua famiglia trucidata da un demone dopo una notte di mattanza. Sua sorella Nazuko era miracolosamente sopravvissuta, ma il mostro l’aveva morsa, dando inizio alla sua fase di mutazione in demone. Il cacciatore di demoni che era sulle tracce di quella sanguinaria creatura, il “Pilastro dell’acqua” Giyu Tomioka, era arrivato troppo tardi, ma aveva comunque il dovere di eliminare il nuovo demone che stava nascendo. Tanjiro, solo su una distesa di neve coperta di sangue con Nazuko in grembo, commosse il guerriero. Se esisteva, Tanjiro avrebbe cercato una cura. Ad ogni modo, sarebbe diventato anche lui un cacciatore di demoni: avrebbe provveduto personalmente a ucciderla al termine della metamorfosi. 

È così che cominciò il viaggio di Tanjiro e Nazuko attraverso un Giappone sospeso tra incubo e realtà. I due avrebbero presto condiviso la strada con l’insicuro ma coraggioso Zenitsu e con il “ruvido” Insuke. Nazuko, diventata ormai una creatura notturna, avrebbe cercato di dominare i suoi nuovi poteri da demone senza perdere la sua anima, aiutata anche dalla scienza medica dell’epoca. I tre ragazzi si sarebbero uniti agli spadaccini Hashira, i più potenti cacciatori di demoni, diventando  ogni giorno più forti come spadaccini ed esorcista. Tra molte difficoltà e amare vittorie, sono tutti in breve tempo diventati adulti. 

Ormai è giunto il tempo del grande scontro finale tra i Demon Slayer e i demoni capitanati dal pericoloso Muzan Kibutsuji. Una autentica guerra destinata a compiersi nell’arco di una sola notte, che vedrà tutti in prima linea, maestri e reclute, contro migliaia di demoni e i loro potenti comandanti, le dodici Lune Demoniache. Una guerra che sarà combattuta in pieno territorio nemico, in un luogo in cui le regole del mondo fisico non hanno alcun valore: il Castello dell'Infinito. Una struttura sorretta da una magia ancestrale potentissima, in grado di espandersi o moltiplicarsi per interi chilometri, mutando continuamente i suoi spazi interni creando in un istante vicoli ciechi, trappole e baratri. 

Sarà uno scontro disperato, anche se i cacciatori di demoni hanno più di un asso nella manica per riuscire nell’impresa.

Dovranno però tenere i nervi saldi: non cadere nella pazzia e mettere tutta l’anima in ogni scontro. Dovranno accettare la possibilità di cadere in battaglia, pur di favorire la corsa dei loro compagni verso il terribile Muzan. 

Riusciranno gli Hashira e i membri della Demon Slayer Corp a sopravvivere? 



Breve storia di Ufotable 

Fondato nel 2000 nel quartiere Suginami di Tokyo, da ex animatori di TMS Entertainment guidati dal produttore Hikaru Kondo, lo studio Ufotable si dice abbia preso il nome dalla forma, definita “simile a un ufo”, dello stranissimo tavolo che Kondo si fece realizzare, proprio per il suo nuovo ufficio, da un celebre artista scandinavo. Con questo “simbolo” a guidarli, lo Studio non poteva che imporsi come qualcosa di strano, rivoluzionario e originale fin dal suo esordio. Una eccezione assoluta o, se vogliamo, proprio uno strano “oggetto volante non identificato” nel panorama dell’animazione Giapponese moderna. Commissionando quel tavolo, Kondo  non sognava solo di viaggiare verso “lo spazio profondo”. Dalla circolarità dell’oggetto voleva sollecitare nell‘osservatore anche “afflati Arturiani” che lo avrebbero reso idealmente vicino alla celebre Tavola Rotonda. Ufotable non avrebbe avuto una struttura lavorativa tradizionale: “verticale”, settoriale e granitica, con un solo capo al comando. Sarebbe stato prima di tutto un luogo di studio interdisciplinare “tra pari”, un posto in grado di favorire l’ascolto e confronto di animatori di età ed esperienze diverse. Una fucina di idee e progetti a cui tutti avrebbero dato vita  lavorando insieme, sostenendosi come un’unica squadra che a fine partita vanno a festeggiare insieme. Un po’ come in una bottega artigiana, ogni ufficio era studiato per permettere a quattro animatori di lavorare a stretto contatto, su un unico grande tavolo centrale, veterani a fianco di nuove leve. Un po’ come in un albergo, alle spalle di ogni animatore c’era il classico “spazio di riposo nipponico”: un tatami (lettino), per “stimolare a produrre” anche durante le ore notturne, senza rincasare, in caso di “scadenze imminenti” secondo il classico stile di dedizione al lavoro giapponese. Dal 2006 gli animatori in Ufotable hanno ottenuto anche un innovativo “spazio sindacale”, cosa per nulla comune nel campo dell’animazione nipponica. Potevano concretamente entrare nei comitati di produzione degli anime, per diventare parte attiva del processo e gestione di tempi e qualità del lavoro. 

Dal 2010 lo Studio si era reso del tutto indipendente, arrivando a curare nella sua sede tutti gli aspetti del prodotto finale, dal disegno a mano alla animazione digitale, dal montaggio alla colonna sonora, dal doppiaggio alla promozione. Per questo si era dotato di un nuovo “spazio”: un vero e proprio studio di incisione, in grado di scovare tra le nuove voci dei talenti come il gruppo “Kalafina”. Non poteva mancare giusto il settore della ristorazione e infatti al primo piano dello Studio di Suginami,  dal 2006 era già stato allestito un bar/ristorante, specializzato nel servire inizialmente piatti ispirati alle serie animate di Ufotable. All’inizio era una mensa per dipendenti ma presto si è aperto al pubblico come ristorante a tutti gli effetti, diventando in breve una meta turistica obbligatoria per le legioni di fan degli anime che si recavano e si recano tuttora in pellegrinaggio a Tokyo. Ad oggi esistono vari “Ufotable Cafe’ “ e pure un ristorante di lusso,  “Ufotable Dining”,con code anche di sei ore di attesa in caso di mancata prenotazione. Ma non dimentichiamo che il “piatto forte” di Ufotable, il motivo principale per cui è così tanto amato da pubblico e critica, specie in un periodo di forti “delocalizzazioni all’estero” e  “crisi interne” del settore anime giapponese, rimane pur sempre la cura che Ufotable ripone nella sua produzione animata.  


Agli esordi, lo Studio si è occupato tra le varie cose della parte animata legata alla produzione dei videogame delle serie Namco Tales of e God Eater: giochi di ruolo amatissimi in Giappone, che oggi stanno riscontrando uno straordinario successo anche a livello internazionale grazie alle animazioni dello Studio. Al contempo, Ufotable è stato scelto (forse non a caso) dal prestigioso Studio Ghibli come studio di sopporto per le animazioni del film di esordio di Goro Miyazaki, I racconti di Terramare, tratto dalla celebre saga fantasy di Ursula Kroeber Le Guin. Dal 2009 al sodalizio con Namco si è aggiunta la collaborazione con Aniplex, per il film tratto dalla serie-cult Puella Magi Madoka Magika, ma soprattutto è nata una duratura collaborazione con un’altra casa di videogame a tema fantasy: la produttrice di Light Novel Type-Moon. Per lei, Ufotable si è occupata della trasposizione della saga di Fate/Stay Night a partire dal 2011, con la serie prequel in 25 episodi Fate/Zero. Il grande successo di Fate/Zero ha portato poi alla messa in cantiere della trasposizione animata del “ciclo completo”, in 26 episodi, di  Fate/ Stay Night: Unilimited Blade Works. Un progetto che ha raccolto immensi consensi di critica e pubblico, a cui è seguito, dal 2017 al 2020, la trasposizione in animazione Fate/Stay Night : Heaven’s Feel. Una serie che la casa ha scelto di sviluppare in tre film cinematografici usciti a cadenza annuale. Inoltre, lo studio ha sopportato Type-Moon anche nella parte animata del gioco Fate/Grand Order, come da anni ha fatto con Namco. 

Proprio nelle produzioni legate a Fate, Ufotable inizia a esprimere davvero al massimo tutto il suo straordinario potenziale artistico e tecnico, distinguendosi anche per un modo di lavorare davvero “fuori dagli schemi”. Ci sono episodi che in barba alle convenzioni delle serie tv sono della durata di quaranta minuti o di un’ora, diventando a tutti gli effetti dei “mini film”: una scelta  per non spezzettare la forza evocativa del racconto originale. Nei film di Heaven’s Feel invece spesso vengono saltati a pie pari i passaggi narrativi di eventi già raccontati in Unlimited Blade Works: una scelta molto apprezzata dal pubblico dei fans, anche se percepita da altri come qualcosa di “criptico”. Ufotable non voleva “lucrare” in termini di minutaggio su qualcosa che aveva già prodotto in passato ed era ben reperibile.

Sul piano tecnico e artistico la “formula produttiva di Ufotable” ha permesso nelle sue opere un approccio così ricco di dettagli e sfumature da sfiorare quasi il certosino. Come se ogni componente del gruppo di animazione facesse a gara a mettere in risalto la sua professionalità. Sulla scena viene curato ogni singolo aspetto naturalistico e climatico del paesaggio. Viene riprodotto mattonella per mattonella ogni edificio. Viene considerata  la rifrazione del sole. Se il character design originale ha delle semplificazioni nel tratto, questo viene arricchito pur con tratti leggeri, quasi invisibili: per permettere di dare risalto a ogni piccola sfumatura emotiva dei personaggi. Una cura “ugualmente folle” viene riservata alla messa in scena dei combattimenti. Che siano con spade, fucili, pugni o raggi di energia, i combattimenti appariranno sempre chiarissimi, di facile lettura sul piano del montaggio e dell’impatto nonostante torme di lampi, detriti, vortici. Lo “stile di “ripresa dell’azione” sarà sempre dinamico anche quando corpi e colpi andranno a fondersi tra animazione classica a mano e tridimensionale. 

Tuttavia non di sole “botte da orbi” vivono gli anime, e quindi lo Studio sa anche costruire un regia accurata per un contesto drammatico: il ritmo dell’azione sa passare con un'ottima coordinazione dall’indiavolato al calmo, arrivando quasi allo spirituale. Non è raro che scene di stampo drammatico rubino a volte la scena a quelle più spiccatamente “cinetiche”. 

Pur se il prodotto finale è destinato alla visione domestica, si respira quindi in ogni istante una attenzione e cura non inferiore a quanto offre una grande produzione di stampo cinematografico. 

Nel 2019 sono iniziati per Ufotable e il suo fondatore dei guai finanziari protrattisi per qualcun anno e con qualche sentenza pesante…ma rimaniamo qui sul “piano artistico”.

Dal 2019 Ufotable si è occupata, in coproduzione con Aniplex, con tutta la cura e passione di cui è capace, quasi esclusivamente della trasposizione animata della saga di Demon Slayer. Di fatto “facendo sua” la già discreta opera di Gotoge, fino a renderla uno dei massimi punti di riferimento dell’animazione contemporanea. Contribuendo di riflesso, fin dall’inizio della serializzazione televisiva, a portare anche la piccola serie manga di Gotoge a inaspettate vette delle vendite, con felici ricadute anche a livello internazionale sul cartaceo. Ma questo forse non sarebbe stato possibile, se la piccola serie di Koyoharu Gotoge non avesse avuto al suo interno qualcosa di profondo e speciale.



Ufotable incontra Koyoharu Gotoge 

La giovane fumettista della prefettura di Fukuoka Koyoharu Gotoge, che nei suoi fumetti ama ritrarsi come un buffo coccodrillo con gli occhiali, a soli 24 anni partecipava con una storia breve alla 70esima edizione di un celebre concorso per esordienti della rivista Jump. Il racconto, intitolato Kagarigari, vinse il primo premio. Quella storia, dai tratti “delicati ma sanguigni” e dallo sviluppo semplice ma accattivante, nel 2016 divenne la base della sua prima serie lunga, Kimetsu no Yaiba (letteralmente “La spada dell’ammazzademoni”), conosciuta a livello internazionale come Demon Slayer. Si raccontava a tappe il lungo viaggio di due fratelli che, “colpiti da una maledizione”, da un piccolo mondo contadino arroccato sui monti, quasi bucolico, venivano spinti a confrontarsi con una società che, metro dopo metro, appariva sempre più complessa, crudele e forse “corrotta”, da forze misteriose. Una società che per sopravvivere aveva assunto contorni militareschi, trascinando anche i più giovani e indifesi in giochi di potere crudeli: situazioni in cui “il credo della forza” andava sempre a schiacciare ogni forma di umanità. Capitolo dopo capitolo Gotoge sviluppava una storia di formazione, dal sapore action forse convenzionale ma raffinata nei dettagli, dotata di un forte senso del drammatico e del malinconico. Una storia che non aveva paura di addentrarsi in territori squisitamente horror o in veri drammi sociali specchio della arcaica “società a caste” nipponica. Alla formula Gotoge aggiungeva geniali momenti ironico/surreali, che sapevano spiazzare quanto mettere in luce aspetti caratteriali  particolarmente originali dei personaggi. La presenza di una “maledizione” che incombeva sui due fratelli protagonisti, rafforzandone il legame e il senso di responsabilità reciproca per la vita dell’altro, diventava la forte matrice emotiva del racconto, con felici “assonanze” con il capolavoro Full Metal Alchemist di Hiromu Arakawa (che nei fumetti ama ritrarsi come una tenera mucchina con gli occhiali). L’ambientazione ricca di creature del folklore, dai tratti eterei quanto dall’animo animalesco, quasi ingenuamente crudele, ha offerto all’autrice l’occasione di sviluppare in modo piuttosto complesso anche i demoni, facendone figure tragiche affascinanti quanto sfuggenti, irrisolte. 

Tutto questo materiale stimolante è arrivato allo studio Ufotable, che sotto la guida del regista responsabile del progetto Haruo Sotozaki era chiamato a affinare, rileggere e semplificare il tutto per la tv. Uno degli obiettivi dell’adattamento è stato “sfoltire” una narrativa per vignette che appariva a tratti un po’ troppo concitata e “densa”. Un’altra sfida era conferire al tratto molto femminile della Gotoge delle linee più “dure”, ma che sarebbero state maggiormente funzionali ad offrire il giusto afflato cinematografico di una storia di samurai crepuscolari. 

La caratterizzazione grafica dei personaggi, affidata ad Akira Matsushima, aveva per questo come indicazione di dare maggiore enfasi ai tratti scuri dei disegni originali, a partire dall’intensità dei contorni dei volti, seguendo un approccio non dissimile da quello scelto dallo studio Wit, per la trasposizione in animazione de L’attacco dei giganti. Riprodurre con fedeltà gli elaborati kimono e i ricchissimi dettagli grafici di cui era infarcito il manga si sarebbe rivelato un lavoro particolarmente complesso, richiedendo più volte uno studio supplementare della scena per legare al meglio i movimenti con i tessuti. Per enfatizzare poi al meglio l’effetto dei colpi più spettacolari, al dipartimento di grafica tridimensionale capitanato da Kazuki Nishiwaki è stato chiesto di ispirarsi allo stile del movimento artistico Ukio-e: ibridando il disegno a mano delle onde con una colorazione digitale. 

Ad ogni modo, il regista Sotozaki ha dichiarato di essersi sempre fatto guidare nella costruzione delle scene, dalle più comprese e concitate alle più drammatiche, dallo storytelling lineare quanto preciso della Gotoge.

Demon Slayer proprio per questo non si più considerate “solo” come un ottimo anime a base di azione e mostri ricavato da un piccolo fumetto. 


In sala

Il Castello dell’Infinito si apre in modo vertiginoso, lanciando tutti i cacciatori di demoni in picchiata, lungo le pareti in continua mutazione di un Castello Infinito che appare come una struttura dove la gravità si confonde, uscita direttamente da un quadro di Escher. Il castello, spostando le sue stanze come fossero le carte di un mazzo da gioco, all’inizio ambisce letteralmente a “togliere il suolo sotto i loro piedi”, aprendo le pavimentazioni piano dopo piano, creando baratri fino a farli spiaccicare nel terreno alla base. Gli eroi devono cercare di arrampicarsi a qualcosa, per sperare di fermarsi almeno su uno dei livelli inferiori, ma a quel punto verranno assaliti da centinaia di demoni, che li ingaggeranno in veri e propri scontri campali a meno che gli eroi non si trovino nei pressi di uno dei “boss”, ossia le 12 lune. In quel momento inizia un vero e proprio duello, con il Castello che andrà a trasformare l’area in una specie di arena. Allora la narrazione si fa più convenzionale, come nelle puntate classiche della serie: scontri in cui gioca un ruolo importante la tattica più che la forza bruta, approfondimenti sui “motivi etici” alla base di ogni duello per ambo le fazioni, flashback che si allungano a volte come mini/episodi (ricordiamo che il film dura due ore e mezza) con “momenti drammaturgici” davvero riusciti. Tutto come sempre è rappresentato da Ufotable con enorme cura, dal piano narrativo al visivo, dall’ottimo comparto sonoro alla buona recitazione dei doppiatori. Ma il vero spettacolo, quello che ci inchioda dal primo all’ultimo minuto al maxi schermo del cinema, è vedere le tantissime scene in cui il Catello si muove e trasforma di continuo, con suggestioni alle mega-strutture di Inception di Nolan o le città “moltiplicate” in Doctor Strange di Derrickson. Scene a livello tecnico spettacolari e spesso mixate con scene in cui orde di demoni si gettano all’attacco di cacciatori che danno lustro a tutte le loro tecniche di lotta e sopravvivenza, come se fossimo in una variazione estrema del concetto alla base del film The Raid di Gareth Evans. Pura adrenalina. 

Naturalmente il film copre solo una parte della grande notte dello scontro con Muzan e i suoi accolti, ma il senso di appagamento dopo la visione di ogni “capitolo” rimane enorme, anche perché sulla scena compaiono alcuni dei “demoni più amati” dai fan. Dire di più sarebbe un peccato, lo spettacolo va scoperto in sala, ma mi sento di aggiungere che anche uno spettatore occasionale, che non conosce la saga e capita per caso nella sala di proiezione, non potrà che essere conquistato da una messa in scena che rimane sempre accessibile anche ai “non addetti ai lavori”. Magari uscendo dalla visione con la voglia di recuperare le puntate delle quattro serie che precedono gli eventi del film.

Finale 

Demon Slayer: Il Castello dell’ Infinito è uno degli anime action più belli degli ultimi anni, la riprova dell’immenso talento dello Studio Ufotable unita alla raffinatezza e profondità dei personaggi ideati da Gotoge. L’adrenalina scorre a fiumi nella concitata battaglia campale, che viene rappresentata su schermo con un uso incredibile di ogni tipo di tecnica di animazione, ma al contempo non viene mai sacrificata la complessità emotiva dei personaggi, che più volte si ritrovano al centro di momenti narrativi davvero di grande cinema.

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giovedì 11 settembre 2025

Una pallottola spuntata: la nostra recensione del film comico diretto da Akiva Schaffer, prodotto da Seth MacFarlane, che porta sulla scena, con il volto di un divertito Liam Neeson, l’esilarante e politicamente scorrettissimo figlio del leggendario tenente Frank Drebin


Ci troviamo in una Los Angeles dei giorni nostri, assolata e caricaturale come si conviene a una commedia demenziale anni ‘80. 

Una banca del centro è presa d’assalto da un intero esercito di criminali con armi pesanti, con centinaia di ostaggi e un piccolo plotoncino disorganizzato di polizia pronto al poco convinto all’assedio nell’ingresso. Nessuno ha il coraggio di farsi avanti, a parte una bambina con divisa delle scuole medie, con treccine e lecca lecca, che varca l’ingresso canticchiando e saltellando nello stupore generale. I criminali provano ad avvicinarsi sconcertanti, scoprendo prima con orrore che il lecca lecca è in realtà un’arma acuminata e poi che la bambina, mingherlina e di un metro e venti, è in realtà un astuto travestimento del numero uno della Squadra di Polizia di Los Angeles, il tenente Frank Drebin Jr (Liam Neeson). Un uomo aitante di due metri, con incredibili capacità di lotta, in grado in pochi secondi di stenderli tutti, far esplodere tutto, quanto apparire smagliante, credibile ed eroico ancora vestito da scolaretta: con tanto di una gonna corta che non nasconde gambe pelose e delle enormi e virili mutandone con i cuoricini. 

Ma qualcuno dei malfattori è riuscito comunque a scappare indisturbato sul retro, dove lo attendeva per la fuga un’auto sportiva, portando con sé un oggetto preziosissimo e  misterioso che era stato custodito in una cassetta di sicurezza: il “P.L.O.T.” (letteralmente in italiano “la trama”, potevano adattarlo come T.R.A.M.A.). Frank Drebin jr rientra in centrale e insieme ai colleghi inizia a sorseggiare un numerino sproporzionato di tazzine di caffè, una ogni cinque secondi. Quasi sepolto da una montagna di bicchierini di plastica, Frank ascolta una accorata ramanzina del capo, che lo rimprovera del fatto che a seguito del suo ingresso in banca siano arrivati all’ospedale centinaia di persone ferite in modo più o meno grave, tra cui criminali, passanti, varie ed eventuali. Tutte spese che verranno affrontate dalla collettività e quasi dello stesso importo dei danni procurati dai malfattori. Viene quindi assegnato a un caso apparentemente più tranquillo e lontano dal P.L.O.T., in cui dovrà indagare sulla strana morte di un informatico, annegato in un laghetto mentre era alla guida di un nuovo modello di auto elettrica assegnatagli da poco dalla multinazionale per cui  lavorava, la EdenTech del magnate Richard Cane (Danny Huston). Inciampando da un indizio all’altro, Frank verrà a conoscenza di altri strani accadimenti in cui sono coinvolti dei dipendenti EdenTech, legati tutti guarda caso ad auto elettriche che impazziscono e fanno fuori il rispettivo conducente. Fino a che la Squadra di Polizia non assegnerà anche a lui un'auto elettrica: un dono del sempre più ambiguo magnate Richard Cane, che minuto dopo minuto assumerà sempre più i contorni di qualcuno interessato proprio al P.L.O.T.. Ma Frank non ha tempo per verificare la tenuta di strada (probabilmente rivolta verso un laghetto) della sua nuova auto elettrica guidata da IA: insegue curve ben più pericolose. Le curve mozzafiato della biondissima sorella dell’informatica portano infatti il volto di Pamela Anderson: una donna esplosiva che canta in un Night Club, con una voce sexy ma stranissima, e sembra non vedere l’ora di “infornare il biscotto di Frank”, offrendogli così la colazione della vita. Sarà l’inizio di un grande amore che porterà entrambi lontanissimi dal P.L.O.T., in vacanze lontane, in una baita innevata dove una sera troveranno in soffitta una tavola Oui-Ja, forse evocheranno un demone che, impossessatosi di un pupazzo di neve, vorrà fare con loro giochi sessuali a tre nella vasca idromassaggio. Ma il P.L.O.T. alla fine  forse troverà un modo per imporsi, con tutte le sue forze, nella scombinata successione di eventi di una delle storie più anarchiche e divertenti che la recente filmografia comica abbia mai prodotto.


Ho riso “abbestia”. 

Non mi capitava da anni.  

Ho apprezzato il bravo regista Akiva Schaffer fin da quando confezionava quel piccolo gioiello di comicità demenziale di Hot Rod, passato purtroppo quasi inosservato in Italia. 

Ho riso tanto per Family Guy, American Dad, Ted e le altre strampalate opere del produttore di questo film, Seth MacFarlane, al punto che per “completismo” ho riso pure per il suo stralunato “Accalappiadenti” con The Rock nei panni di una fata dentina. 

Ero pronto a ridere qui pur con una smorfia malinconica, perché sulla scena non può più purtroppo esserci quella maschera comica incredibile che era Leslie Nielsen, nonostante in qualche modo “appaia”, come una sorta di “lunare” controparte/simbolo dell’aquila americana. 

Sognavo da anni un film con al centro “lo spirito” di un film dei fratelli Zucker, e non sto certo certo parlando di Ghost con Whoopi Goldberg e Patric Swayze, ma degli storici Top Secret!, L’aereo più pazzo del mondo. Piccoli mondi filmici in cui tutti i generi narrativi venivano sovvertiti e mischiati, mischiati e amalgamati in nome del più semplice e onesto meccanismo comico. La prima sceneggiatura di Jarry Zucker, che sarebbe diventata nel 1977 un film di John Landis, aveva già il titolo di un manifesto programmatico: Ridere per ridere. In quegli anni, carichi delle opere geniali e citazioniste di Mel Brooks, del talento camaleontico di Peter Sellers, dei primi vagiti della National Lampoons, effettivamente “si poteva farlo”: si poteva creare qualcosa con il solo fine di “ridere di tutto”, mettere alla berlina tutto, dal perbenismo alla pubblicità, dalla politica al gender, dall’istruzione “decadente” al servilismo del mondo del lavoro, dalla psicologia allo sport al sesso. Perché sì, si poteva anche parlare di sesso senza di diecimila tabù odierni, infarcendo di doppi sensi e pure parolacce, senza incombere nel forcone di qualche censore indignato. Si poteva ridere per ridere fino all’eccesso, con meccanismi comici sempre più folli e simili a skatch umoristici, che andavano a sovrapporsi e deflagrare su canovacci “canonici” dal sapore debitamente dimesso e polveroso, portarono in questo impatto alla definizione di “cinema demenziale”. 

Era un naufragare dolce in un mare di pazzia che i benpensanti scambiarono per l’anticamera del nichilismo ed edonismo che si sarebbe poi affermato negli anni ‘80, e Una pallottola spuntata è stato infatti un fierissimo film demenziale targato 1988. 


Ma ogni volta che la comicità demenziale sarebbe tornata alla ribalta, peraltro con enormi (e quindi “preoccupanti”) incassi ai botteghini, come per la saga degli Scary Movie, si è sempre avvertito il pericolo intellettuale di spegnere subito i “fuochi sovversivi”: come se chi “si abituasse troppo” del concetto di “ridere per ridere” potesse poi diventare un pessimo cittadino, magari meno “terrorizzabile dal potere costituito”. Temendo con Nietzsche che con “una risata sarebbero stati sepolti tutti”, i produttori spinsero il cinema verso forme di risata più trattenute. I “piccoli sussulti garbati” da salotto per bene. Le “boutade sarcastiche” da commedia sofisticata francese. I risolini a scatto, forse un po’ nevrotici, da commedia psicanalitica. Le “gonfie di risate gonfie di gioia infantile”, da Cartoon, offerte da buffi, ma in fondo innocui, attori con facce di gomma (che però sotto sotto erano molto più profondi e meno innocui di quanto si aspettassero). 

Ma ecco che nonostante tutto, comprese critiche preventive e finestre di lancio forse infelici, la grande commedia demenziale torna in sala oggi con questo Una pallottola spuntata versione 2025. 

Un film che trova in Liam Neeson un interprete semplicemente eccezionale e versatile nel passare con gusto e disinvoltura da maschera seria a maschera comica. Come Nielsen era passato da ruoli seri in film catastrofici della saga Airport alla loro parodia diretta, con uguale naturalezza e senso del divertimento, Neeson si diverte su set al punto da trovare, tra una risata e l’altra, una bellissima intesa con la sua co-protagonista: una Pamela Anderson recentemente “rinata” dopo la straordinaria e struggente interpretazione nel bellissimo The Last Showgirl di Gia Coppola. Pamela è così raggiante e sorridente che tra lei e Neeson sembra sia nata una piccola ma forse grande love story. In sala si vede bene come duettino; in dialoghi convenzionali che diventano subito brillanti con piccoli giochi di sguardi, scene che dovrebbero essere sexy che in realtà si rivelano buffamente tenere, momenti di puro non-sense che raccontano invece una storia. Loro funzionano e funziona con loro anche tutto l’intreccio che cerca continuamente di “sfuggire” alla storia, funziona un montaggio votato non allo spiegare quanto al confondere con ironia le carte, funzionano i tanti comprimari compresi quelli che sembrano sul set assolutamente per caso come Dave Bautista. Funziona la Detective Story mischiata all’umorismo gioiosamente surreale che da sempre era la cifra della saga di Frank Drebin. E sì, ci sono anche le parolacce: che saranno pur figlie di una “libertà espressiva” triviale, che per qualcuno suonerà solo “un po’ vintage”, ma funzionano. 


Sarebbe letale svelare sulla trama di più di quanto già detto in sinossi, è un film da scoprire da soli o in compagnia, in sala, tra amici magari attempati che vogliono solidalmente ridere “come ai vecchi tempi”, stando attenti magari a non soffocarsi con i popcorn e la coca cola tra una risata e l’altra.  Ma potrebbe piacere anche ai giovani, cresciuti magari con South Park, Rick e Morty e I Griffin e per questo oltremodo desiderosi di scoprire che “c’è anche un film” sboccacciato ed esilarante come quelle serie animate.

È di sicuro un film che fa bene alla muscolatura facciale, sollecitando la mobilità della cavità orale, spingendola in elasticità ad ampliarsi in modi più “completi”, che possiamo ritenere utili anche per accedere a una più corretta pulizia dentale. Ridere fa bene, dovremmo farlo di più. Anche il vostro dentista apprezzerà. 

Che la stella di Leslie Nielsen vi guidi verso la sala o lo streaming più vicino, per riprovare ancora una volta la piccola magia di ridere di gusto, di “ridere per ridere” al cinema come una volta. In attese che torni dallo spazio anche Mel Brooks.  

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lunedì 8 settembre 2025

Locked - In trappola: la nostra recensione del claustrofobico thriller di David Yarovesky, con protagonista assoluto un brillante Bill Skarsgard accompagnato sulla scena dalla “voce” di un cattivissimo Anthony Hopkins

America dei giorni nostri, dalle parti di un quartiere di periferia di una grande metropoli. 

Con occhiaie di tre giorni, una trasandata tintura di capelli giallo punk da rifare, una brutta felpa rosa sporca e un cielo plumbeo che non promette nulla di buono, lo scombinato Eddie (Bill Skarsgard) cerca di elemosinare, da una losca officina, il ritiro post riparazione del furgone “multi-problematico” con cui lavora e sul quale probabilmente vive. Ovviamente mancano i soldi, non si fanno prestiti e tutto ciò di cui dispone Eddie è un sorriso storto e un biglietto della lotteria, che forse potrebbe essere vincente ma “non basta”.

Riavere il furgone serve soprattutto per alzare due spicci e comprare un regalo per il compleanno imminente della figlia, che ormai vive da tempo con la sua ex, non vede più da giorni e forse non vedrà del tutto in ragione di prossimi trasferimenti. 

È l’ultima occasione per almeno sembrare di essere stato un buon padre e per Eddie c’è solo una strada da percorrere, quella “cattiva”: alleggerire qualcuno di un’auto.

Lavoro poco nobile di cui Eddie un tempo era forse esperto, ma che oggi è complicato: troppi allarmi, troppe telecamere, strade troppo affollate. Ma dal nulla, in un brutto parcheggio periferico compare lei: un SUV “Dolus” nero metallizzato: Full Optional, rivestimenti in pelle, vetri oscurati. Costerà un occhio e il fesso del proprietario non ha nemmeno guardato che fosse chiusa a chiave. Eddie non entra, ci si tuffa. Di istinto, anche solo per portare via lo stereo e telare al volo.

Ma le porte si chiudono. 

Eddie è in trappola.

Una trappola architettata da un vecchio medico ospedaliero di nome William (Anthony Hopkins), con tanto tempo libero, il complesso del giustiziere e la voglia morbosa di osservare un topo in una gabbia, la “sua gabbia”, grazie alle tante telecamere interne istallate nella “Dolus”.  

William ha lasciato che il caso scegliesse la vittima della sua vendetta contro una “società alla deriva”, non si accontenterà del sorriso storto e del biglietto della lotteria di Eddie per cambiare idea. L’interno dell’auto è blindato quanto l’esterno. 

Ben nascoste, forse delle razioni di sopravvivenza. Un microfono permette ai due di “comunicare”, anche perché per “empatizzare” servirebbero presupposti migliori e William si diverte di più a sparare nei timpani di Eddie la musica della radio a tutto volume o ad abbassare e alzare la temperatura interna da 40 a -20 gradi, con un climatizzatore effettivamente non “di serie”.

L’idea è vedere quanti giorni resisterà.

Eddie all’inizio scalcia dappertutto, sbraita, sibila minacce. Poi inizia a ferirsi cercando vie di fuga sotto la moquette o il quadro elettrico, arrivando a farsi male sempre più gravemente, in modo compulsivo come un cervo in una tagliola. Qualche volta perde i sensi e quando si sveglia si trova bendato e medicato. Non può uscire, piange. William si diverte, sordo a qualsiasi preghiera, attaccato come un bambino al suo nuovo “gioco”.

Per scappare l’unica alternativa che ha Eddie è forse rovinare quel gioco. Ma come fare?


Conosciamo e stimiamo il resista David Yarovesky da un piccolo film del 2019, prodotto da James Gunn, chiamato Brightburn. Una pellicola che immaginava una variante giovanissima e fuori controllo di Superman, per collocarla in un universo narrativo supereroistico condiviso con il personaggio di “Saetta Purpurea” del Super di Gunn, un film del 2006. Oggi Gunn dirige il Superman canonico DC, ma già in quel caso aveva permesso a Yarovesky di dimostrare un particolare talento nello sfruttare al meglio un budget ristretto, giocando con con scenografie e inquadrature, una buona direzione degli attori e ottime capacità di editing. 

Questa volta il produttore dì Yarovesky è Sam Raimi.

Bill Skarsgard è uno degli attori più interessanti e curiosi degli ultimi anni. Elegante, giovane e “ribelle” in Atomica Bionda e John Wick 4. Appropriato nel ruolo del diabolico Pennywise nel dittico It di Muschietti, non sfigurando davanti a Tim Curry, maestoso come Conte Orlok nel Nosferatu di Eggers. La sua spiccata fisicità non lo fa sfigurare neanche in action splatter folli come Boy Kills World o nell’ultimo Corvo (che lui a parte non è riuscito in effetti benissimo). 

Ci era piaciuto particolarmente però in una parte più “fragile” di quelle menzionate finora: il ruolo di “vittima designata” nel bellissimo horror psicologico Barbarian di Cregger.

Non ha bisogno invece di alcuna presentazione Sir Anthony Hopkins, che qui si diverte a fare al telefono la voce di un matto come il suo caro e mai scordato psicologo/cannibale Hannibal Lecter. Nella versione italiana del film ha la voce del doppiatore di Robin Williams Carlo Valli.

La sceneggiatura, ad opera di Michael Arlen Ross, si basa su un soggetto degli argentini Mariano Cohn e Gaston Duprat, diventato nel 2019 il film 4x4, a sua volta ispirato a un direct to video del 1998 di Peter Liapis, Captured. Possiamo trovare però alcune affinità visive anche con il “più fantascientifico” fumetto di Uzzeo e Ceccotti Monolith, diventato a sua volta una interessante pellicola di Ivan Silvestrini nel 2017, ma Locked ci ha fatto più che altro pensare a un’altra pellicola.


Fare film ambientati in spazi angusti è qualcosa di estremamente difficile quanto stimolante, tanto per gli attori che per i tecnici del montaggio e delle riprese. A volte più lo spazio è piccolo più alta è la sfida, così ci piace mettere in relazione Locked con una pellicola ambientata in un luogo ancora più piccolo di un’auto: la vecchia cabina telefonica a gettoni di quel piccolo gioiello thriller di In linea con l’assassino, di Joel Schumacher. 

In quel caso la “vittima” era un meravigliosamente spaesato, arrogante ma fragile Colin Farrell, mentre il carnefice dall’altro capo del telefono era il luciferino e istrionico Keifer Sutherland. Il “legame” tra i due, la circostanza che non faceva uscire il primo dalla cabina telefonica, era la lucetta rossa del puntatore laser di un fucile, con cui il secondo teneva sotto tiro Il primo, con tanta voglia di parlare al telefono con lui del destino, del futuro, del “più e del meno”.

Il gioco di “sopravvivenza”, del gatto con il topo in trappola, per sua natura narrato teatralmente in modo “statico”, si colorava grazie a brillanti dialoghi e improvvisazioni per la durata, condivisa da questo Locked, di circa 80 minuti. Solo che in Locked è più spazioso di una cabina il tetro SUV della immaginaria “Dolus”. È un casermone lussuoso: un’elaborazione fantasiosa di un SUV Defender che nell’insieme risulta comunque affascinante al punto che magari immaginiamo già idealmente una produzione in serie, magari in successivi capitoli di quello che potrebbe benissimo diventare una serie. Resistentissimo a ogni tipo di colpo, proiettile, scontro. Perfettamente insonorizzato, top privacy con i vetri oscurati, il meglio della tecnologia domotica e comandi a distanza applicati. Insieme a Skarsgard e Hopkins il Dolus è a ragione coprotagonista della pellicola. È divertente quando sarcastico, osservare quanto tutto gli optional che in genere servono per rendere il viaggio su un’auto il paradiso, vengano qui usati per allestire un piccolo inferno in terra. Il Dolus diventa arma massima di tortura: in grado di impedire ogni tipo di fuga, arrostire, congelare o elettrificare il “passeggero”, renderlo sordo con musica a tutto volume. Il povero ma bravissimo Bill Skarsgard si dimena in continuazione, in modo credibile, facendoci percepire tutto il dolore che il suo personaggio patisce. Il personaggio di Hopkins lo guarda arrostire/ibernarsi/impazzire come si osserverebbero svogliati delle lasagne che cuociono sui microonde. 

Semplice ma terribile, il film funziona. 


Funziona la chimica che si viene a creare tra gli attori. Funzionano degli effetti visivi molto realistici, la fotografia “plumbea”, quasi “sepolcrale” di Michael Dellatorre, la musica ossessiva di Tim Williams.

Ci sentiamo anche noi come pubblico, piano piano, trasportarti in un ambiente in cui si fa fatica a respirare e ragionare. Almeno finché la pellicola decide di “cambiare regole”, diventando di fatto qualcosa di diverso, forse di “meno estremo”. È una svolta che è perfettamente funzionale alla trama e presenta anche dei passaggi  tragici e visivi interessanti, anche splatter, ma che in qualche modo fa perdere di potenza alla narrativa. È al contempo qualcosa che forse può davvero aprire il film a nuovi sviluppi, che dei sequel appropriati saprebbero magari cogliere e valorizzare. Tuttavia è una svolta che ci porta in un film diverso, “meno teatrale”, che potrebbe piacervi come risultare magari lontani dalle aspettative maturate. 

Ad ogni modo rimane un film che sa divertire e risulta perfetto come horror da gustare al cinema con tanti popcorn.

Locked al netto di un cambio di prospettiva che forse ci ha spiazzato ci è piaciuto e ci ha convinto.

Nel paragone con In linea con l’assassino perde forse il confronto, ma con onore: come nel film di Schumacher, anche qui sono tante e interessanti le idee, la qualità dei dialoghi è alta, l’intesa tra gli attori è buona. 

Forse, se ben gestito, il punto di inizio di una saga. Chissà. 

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