C'è
un momento specifico in cui una persona si presume con certezza essere davvero
invecchiata: quando si ferma sulla strada a vedere gli operai che fanno gli
scavi. Non importa se sono delle fondamenta di una villa, il nuovo manto
stradale o un problema idraulico, gli "scavi" diventano affascinati,
irresistibili. L'anziano scopre di amarli e di esserne competente, di poterne dirigere i lavori, dando ordine a quei tre o quattro
"ragazzotti" maldestri che "ai miei tempi sì che erano
competenti". Anche Rambo invecchia e viene attratto dagli scavi, solo che
visto che è Rambo gli scavi non li guarda solo, "li fa lui". Così
dopo essere tornato alla casa paterna in mezzo alla prateria, essersi preso una
colf, "adottato" sua figlia e aver messo su un'azienda niente male
per l'allevamento dei cavalli, che lui in Afganistan usava per il divertente
gioco di "tira la pecora morta", Rambo scava. Scava sotto a tutta la
sua proprietà, metri e metri di trincea sotterranea piena di trappole, labirinti
e armi letali. Di più, ci dorme pure sottoterra, ascoltando la musica dei
gggiovani della "figlioccia" e prestando la tana pure per le sue
feste con gli amici. Rambo un papà modello, comprensivo anche se un po'
apprensivo, che ha messo in soffitta la bandana e il capello lungo per un più
rassicurante outfit da John Wayne, cappello e vestiti a frange compresi. Poi
però arriva la classica grana che fa succedere le cose in un film, con mia
madre che ribellandosi direbbe: "Nooo, era così bello, sembrava un film
di Rosamund Pilcher!!". La grana è che la figlioccia deve andare
all'università e prima vuole riuscire a incontrare di nuovo il padre che l'ha abbandonata, che tramite amiche ha scoperto vivere in Messico. E siccome in
Messico ci sono i Messicani, come ci ricordava Tarantino in Dal tramonto
all'alba, Rambo diventa un po' apprensivo, chiede alla ragazza di pensarci un
attimo, magari per sempre e lasciar perdere, ma lei è gggiovane, fa di testa
sua e parte per il Messico. Naturalmente le cose si metteranno malissimo, la
pupilla di Rambo finirà in uno strano giro e il settantenne reduce del Vietnam
dovrà andare a riprendersela. Lo avranno ammorbidito e reso più accomodante
quei dieci anni tra i cavalli e l'hobby delle trincee?
Scritto
in un modo piuttosto lineare, quasi didascalico, sull'impronta di un
"Giustiziere della notte 26" (ma ve lo ricordate quello con Charles
Bronson che senza senso e senza capo si metteva a uccidere cattivi con una
fiocina per la caccia agli squali? Grande cinema), l'ultimo Rambo non tradisce
un soggetto di base potente, profondamente malinconico e disperato, frutto
della grande passione di Stallone per uno dei suoi personaggi più iconici.
Rambo è inquieto, apprensivo, alla disperata ricerca di un equilibrio tra lui e
il mondo che ha per chiave l'affetto paterno verso una ragazzina. Si sforza di
sembrare una persona a modo, ma scava, dorme sotto terra e si crea lì un
piccolo mondo privato dove ha il controllo totale, dove ogni legno o traliccio
gli sono noti. Quando la vita lo mette davanti a una nuova sfida la maschera
cala del tutto e Rambo si (ri)scopre primordiale, inesorabilmente feroce e
letale come un orso, quasi eccitato all'idea di fare a pezzi qualche
centinaio di nemici senza nome. Il film così passa da Rosamund Pilcher a Non
aprite quella porta di Hooper, con un Rambo inarrestabile, grandguignolesco,
spietato abitante sotterrano di quel bunker sotto il ranch paterno che a tutti
gli effetti sono la ragnatela su cui invischiare le sue vittime. Vista
l'efferatezza della messa in scena non stupisce che il regista Adrian Grunberg
abbia diretto come seconda unità Apocalypto di Mel Gibson. Se le scene di
"calma" sono piuttosto dimesse, quasi televisive (con Stallone che
comunque ce la mette tutta per alzare il livello, ma non è aiutato dal resto
del cast), nelle scene di azione la pellicola decolla e arriva alla
stratosfera, inanellando un "bodies count" da punteggio da flipper
che farà la gioia incondizionata degli amanti della azione più slasher, quasi
in zona body-horror. Rambo 5 è il film ideale da vedere in una giornata in cui
siete incazzati con il mondo, vi scaricherà la rabbia come poche cose. Sembra
che Stallone si sia divertito un mondo a girarlo, se andrà bene ai botteghini
pensa di essere pronto a darci un nuovo capitolo e noi siamo entusiasti di
vedertelo così carico e così in forma, con uno stile recitativo sempre più
affinato quanto primordiale. Peccato per la trama davvero inconsistente, che
relega a figurine tutto il resto del cast che non è Rambo e fa cadere la
pellicola nel cestone del film di genere per appassionati, quando il quarto
film risultava meglio costruito e aveva risollevato la serie dopo lo scivolone
esasperato del terzo episodio. Ma da amanti della saga non potete davvero
perderlo e volergli bene, chiudendo un occhio e magari due sui difetti più
macroscopici e facendovi trascinare dalla epica colonna sonora di Brian Tyler.
E non manca, perché non poteva mancare, naturalmente, "It's a long
road" di Jerry Goldsmith, cantata da Dan Hill.
Più che
un film su un soldato, un film su una specie di mostro malinconico che vive in
una casetta della provincia americana. La scrittura un po' scriteriata non dona
alle vicende il giusto respiro di favola nera che avrebbe potuto trarne un
regista come Del Toro, né la sagacia politica che avrebbe ispirato un Tobe
Hooper. Ma il soggetto c'è, Stallone c'è, le scene d'azione sono cattivissime
quanto esaltanti per chi apprezza le cose di questo tipo "quasi da
horror" e quando il film ingrana, va fino in fondo, con la platea che a un
certo punto inizierà magari a sorridere delle trappole mortali sempre più
esagerate architettate da quel vecchietto arzillo, ma ancora
"enorme", di Stallone. Per gli amanti dei fumetti giapponesi mi sento
di dire che questo Rambo ha un po' sublimato il personaggio base, che potremmo
accostare ad un Ken il guerriero di Hara, per andare a impersonificare un
Violence Jack di Nagaiana memoria. Novanta minuti che volano via, salvo nelle
parti da Rosmund Pilcher.
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