martedì 7 maggio 2024

Come Fratelli - Abang e Adik: la nostra recensione della struggente opera prima scritta e diretta del talentoso Lay Jin Ong, con protagonisti Wu Kang Ren, Jack Tan e Serene Lim


Malesia. In una Kuala Lumpur dei giorni nostri, tra i cantieri loschi dove lavorano i clandestini e gli ambulanti del mercato della frutta e verdura, vivono i giovani Abang (Wu Kang-Ren) e Adik (Jack Tan). Abang, il più grande, è magro e riservato. Ama cucinare e riordinare le cose, è un lavoratore instancabile e un uomo dall’animo gentile e generoso. È muto, forse dalla nascita, ma riesce benissimo a farsi capire a gesti o grazie al campanello di cui ha munito il suo carrello della frutta fresca, con il quale riesce sempre a farsi largo nel mercato. Adik è più giovane, disordinato, attraente e dall’animo tormentato. Ha più volte cercato un lavoro onesto, ma alla fine, alla costante ricerca di denaro, è caduto tra le maglie della malavita, finendo anche con il prostituirsi. 

La “strada” li ha fatti incontrare per caso. Abang orfano senza documenti di identità che gli permettano di accedere a una vita migliore, a causa di un terribile incendio. Adik in fuga dalla sua stessa famiglia, (in)felice di vivere in clandestinità.

Si sono conosciuti da bambini girovagando nello stesso quartiere, tra poveri e clandestini che li hanno accolti nella loro grande e unica famiglia. 

Condividono da sempre lo stesso locale abitativo di due stanze e lo stesso letto, si raccontano ogni cosa, mangiando e ricucendo i loro vestiti usurati, raccogliendo in una scatola di latta le poche banconote, tirando a campare uniti, come fratelli.

Ogni volta che in tavola arrivano le uova sode, con un rituale buffo tutto loro ne rompono il guscio, “facendo toc toc”, uno sulla fronte dell’altro.

La “mamma” che la strada ha trovato per loro è la dolce transessuale Miss Money ( Tam King-Wan), ma gli anni passano e ora lei è troppo anziana per continuare a vivere in quel posto, nonostante faccia fatica a staccarvisi. 

Una giovane assistente sociale, Jia En (Serene Lim), sta cercando di occuparsi attivamente della zona come di Abang e Adik, anche forzando la macchina burocratica a operare meglio, ma l’iter per ottenere nuovi documenti sembra interminabile e i “muri di gomma” che deve abbattere sembrano non finire mai. All’ombra dei ricchi palazzi e delle luci del centro, il piccolo bilocale decadente ma accogliente di Abang e Adik, si fa sempre più stretto e spoglio. 

Il vecchio e claudicante ventilatore non riesce più a mitigare l’estate più calda di sempre. La partenza improvvisa di amici e amori si fa sempre più rapida e soffocante. Gli animi andranno a ribollire e forse a dividere la strada comune di Abang e Adik per sempre. 

Succederà qualcosa di brutto e irrimediabile. 

Ma il destino può davvero dividere due fratelli? 


Dopo essere stato il vincitore indiscusso della edizione n.25 del Far East Film Festival (2023), arriva in tutte le sale italiane 
Come fratelli, l’opera prima di Lay Jin Ong.

Nella presentare la sua opera, il regista racconta di come nella sua terra, la Malesia, la condizione di non avere dei documenti di identità sia un problema ancora diffuso, in grado di colpire migliaia di persone. Senza un'identità, difficile da ottenere perché manca di fatto una coordinazione efficace tra gli apparati burocratici periferici e centrali, non si può accedere agli ospedali come ai servizi pubblici, non si può trovare un lavoro regolare e pagato, non si può vivere in un appartamento se non in modo abusivo. 

Esposta costantemente al rischio degli sgombri e delle carceri, questa “umanità diseredata” è finita con il vivere nelle periferie, creando un “mondo a parte” sempre più complesso e ramificato, dove convivono con fatica, ma anche altruismo e solidarietà, decine di etnie diverse.

È un mondo di grandi palazzi fatiscenti pieni di camere strette, travolto da mille colori e sapori, lingue e culture. Una piccola gioiosa Babilonia, ma anche un mondo molto rischioso, di cui si avvantaggiano i più avidi e i più forti. Che sia per trovare forza lavoro come nuovi disperarti da taglieggiare, la delinquenza, che spesso abbraccia la corruzione della polizia, può decidere da un momento all’altro chi vive e chi muore.

Tutti sono in perenne scacco e scoppiano in un lampo guerre tra poveri.

La “macchina sociale del futuro”, rappresentata simbolicamente dal personaggio “tragico quanto volenteroso” della brava Serene Lim, ancora non è in grado di essere efficace, risultando presto causa esterna di ulteriori dolori.  

Le figure di riferimento della comunità, come la struggente Miss Money di Tam King-Wan, progressivamente “spariscono”.


Tra i “giovani senza documenti” c’è Abang; si “adatta”, fa ogni lavoro a testa bassa, non protesta o alza la voce. Abang si comporta da perfetto ingranaggio sociale, ma in fondo non crede quasi più al motivo per cui dovrebbe continuare a vivere in questo mondo-prigione. 

Poi ci sono quelli come Adik, che provano a cambiare il loro destino, finendo per scavarsi la fossa da soli. Di fatto sembra che inconsciamente rifiutino con tutte le forze di dare nuovamente fiducia a una istituzione-matrigna (comprendendo nella definizione la prima delle istituzioni, la famiglia), che da sempre li ha emarginati.

Non ci sono vincitori né terre promesse o felicità da raggiungere, nella simbolica “guerra sociale” che si estende lungo tutta la pellicola. Ogni “prova di sentimento” si avverte con malinconia e rimpianto, nella sfiducia assoluta che questo possa ripetersi. 

Ogni momento di ilarità e tenerezza, a volte quasi ritualmente auto-imposto, è fugace; poco più di una boccata d’aria in attesa di affogare di nuovo nel pessimismo cosmico imperante. Anche il richiamo a una comunità melting-pot ricca e inclusiva, con assonanze felici anche al cinema di Ozpetek, non è che una piccola nota di colore al grigiore emotivo che bene rispecchia un grigiore istituzionale: uno Stato che con ricalcata indifferenza, considera l’empatia alla stregua di un crimine, non guarda più ai cittadini e ai loro bisogni.

Si può voler bene a tutti questi “dimenticati” e al modo, anche eroico, con cui affrontano il loro destino. Si può parteggiare anche con chi, pur ingenuamente, cerca di cambiare le cose ma non riesce ad arrivare alla fine della sua “missione salvifica”. Tutti gli interpreti sono davvero bravi e convincenti, dando voce a personaggi comuni, spontanei quanto sfaccettati, spigolosi e a volte contraddittori, profondamente e fallacemente “umani”. Umani e ricchi di sfaccettature come lo sono i vicoli e le strade di questa periferia sovraffollata e sovraccarica di ogni tipo di oggetto e cultura. 

Certo non si fanno sconti e non ci sono finali adatti a un pubblico assuefatto da visioni favolistiche stile “e vissero felici e contenti”. Non c’è traccia di “American Dream” nella Malesia realistica e quasi psicotica che ci racconta il regista. 

Con il suo film, Lay Jin Ong ha prima di tutto voluto veicolare un forte messaggio politico: la sua pellicola è un atto d’accusa diretto alle istituzioni, con la preghiera di intervenire per salvare da una “rovina annunciata” i molti Adik e Abang che vivono e sognano un futuro nelle periferie. È un film per stimolare un forte cambiamento sociale, realizzato con tutta la passione e potenza che il cinema può dare nel veicolare questi messaggi.

Ci è piaciuto molto.

È un film molto tragico ma anche vitale, genuino, davvero imperdibile. 

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